Nell’immaginario collettivo americano, il volto pallido e canzonatorio del “nonno Munster” è diventato una delle icone più affettuosamente grottesche della televisione degli anni ’60. Ma dietro il suo abito da Dracula pensionato e la risata cavernosa si nasconde una domanda apparentemente banale, eppure ricca di implicazioni storiche, culturali e produttive: perché il nonno Munster è un vampiro e non un lupo mannaro?

La risposta non risiede in un albero genealogico coerente o in una mitologia interna solida. Non c’entra la biologia fittizia, né la coerenza narrativa. La risposta è molto più semplice, e al tempo stesso più interessante: perché era più redditizio.

Nel 1957, la NBC lanciò in syndication un pacchetto di 52 film horror classici della Universal Pictures, chiamato “Shock Theater”. L’operazione, apparentemente marginale, ebbe un effetto culturale dirompente. In un’epoca in cui la televisione iniziava a imporsi come fulcro dell’intrattenimento domestico, i bambini di tutta l’America iniziarono a scoprire – o riscoprire – le icone del cinema horror: Dracula, Frankenstein, l’Uomo Lupo, la Mummia e gli altri “mostri sacri” della Universal.

Tra gli spettatori incantati da questi mostri del passato c’erano futuri registi come Steven Spielberg e George Lucas, ma anche editori, produttori e sceneggiatori televisivi. La loro fascinazione generò un’ondata di revival mostruosi nella cultura pop americana, dalla produzione di modellini e maschere per Halloween fino alla pubblicazione di riviste come Famous Monsters of Filmland, curata da Forrest J. Ackerman, autentico ponte tra il culto del passato e la mercificazione del presente.

È in questo contesto che nasce “I Mostri” (“The Munsters”), una sitcom trasmessa per la prima volta dalla CBS il 24 settembre 1964, creata da Joe Connelly e Bob Mosher, già noti per “Lascia fare a Beaver”. Ma a differenza del suo diretto concorrente, “La Famiglia Addams” della ABC, che pescava dalla creatività macabra e surreale delle vignette di Charles Addams pubblicate sul New Yorker, “I Mostri” si fondava su un’intuizione commerciale precisa: cavalcare la mostromania americana attingendo direttamente dal patrimonio della Universal Pictures, che collaborò attivamente alla produzione della serie, mettendo a disposizione i diritti, le immagini e il make-up iconico dei propri mostri.

Il progetto, in sostanza, non era pensato per essere coerente. Era pensato per vendere.

In questo schema, ogni membro della famiglia Munster doveva rappresentare un archetipo visivo immediatamente riconoscibile: Herman Munster era il Mostro di Frankenstein; Lily Munster era una vampira in stile sposa gotica; Eddie, il figlio, era un giovane lupo mannaro, forse per rendere omaggio a Lon Chaney Jr.; e infine, il nonno… il nonno non poteva che essere Dracula. O meglio, una parodia televisiva affettuosa e farsesca del Dracula cinematografico degli anni ’30.

La scelta, quindi, non fu dettata dalla genealogia o dalla mitologia interna, ma dal desiderio di mettere insieme una squadra che evocasse tutti i mostri principali del catalogo Universal. Un lupo mannaro anziano? Non avrebbe avuto lo stesso impatto visivo. L’anziano vampiro, invece, era un’immagine già sedimentata nell’immaginario popolare: il mantello nero, la carnagione livida, l’accento mitteleuropeo, il castello con laboratorio… tutti elementi pronti per essere riproposti in chiave comica, senza alcuna preoccupazione per la verosimiglianza.

La verità è che “I Mostri” non cercavano la coerenza: cercavano il riconoscimento immediato.

E il pubblico rispose. Anche se la serie durò solo due stagioni (70 episodi tra il 1964 e il 1966), divenne un classico del piccolo schermo, un cult trasmesso ininterrottamente in replica per decenni. E proprio il nonno, interpretato da Al Lewis, divenne uno dei personaggi più amati: mezzo scienziato pazzo, mezzo nonno amorevole, completamente sopra le righe. Un Dracula che vive in garage e crea pozioni per aiutare il nipote con i compiti.

Oggi possiamo leggere questa scelta come un riflesso perfetto della cultura televisiva americana degli anni ’60: superficiale, commerciale, ma straordinariamente efficace. “I Mostri” era una sitcom familiare travestita da horror. Non un racconto di paura, ma una celebrazione della diversità grottesca attraverso la lente della risata.

Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: il nonno Munster è un vampiro, e non un lupo mannaro, perché Dracula vendeva di più. Perché era più riconoscibile. Più facile da ridicolizzare. E, soprattutto, perché i creatori della serie non stavano scrivendo un saggio sull’eredità dei mostri nella letteratura gotica, ma una sitcom da 25 minuti destinata a famiglie americane in cerca di intrattenimento leggero in bianco e nero.

Nel mondo di “I Mostri”, l’anatomia della paura viene sezionata con il bisturi dell’ironia. E in questo esperimento televisivo, il nonno Dracula è stato il colpo di scena più riuscito.