Cary Grant fu l’incarnazione dell’eleganza su celluloide, un uomo capace di rendere sofisticata anche una battuta leggera e di dare profondità a ruoli che avrebbero potuto rimanere in superficie. Eppure, nonostante una carriera che definì l’archetipo stesso della star del cinema classico americano, Grant non vinse mai un Oscar competitivo per la sua recitazione.
Per comprenderne il motivo, bisogna risalire all’anima anticonformista dell’attore, e al sistema rigido e vendicativo degli studios hollywoodiani della Golden Age. Nato Archibald Leach a Bristol, in Inghilterra, Grant entrò a far parte del sistema delle major firmando un contratto con la Paramount Pictures sotto la presidenza di Adolph Zukor. Fu un’esperienza che lo segnò profondamente: vincolato da condizioni che considerava ingiuste, Grant giurò a sé stesso che non avrebbe mai più permesso a uno studio di possederlo.
E mantenne quella promessa. Fu uno dei primi attori di spicco a scegliere il freelance come forma di carriera, in un’epoca in cui le star erano vincolate da lunghi contratti esclusivi che le rendevano proprietà intellettuale delle major. Grant divenne così il proprio agente, selezionando progetti che valorizzassero il suo carisma, il suo tempismo comico e la sua capacità di passare dal brillante al drammatico con disinvoltura. Lavorò con i migliori — Alfred Hitchcock, Howard Hawks, George Cukor — e rifiutò proposte che non lo convincevano, anche se provenienti dai più potenti produttori dell’epoca.
Ma questa libertà, se lo rese una figura ammirata dal pubblico e stimata dai colleghi, gli alienò i favori di coloro che gestivano i meccanismi dell’Oscar. All’epoca, infatti, erano gli studios a proporre le candidature agli Academy Awards, sostenendole con intere campagne pubblicitarie e relazioni con i votanti. Nessuno studio, però, era disposto a promuovere un attore che non apparteneva a nessuno. Grant era un battitore libero, e Hollywood, che all’epoca premiava la lealtà contrattuale, non perdonava l’autonomia.
Nonostante avesse recitato in classici immortali come Notorious, Bringing Up Baby, North by Northwest, His Girl Friday e An Affair to Remember, Cary Grant non ricevette mai il sostegno industriale necessario per arrivare alla statuetta dorata. Il paradosso era tanto più evidente quanto più la sua carriera dimostrava una costanza qualitativa che pochi altri attori potevano vantare.
A rendere il tutto più beffardo, vi fu anche il ritiro anticipato dalle scene. Dopo Walk Don’t Run del 1966, Grant decise di lasciare il cinema. Aveva allora 62 anni e, benché ancora pienamente capace, preferì dedicarsi alla famiglia e agli affari, evitando di invecchiare davanti alla cinepresa.
Solo nel 1970, e solo grazie alla pressione diretta del presidente dell’Academy, l’amico e collega Gregory Peck, Grant ricevette finalmente un riconoscimento ufficiale dall’industria: un Oscar alla carriera. Una premiazione celebrativa, sì, ma tardiva, e per molti versi fredda, quasi imposta.
Quella sera, Grant salì sul palco con il suo consueto aplomb, ringraziando con ironia e senza traccia di amarezza. Ma l’ingiustizia rimase scolpita nella storia del cinema. Perché se c’è stato un attore che ha definito lo standard dell’eleganza hollywoodiana, della versatilità recitativa e del fascino duraturo, fu proprio lui. E che l’Academy non abbia mai saputo premiarlo nel pieno del suo splendore resta uno dei suoi più grandi abbagli.
Cary Grant non vinse un Oscar competitivo perché era troppo avanti per il suo tempo, troppo indipendente per essere controllato, e troppo fedele a sé stesso per piegarsi alle regole di un sistema che, in cambio della gloria, chiedeva obbedienza.
Una lezione che, oggi più che mai, risuona con forza tra chi nel cinema cerca libertà, non consenso.
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