Come una brillante sceneggiatura storica è diventata l’ennesimo blockbuster dimenticabile

Nel cuore dell’industria cinematografica, là dove convergono talento e denaro, c’è una verità tanto amara quanto inevitabile: una sceneggiatura eccellente può diventare un film mediocre, o peggio ancora, dimenticabile. Il caso di Nottingham, trasformato poi in Robin Hood (2010), diretto da Ridley Scott e interpretato da Russell Crowe, è un perfetto esempio di come il potenziale narrativo possa essere soffocato dall’interferenza creativa e dalle logiche commerciali.

La versione originale del progetto, concepita dagli sceneggiatori Ethan Reiff e Cyrus Voris, era un affascinante giallo storico: uno sceriffo di Nottingham disilluso, immerso in un’indagine su una serie di omicidi avvenuti nel cuore dell’Inghilterra medievale. Robin Hood non era l’eroe protagonista, bensì una figura marginale e ambigua, un possibile sospetto da rivalutare nel corso dell’indagine. Lo sceriffo, invece, emergeva come un investigatore cupo, alle prese con i limiti della giustizia e le ombre della propria coscienza. Il tutto veniva incorniciato da un raro rigore storico, lontano dagli stereotipi fantasy che troppo spesso avvolgono le rievocazioni medievali.

Una premessa promettente. Un film, forse, che avrebbe potuto ridefinire il mito di Robin Hood. Ma Hollywood, si sa, ha poca pazienza per le deviazioni narrative. Quando il progetto attirò l’attenzione di Russell Crowe, l’attore espresse il desiderio — o meglio, la pretesa — di interpretare Robin Hood. Nulla di strano, se non fosse che la sceneggiatura originale non prevedeva Robin come protagonista. E proprio in questo snodo inizia la lenta ma inesorabile disgregazione del progetto originario.

Per accontentare Crowe, fu coinvolto Ridley Scott, regista di enorme prestigio ma anche noto per il suo approccio dominante alla produzione. Scott voleva battaglie, frecce scoccate al rallentatore, scontri epici: CSI: Sherwood — come ironicamente lo definì Crowe — non era nei suoi piani. I produttori, abbagliati dalla possibilità di un grande nome alla regia e da una star al comando, acconsentirono a riscrivere la sceneggiatura.

Quel che seguì fu una lunga serie di riscritture, sovrascritture, compromessi e cedimenti, fino a trasformare un progetto unico in un prodotto seriale: l’ennesima origin story di Robin Hood. Un personaggio già raccontato decine di volte venne rispolverato senza una reale esigenza narrativa, e con un tono drammatico e realistico che sembrava voler replicare il successo di Il Gladiatore, ma senza la medesima potenza epica o coerenza tematica.

Il risultato fu un film che, pur non privo di qualità tecniche e visive, risultava anonimo, impantanato in un’identità narrativa confusa. Troppo cupo per essere un’avventura, troppo convenzionale per essere un’opera drammatica. Gli spunti investigativi della sceneggiatura originale furono del tutto espunti, lasciando spazio a un racconto lineare e prevedibile. E la Latitudine morale dello sceriffo di Nottingham — uno dei punti più innovativi del progetto — venne sacrificata in favore di antagonisti più semplicistici.

La vicenda di Nottingham è esemplare perché ci ricorda che l’ingerenza creativa può essere tanto distruttiva quanto la mancanza di idee. Inseguire il prestigio dei nomi, piegare la sceneggiatura alle esigenze delle star o ai gusti presunti del pubblico, raramente porta a risultati memorabili. Nel processo di produzione di un film, la scrittura dovrebbe essere la stella polare. Invece, troppo spesso, finisce per essere il primo sacrificio sull’altare del marketing.

La storia del mancato Nottingham non è dunque solo il racconto di un’opportunità sprecata, ma una lezione su quanto fragile possa essere l’arte della narrazione cinematografica, quando smette di rispondere alla coerenza interna della storia per piegarsi all'ego di chi ha il potere di cambiarla.