La videoarte – in inglese video art –
è un linguaggio artistico basato sulla creazione e riproduzione di
immagini in movimento mediante strumentazioni video.
Attualmente lo sviluppo della
tecnologia, cui è legata questa forma di espressione, rende
particolarmente vivace la produzione nel campo della videoarte, che
in modo esteso si avvale di ogni tipo di piattaforma e di supporto
disponibile: basti pensare all'utilizzo di schermi al plasma e LCD,
di proiezioni sempre più luminose e di supporti digitali, del
personal computer, del web, dei minischermi LCD di cui sono muniti
gli smartphones, fino alle possibilità date dalle nuove tecnologie
HD, con evoluzioni in direzione di una qualità sempre maggiore.
La stretta interazione tra arte e
scienza/tecnologia ha imposto specifici parametri di fruizione
rispetto all'arte tradizionale e riaperto la riflessione
sull'incontro tra produzione creativa e processo tecnologico, che
Walter Benjamin aveva individuato in L'opera d'arte nell'epoca della
sua riproducibilità tecnica, del 1936, con riferimento alla
fotografia e alla questione dell'originalità delle opere
fotografiche prodotte in più esemplari. La problematica è condotta
alle estreme conseguenze dalla riproducibilità totale dell'opera
digitale, in cui le copie sono identiche all'originale e possono
essere modificate.
Il termine videoarte (coniato dal
mercato dell'arte newyorkese) segue cronologicamente la definizione
di Nam June Paik (tra i pionieri, assieme ai Vasulka e a Godfrey
Reggio, della prima epoca della videoarte), che intitolava una sua
personale del 1968 a New York Electronic Art, dando una prima
definizione di utilizzo del mezzo video, in particolare in questo
caso corrispondente all'uso di televisori.
Nel 1958 Wolf Vostell realizzò Das
schwarze Zimmer, una installazione che incorporava un televisore e
nel 1963 realizzò 6 TV Dé-coll/age una installazione che
incorporava 6 televisori nella Smolin Gallery di New York e realizzò
il video Sun in your head.
Possiamo identificare nella seconda
metà degli anni sessanta il momento della nascita della videoarte.
Nel 1963 Nam June Paik realizza Exposition of Music-Electronic
Television, considerato oggi il primo atto concreto di pratica della
videoarte. La svolta decisiva e il riconoscimento ufficiale di questa
nuova sperimentazione artistica è comunque nel 1968 con la mostra
curata da Pontus Hulten al MOMA di New York The machine as seen at
the end of the mechanical age che segna il passaggio dall'epoca della
macchina a quella della tecnologia. In questa mostra Nam June Paik
utilizza per la prima volta un primitivo videoregistratore e nello
stesso anno, dall'altra parte dell'oceano, all'Institute of
Contemporary Art di Londra Jasia Reichardt realizza il progetto
espositivo Cybernetic serendipity insieme ad un esperto di tecnologia
ed uno di musica: i visitatori vengono avvertiti che non avrebbero
capito con facilità se le opere erano state realizzate da un artista
o da uno scienziato. Il binomio arte e tecnologia è stato incalzante
fin dall'inizio, se pensiamo che nel gennaio del 1969, all'Armory di
New York, viene organizzata la serie di eventi 9 evenings dal gruppo
di artisti Eat – Experiments in art and technology, che ha iniziato
a riunirsi già nel 1966.
Lontana da un utilizzo passivo del
mezzo tecnologico, la videoarte si serve del medium per precise
finalità comunicative e non si ferma ad una pura documentazione
della realtà. La sua capacità di intervenire sul reale e sulla sua
percezione si traduce nella messa in discussione della posizione
dello spettatore. Questo avviene in particolare nelle opere
interattive. Ne sono un esempio l'installazione Videoplace dei primi
anni settanta di Myron Krueger che riproduceva col colore su un
monitor i movimenti dello spettatore, e l'intervento a circuito
chiuso di Dan Graham che in una sua mostra riprendeva il pubblico e
lo mostrava nella sala successiva. In questo caso, soggetto e
fruitore corrispondono, come del resto avviene con la Tv, che rimanda
alla società le immagini della società stessa. Questo meccanismo
autoreferenziale è stato anticipato e sintetizzato perfettamente da
Nam June Paik nell'opera del 1974 Tv Buddha in cui una statua della
divinità osserva la propria immagine ripresa e trasmessa nella TV
che sta di fronte. La videoarte ha, infatti, in più occasioni messo
in discussione i meccanismi televisivi che si avvalgono dei medesimi
mezzi tecnologici, ma solo in rari casi la videoarte è riuscita a
raggiungere, con questo punto di vista critico, la diffusione propria
della televisione: è riuscito a farlo ad esempio Jan Dibbets che ha
sostituito per alcuni istanti le trasmissioni con l'immagine di un
fuoco, di un'intimità domestica che solitamente lo spettatore perde
guardando la TV.
La videoarte si articola in molteplici
forme espressive, che vanno dalla registrazione di azioni e
performance (videoperformance), a strutture complesse multimediali,
come:
installazioni, video-installazioni e
installazioni interattive
videoscultura
videoambienti
sistemi video che interagiscono in vari
modi in tempo reale con la performance
cortometraggi, e talvolta
lungometraggi, d'arte, immagini in movimento, arte digitale
videopoesia, poesia elettronica
La concomitanza tra l'avvento del video
e un clima di attivismo e agitazione sociale assicura al mezzo un
inizio esplosivo. Negli anni sessanta, il video mette in discussione
l'oggetto artistico ancora più drasticamente di quanto facciano
forme d'arte come l'happening o la performance. Un fattore comune di
queste esperienze consiste nella cosiddetta "dematerializzazione"
dell'oggetto artistico, la possibilità di un'arte fondata sul tempo
anziché sullo spazio, presagio delle Avanguardie Storiche (si pensi
alla quarta dimensione di Picasso o all'attenzione dei Futuristi per
la radio e il cinematografo). Rapporto ambiguo intrattiene poi la
videoarte con la televisione, alla quale è legata dalla medesima
tecnologia. "VT is not TV", il videotape non è
televisione, si rimarcava negli anni sessanta ma con il tempo i
videoartisti cominciano a nutrire la speranza di diffondere le
proprie ricerche sul mezzo di comunicazione di massa per eccellenza.
