“Chi scappa è un Viet Cong. Chi resta fermo è un Viet Cong
ben disciplinato.”
Questa battuta, pronunciata con
agghiacciante nonchalance da un mitragliere d’elicottero in Full
Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick, è entrata
nell'immaginario collettivo come una delle più disturbanti della
storia del cinema di guerra. Ma ciò che molti non sanno — o
preferiscono ignorare — è che quella scena non è un’invenzione
cinematografica. È il resoconto, crudo e autentico, di un episodio
realmente accaduto nella giungla vietnamita.
Il fatto ha origine nei diari di Michael Herr, giornalista e corrispondente di guerra, autore del celebre Dispatches e co-sceneggiatore di Full Metal Jacket. Herr racconta di aver assistito personalmente, durante l’offensiva del Têt nel 1968, a una scena pressoché identica a quella riprodotta nel film: a bordo di un elicottero da trasporto statunitense, osservò un mitragliere di porta aprire il fuoco su persone a terra, senza alcuna certezza che fossero combattenti nemici.
Il mitragliere, privo di remore, tentò persino di convincere Herr a scrivere un articolo su di lui, vantandosi del proprio “bottino” di vite umane. Quando il giornalista lo incalzò sul fatto di aver sparato a donne e bambini, il soldato rispose con una logica glaciale: chiunque fuggisse era sicuramente un nemico. Chi restava immobile, era solo più addestrato. Una spirale di cinismo che, riportata fedelmente da Herr, divenne una delle scene più scioccanti del film.
Quella scena, così difficile da dimenticare, si svolgeva in una free-fire zone — letteralmente una “zona di fuoco libero”. Durante la guerra del Vietnam, le forze armate statunitensi istituirono numerose aree di questo tipo, in cui ogni presenza umana poteva essere considerata ostile, a meno che non fosse chiaramente identificabile come alleata. Il concetto era tanto semplice quanto terrificante: in queste zone, sparare a vista non solo era permesso, ma spesso incoraggiato.
Dal punto di vista del diritto militare statunitense dell’epoca, le azioni del mitragliere potevano essere considerate “legali”. Ma dal punto di vista del diritto internazionale umanitario, si trattava chiaramente di crimini di guerra: l’uccisione indiscriminata di civili, specialmente di bambini, è vietata in ogni circostanza dalle Convenzioni di Ginevra.
Quando Stanley Kubrick decise di includere questa scena in Full Metal Jacket, lo fece con piena consapevolezza. Kubrick non cercava di scandalizzare gratuitamente: voleva documentare il degrado morale e psicologico generato dalla guerra moderna. Quella sequenza non è un’esagerazione cinematografica, ma una fedelissima trasposizione di quanto testimoniato sul campo. La sua presenza nel film serve a smascherare una verità storica troppo spesso ignorata: che la guerra, al netto della propaganda e dell’eroismo, è anche questo — un terreno fertile per la disumanizzazione.
Full Metal Jacket resta uno dei rari casi in cui la rappresentazione artistica della guerra si avvicina dolorosamente alla cronaca. Non idealizza, non semplifica, non offre conforto. Con la collaborazione di Herr, Kubrick inserisce nel film scene tratte da eventi realmente accaduti, amplificando la portata morale del messaggio: in guerra, la linea tra soldato e assassino può diventare sottilissima. A volte, quasi invisibile.
La scena del mitragliere sull’elicottero è ancora oggi motivo di dibattito, tanto nel mondo cinematografico quanto tra storici e veterani. Non è solo una denuncia. È un promemoria. Un ammonimento contro la pericolosa tentazione di voltarsi dall’altra parte, quando la realtà diventa troppo scomoda da guardare in faccia.
Nel caso del Vietnam, la telecamera non ha mentito. E Full Metal Jacket non ha fatto che ripetere ciò che gli occhi di Michael Herr avevano già visto: una guerra dove anche l’aria era carica di fuoco — e di menzogna.
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