Paul Newman affrontò la realizzazione de La stangata come una delle esperienze più complesse e trasformative della sua carriera attoriale, e non lo nascose mai. Al di là del successo commerciale e dei riconoscimenti dell'Academy, per Newman il film rappresentò una prova d’equilibrio tra rigore tecnico, sottigliezza espressiva e disciplina artistica, che ridefinì il suo modo di concepire la recitazione.
Interpretando Henry Gondorff, un truffatore sofisticato e contenuto, Newman dovette abbandonare gli istinti espressivi a cui era abituato. “Gondorff non era un tipo dalla parlantina sciolta,” dichiarò in un’intervista del 1974, “era un uomo calcolatore, stratificato. Una maschera più difficile da indossare di quanto si creda.” Non si trattava di una recitazione “piena” o caricaturale, ma di un lavoro di cesello, dove ogni gesto doveva trasmettere molto, pur dicendo poco. L'approccio richiesto da La stangata, a detta dell'attore, era “più musica classica che jazz”, in netto contrasto con l’energia estemporanea che aveva condiviso con Robert Redford in Butch Cassidy. La regia di George Roy Hill non ammetteva sbavature o improvvisazioni: ogni tempo comico, ogni sguardo, ogni pausa doveva essere coreografato con estrema precisione.
Una delle sfide più significative per Newman fu la celebre scena del poker sul treno, in cui Gondorff finge di essere ubriaco mentre inganna il boss mafioso Doyle Lonnegan. Newman la definì una delle sequenze più difficili della sua carriera, e non per la recitazione in sé, ma per l’impegno fisico e mentale che richiese. “Tracannavo litri di succo di mela e root beer per sembrare ubriaco. Dopo ore di riprese, mi sembrava di esplodere. Ma George continuava a dire: ‘Ancora una ripresa’”. La ricerca della perfezione da parte di Hill fu estenuante, ma, secondo Newman, fu anche ciò che garantì al film la sua impeccabile eleganza formale.
Per rendere credibile l’arte dell’inganno, Newman si immerse in un percorso di apprendimento autentico. Studiò le tecniche dei truffatori professionisti e passò giorni con un ex giocatore di carte che gli insegnò segnali, movimenti sottili, tecniche di distrazione. “Era come imparare una nuova lingua,” raccontò. Le sessioni d’allenamento si rivelarono così intense da procurargli vesciche ai pollici. Era, come lui stesso disse, “come prepararsi a un incontro di boxe, solo che l’avversario era la macchina da presa”.
E non mancarono gli incidenti. Durante le prove, Newman si procurò una distorsione alla caviglia, ma rifiutò l’uso di una controfigura. Continuò a girare, stringendo i denti. Un membro della troupe ricordò che in alcune scene sul treno “zoppicava leggermente, ma nessuno lo avrebbe notato. Era determinato a non farsi rubare la scena da Redford.” La competitività tra i due attori, amichevole ma concreta, contribuì a innalzare il livello delle loro interpretazioni.
Newman saltò la cerimonia degli Oscar del 1974, dove La stangata vinse sette premi, incluso quello per Miglior Film. Intervistato dalla rivista People, spiegò la sua assenza con disarmante sincerità: “Ero felice per George e per la troupe. Ma non avevo bisogno di una statuetta per sapere che avevamo fatto centro. L’ho capito vedendo Redford ridere guardando l’ultima scena del film.”
Anni dopo, in un tributo alla Turner Classic Movies, Newman rifletté su cosa La stangata avesse significato per lui. “Recitare in modo diretto, sapendo che la battuta vera era nascosta, è la cosa più difficile che ci sia. È come fare commedia con una camicia di forza.” Il film gli insegnò il valore della sottrazione, della precisione, del controllo: un’eredità che influenzò profondamente le sue interpretazioni successive.
Per Paul Newman, dunque, La stangata non fu solo un capolavoro cinematografico, ma un esercizio di disciplina e maestria, un’opera che lo costrinse a ridefinirsi come attore. Non fu la gloria del botteghino o l’oro degli Oscar a consacrare quel film, ma la consapevolezza, maturata giorno dopo giorno sul set, che il fascino più autentico nasce dalla misura e dalla verità del dettaglio.
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