Parimenti, le forme televisive entrano nella videoarte attraverso la
pratica del Found footage (letteralmente, "pellicola
ritrovata"). La ristrutturazione delle immagini televisive crea
dei messaggi divertenti e sovversivi, come dimostra l'esempio
italiano di Blob. Del film d'artista, invece, la videoarte
rappresenta l'erede ideale. La maggiore accessibilità (tecnica ed
economica) del video rispetto alla tecnologia cinematografica ha reso
quest'ultimo il mezzo privilegiato per la sperimentazione. Una delle
caratteristiche fondamentali di questa duttilità è il particolare
rapporto del video con la dimensione sonora. A differenza del cinema,
nato muto accompagnato da un'orchestra in carne e ossa, nel video i
suoni provengono dalla stessa sorgente, sono entrambi tensioni e
frequenze. Particolarità che i primi videoartisti, provenienti in
larga parte dal mondo della musica (v. Paik, Vostell, Viola), non
hanno mancato di sottolineare nella loro pratica. In Violin Power
opera del 1978, ad esempio, Steina Vasulka genera con la sua musica
distorsioni nell'immagine trasformando il suo violino «in una
macchina per la ri-presa e la trasformazione - emotiva e fisica -
della realtà» (Marco Maria Gazzano).
Tra i maggiori pionieri ed esponenti
della videoarte internazionale ricordiamo, Nam June Paik, Wolf
Vostell, Peter Campus, Bill Viola, Robert Cahen, Gary Hill, Bruce
Nauman, Laurie Anderson, Dara Birnbaum, Marina Abramović, Fabrizio
Plessi, Vito Acconci. Tra gli artisti più giovani, affermatisi sullo
scenario internazionale: Shirin Neshat, Pipilotti Rist. Alcuni
videoartisti hanno operato specificamente nella videopoesia, creando
opere legate alla dimensione testuale e poetica, tra questi: Laurie
Anderson, Gary Hill, Gianni Toti, che negli anni 80 ha coniato il
termine "poetronica", Arnaldo Antunes, Caterina Davinio.
Altri esempi storici di videoarte italiana: Gianfranco Baruchello,
Alberto Grifi, Fabio Mauri, Luca Maria Patella, Vincenzo Agnetti,
Vettor Pisani, Ketty La Rocca, Giuseppe Chiari, Franco Vaccari, Anna
Valeria Borsari, Pier Paolo Calzolari, Maurizio Camerani; e dagli
anni Ottanta Studio Azzurro (Milano, installazioni interattive),
Mario Canali e Correnti Magnetiche (Milano, arte della realtà
virtuale, animazioni), Ernst Pantofalo (Bologna), Giovanotti Mondani
Meccanici (Firenze), creatori di installazioni interattive, citati
nei saggi sopra riportati. Dalla fine degli anni 90 ad oggi il video
si è affermato come medium trasversale e la produzione è molto
vasta. Nel variegato panorama italiano ne citiamo alcuni: Francesco
Vezzoli, Vanessa Beecroft, Stefano Cagol, Filippo Porcelli, Chiara
Passa. Altre artisti legati alla videoarte sono Bas Jan Ader, Aldo
Tambellini, Matusa Barros, Toshio Matsumoto, Marc Lee, Michel
Chion...
Per quanto riguarda i primi sviluppi
della videoarte, anche se da molti storici è stato ignorato o
dimenticato, in Italia sorsero ben presto importanti centri di
produzione, di rilievo internazionale, in cui iniziarono ad operare
alcuni di quelli che sono ora riconosciuti come i maggiori esponenti
storici della videoarte. In particolare: la Galleria del Cavallino, a
Venezia, diretta da Paolo e Gabriella Cardazzo, dal 1972 al 1979 ha
prodotto video di artisti che operavano costantemente con la
galleria, come Claudio Ambrosini, Guido Sartorelli, Michele Sambin,
Luigi Viola, e di altri come Vincenzo Agnetti, Marina Abramovic, Anna
Valeria Borsari, Stephen Partridge; il Centro Video Arte di Palazzo
dei Diamanti, a Ferrara, diretto da Lola Bonora poi da Carlo
Ansaloni, ed attivo dal 1972 al 1994 con finanziamenti pubblici, ove
tra gli altri fecero i loro primi video Fabrizio Plessi, Ricci Lucchi
e Yanikian, Cristina Kubisch; art/tapes/ 22, a Firenze, operativo tra
il 1973 ed il 1976, diretto da Maria Gloria Bicocchi, ove si
produssero video di artisti locali come Alberto Moretti, Ketty La
Rocca e Maurizio Nannucci ed ove un giovanissimo Bill Viola iniziò a
lavorare come tecnico alle riprese. Notevole iportanza ha avuto anche
la collezione di videotape di Luciano Giaccari, che tra le sue varie
iniziative, nel progetto Televisione come memoria, del 1968, ha
documentato in tempo reale le 24 ore di Non stop teather,
manifestazione da lui organizzata a Varese.
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