Robin Hood è senza dubbio uno degli archetipi più duraturi della cultura occidentale. Il fuorilegge gentiluomo, l’arciere infallibile, il bandito dal cuore d’oro che ruba ai ricchi per dare ai poveri, è diventato un'icona transgenerazionale, protagonista di ballate medievali, romanzi ottocenteschi e decine di trasposizioni cinematografiche. Ma dietro la tunica verde e l’ombra degli alberi di Sherwood si cela una realtà storica molto più sfumata e, sorprendentemente, mai rappresentata fedelmente da Hollywood.

Per cominciare, Robin Hood non è mai stato una persona reale nel senso stretto del termine. Nessuna cronaca medievale affidabile menziona un “Sir Robin di Loxley” nel XII secolo, sebbene diversi documenti riferiscano di fuorilegge chiamati “Robinhood” o “Robehod” – appellativi generici per indicare banditi o ribelli. Il nome “Robin” stesso deriva probabilmente da una contrazione di Robert, ma nel contesto delle ballate tardo-medievali si fonde con la parola robber (rapinatore), mentre “Hood” richiama l’immagine archetipica del fuorilegge incappucciato. Non si trattava, insomma, di una figura storica, bensì di una costruzione narrativa collettiva, arricchita, riplasmata e politicizzata nei secoli.

Le prime ballate su Robin Hood, risalenti al XIV secolo, non lo descrivono come un nobile caduto in disgrazia, ma come un bandito abilissimo, orgogliosamente plebeo, dotato di un forte senso della giustizia popolare. La foresta, nella letteratura medievale, non era solo uno sfondo: era uno spazio liminale, quasi sacro, dove le leggi oppressive non valevano e dove era possibile immaginare un mondo alternativo. Robin rappresentava una ribellione latente contro un sistema percepito come corrotto e ingiusto.

Solo più tardi, nel XV e XVI secolo, con l’evoluzione della figura romantica del cavaliere e la censura delle autorità ecclesiastiche e statali, Robin fu “nobilitato”: diventò Sir Robin di Loxley, fu trasformato in un leale servitore del re Riccardo Cuor di Leone e nemico giurato del tirannico principe Giovanni. Questa trasformazione aveva un duplice scopo: addomesticare la figura del ribelle e rendere la sua storia compatibile con la propaganda monarchica.

Il Robin Hood delle ballate più antiche – quello che non è nobile, non combatte per un re e non vive solo per amore di Lady Marian – è, paradossalmente, anche il più radicale. E forse è proprio per questo che Hollywood non ha mai osato rappresentarlo in modo autentico.

Nel contesto cinematografico, soprattutto quello statunitense del dopoguerra, Robin Hood è stato trasformato in un difensore della giustizia morale all’interno di un ordine legittimo, piuttosto che in un sovversivo. Dai fasti del film con Errol Flynn nel 1938 (The Adventures of Robin Hood) alla versione con Kevin Costner (Robin Hood: Prince of Thieves, 1991), fino al più recente tentativo con Taron Egerton (2018), la figura di Robin è sempre stata riflesso di valori “accettabili”: lealtà, coraggio, monogamia romantica, patriottismo.

Hollywood ha preferito costruire una narrazione in cui il potere è corrotto solo temporaneamente, e in cui l’eroe combatte per ripristinare l’ordine legittimo, piuttosto che per abbatterlo. Un Robin Hood popolano, cinico, mosso da un profondo risentimento contro la classe dominante normanna – che, ricordiamolo, aveva spodestato l’aristocrazia anglosassone con la conquista del 1066 – avrebbe posto domande troppo scomode per uno spettacolo mainstream.

Infatti, il cuore oscuro della leggenda risiede nella sua funzione originaria: dare voce al malcontento sociale senza incitare apertamente alla rivolta. Era un personaggio che parlava agli oppressi, ma in modo sufficientemente velato da non essere censurato. Rivelava ciò che non si poteva dire: che il potere normanno era invasivo, crudele, estraneo, e che i sassoni – il popolo “vero” d’Inghilterra – erano le vittime dimenticate.

Robin Hood, in fondo, rappresenta una nostalgia per un’Inghilterra che non è mai esistita, una mitologia costruita sul desiderio di giustizia e sulla denuncia dell’abuso. È un simbolo ambivalente: tanto eroe quanto criminale, tanto liberatore quanto fuorilegge. Ma questa ambivalenza mal si concilia con i codici rigidi del cinema d’intrattenimento, che richiede una morale chiara, una distinzione netta tra bene e male, e possibilmente un lieto fine.

Ecco perché la versione storicamente più accurata di Robin – quella delle ballate medievali, dove è un fuorilegge plebeo che sfida apertamente la nobiltà e le leggi del tempo – è rimasta confinata negli archivi accademici e nei margini della cultura popolare.

Forse un giorno il cinema avrà il coraggio di raccontarla. Fino ad allora, continueremo a vedere Robin Hood non per quello che era, ma per quello che ci fa comodo credere che sia. E la foresta di Sherwood, con i suoi segreti e i suoi banditi, resterà ancora una volta l’ombra mitica di una rivolta mai del tutto sopita.