Hollywood non è mai stata a corto di storie sulle meteore bruciate troppo in fretta, sugli idoli divorati dal loro stesso mito. Ma forse nessun caso è più emblematico, più tristemente eloquente, di quello di Errol Flynn: l’uomo che diede un volto all’eroismo romantico sul grande schermo, ma che, lontano dai riflettori, odiava profondamente quel volto.

Era il 1935. La Warner Bros. cercava disperatamente un protagonista per “Capitan Blood”, un film di cappa e spada tratto dal romanzo di Rafael Sabatini. Alcuni attori avevano già rifiutato il ruolo – troppo rischioso, troppo pomposo, troppo irrealistico. Ma Jack Warner, fiutando il potenziale, puntò su uno sconosciuto australiano di 26 anni, dal volto scolpito e dal portamento aristocratico: Errol Flynn.

Il film fu un successo travolgente. In una sola notte, Flynn passò dall’essere un semi-anonimo attore teatrale e comparsa cinematografica a leggenda vivente del cinema d’avventura. Seguì una lunga serie di successi al botteghino: La carica dei seicento (1936), La leggenda di Robin Hood (1938), La Storia del Generale Custer (1941). Ogni titolo consolidava la sua immagine: l’eroe spavaldo, affascinante, virile, invincibile. L’archetipo perfetto dell’uomo che ogni spettatore voleva essere, e ogni spettatrice amava.

Ma quella stessa immagine, così lucente all’esterno, era una gabbia dorata. Nei suoi diari, nelle lettere e nelle interviste più tarde, Flynn confidò una verità amara: non aveva mai voluto essere quel tipo di attore. Bruciava dal desiderio di cimentarsi con ruoli più complessi, più oscuri, più umani. Voleva essere considerato un interprete serio, non solo un acrobata vestito da pirata.

Lo disse chiaramente più volte: "Mi hanno dato una spada, un paio di calzamaglia e un sorriso. Poi hanno deciso che quello era tutto ciò che potevo fare." Il sistema degli studios, con la sua logica industriale e rigida, non lasciava spazio a deviazioni. Quando Flynn tentò, con film come L’esemplare perfetto (1937) o Passi nel buio (1941), il pubblico si mostrò freddo e le casse degli incassi lo furono ancora di più. Il verdetto fu semplice e crudele: "Torna a brandire la spada".

Jack Warner, uomo d’affari spietato, non aveva interesse per le ambizioni artistiche di Flynn. Lo voleva su un galeone, con il petto scoperto e il pugnale in mano. Flynn divenne così prigioniero del proprio successo. Ogni film che lo rendeva più celebre era anche un altro chiodo nel feretro della sua aspirazione artistica.

Il risentimento crebbe. In privato, Flynn cadeva spesso in stati depressivi, alternati a periodi di eccessi autodistruttivi: alcol, droghe, relazioni burrascose. La sua vita personale fu segnata da scandali e controversie, alcune delle quali finirono persino in tribunale. L’uomo, dietro la maschera dell’eroe, stava lentamente disfacendosi.

Nel dopoguerra, il declino fu rapido. Il pubblico cambiava, il genere d’avventura classico sembrava sempre più anacronistico, e Flynn – un tempo adorato come la quintessenza del coraggio e della bellezza maschile – diventava una figura fuori posto. Tentò un parziale rilancio con ruoli più disillusi, come in La rotta dei dannati (1952), ma era troppo tardi. Hollywood aveva già trovato nuovi idoli, e non era più disposta a riconoscere dignità a chi era stato definito per sempre con un solo costume.

Errol Flynn morì nel 1959, a 50 anni, di infarto. Il suo corpo era logoro, come la sua immagine pubblica. Lasciava un’eredità contraddittoria: da un lato, il ricordo eterno dell’avventuriero cinematografico per eccellenza; dall’altro, la tragedia umana di un attore ridotto a un cliché, ignorato nei suoi tentativi di emancipazione artistica, dimenticato dai suoi contemporanei più esigenti.

Il suo caso resta un monito crudele sull’effimera natura del successo hollywoodiano: la fama può costruire un impero, ma può anche distruggere l’uomo che l’ha generata. Per Errol Flynn, “Capitan Blood” fu la porta d’accesso al mito. Ma dietro quella porta, c’era una cella da cui non sarebbe mai più uscito.