Nel firmamento dorato di Hollywood, costellato di sogni e follie, pochi progetti incarnano lo sfarzo, l’ossessione e lo spreco come “Hell’s Angels” di Howard Hughes. Definirlo semplicemente un film è riduttivo: fu un monumentale esperimento di egomania artistica, un’impresa che piegò tecnologia, tempo e fortuna alla visione intransigente di un solo uomo. E, per molti storici del cinema, rappresenta forse il più grande spreco di pellicola mai realizzato nella storia della settima arte.
Era la fine degli anni Venti. Mentre il mondo intero assisteva al tramonto del cinema muto e all’alba del sonoro, Hughes — miliardario texano, aviatore e industriale con velleità da cineasta — decise di girare il film di guerra definitivo. Non uno dei tanti drammi bellici romantici, ma uno spettacolo senza precedenti: un’odissea tra cielo e fuoco, con battaglie aeree mai viste prima, riprese in volo reale, senza modelli in scala o trucchi ottici.
Il risultato fu “Hell’s Angels”, una storia ambientata durante la Prima Guerra Mondiale, centrata su due fratelli britannici e il loro coinvolgimento nella Royal Flying Corps. Ma il vero protagonista del film fu il cielo: una sequenza infinita di duelli tra biplani, manovre acrobatiche e nuvole squarciate dal fuoco.
Hughes ingaggiò più di 70 piloti professionisti, costruì hangar appositi, acquistò e restaurò decine di aerei d’epoca — molti dei quali vennero distrutti durante le riprese. Quattro piloti morirono. Lui stesso, senza alcuna reale esperienza, si mise ai comandi di un velivolo per girare una scena particolarmente difficile. Si schiantò, si ruppe il cranio, e miracolosamente sopravvisse.
Eppure, questo era solo l’inizio. Con un budget iniziale previsto attorno ai 500.000 dollari, il film finì per costarne oltre 4 milioni — una cifra astronomica all’epoca, pari a circa 70 milioni odierni, anche secondo le stime più prudenti.
L’aspetto più sconcertante fu l’incredibile quantità di pellicola sprecata: Hughes rigirò praticamente tutte le sequenze aeree, insoddisfatto della resa visiva. In un primo momento, aveva girato con cielo sereno, ma si rese conto che la limpidezza dell’orizzonte annullava la percezione della velocità degli aerei. Così aspettò giorni nuvolosi, rigirando tutto da capo.
Quando “Hell’s Angels” era quasi completo, Hollywood fu travolta dalla rivoluzione del sonoro, sancita dal successo de “Il cantante di jazz” (1927). Hughes, pur avendo girato tutto come film muto, non volle cedere il passo alla modernità con un’opera già obsoleta. Decise di rigirare gran parte delle scene principali con audio sincronizzato, impresa titanica che comportò la riscrittura del copione e il licenziamento della protagonista Greta Nissen, attrice norvegese dalla forte inflessione. Al suo posto fu ingaggiata una giovane Jean Harlow, che con la sua sensualità e il suo stile disinvolto sarebbe diventata una leggenda del cinema pre-Code.
Questa scelta, però, moltiplicò il girato a dismisura. La quantità di pellicola utilizzata per girare “Hell’s Angels” è stimata in oltre 500.000 piedi — più di 150 chilometri, l’equivalente di quasi 80 ore di filmati. Tutto per un film che, nella versione finale, durava meno di due ore e mezza. Il materiale di scarto fu talmente abbondante da richiedere un intero magazzino per essere archiviato e catalogato. Il processo di montaggio durò oltre un anno, con decine di montatori impegnati giorno e notte.
Alla sua uscita nel 1930, “Hell’s Angels” fu accolto con clamore. La critica elogiò le spettacolari sequenze aeree e la fotografia innovativa. Il pubblico affollò le sale, spinto dalla fama del progetto e dalla scandalosa bellezza della Harlow. Il film incassò oltre 8 milioni di dollari, cifra impressionante per l’epoca, eppure non sufficiente a ripagare gli investimenti personali di Hughes, che dovette ipotecare parte del suo impero industriale per sostenere la produzione.
Nonostante l’ammirazione suscitata, l’opera resta un caso emblematico di dispendiosità smisurata, con un rapporto tra pellicola girata e utilizzata tra i più sfavorevoli della storia del cinema. Nessun altro film, nemmeno le moderne megaproduzioni digitali, ha raggiunto una tale discrepanza tra girato e montato finale, né una tale quantità di risorse bruciate — letteralmente — nella ricerca della perfezione.
“Hell’s Angels” non è solo il simbolo del perfezionismo di Hughes, ma anche un monito eterno sul prezzo dell’ambizione illimitata. Il film ha segnato un’epoca e cambiato la percezione del realismo nel cinema di guerra, ma ha anche mostrato quanto può costare non porre limiti all’ego di un regista-produttore.
Oggi, tra gli archivi della storia del cinema, “Hell’s Angels” brilla ancora come una cometa che ha consumato sé stessa nell’atto di splendere. Un’opera maestosa e rovinosa, frutto di una visione irripetibile — e, forse, del più colossale spreco di pellicola mai registrato su celluloide.
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