A novantaquattro anni, Clint Eastwood non ha alcuna intenzione di scendere dalla sella. Con l’uscita imminente di Juror No. 2 (Giurato n. 2), Eastwood aggiunge un ulteriore tassello a una carriera già leggendaria, confermando un paradosso che affascina e interroga Hollywood: come fa un uomo vicino al secolo di vita a dirigere ancora film di successo, con la lucidità, l’efficienza e l’autorità di sempre?

La risposta, come spesso accade, non è una sola. È una combinazione di istinto, metodo, disciplina e — soprattutto — una squadra affiatata come un’orchestra sinfonica. Eastwood lavora con gran parte della stessa troupe da oltre cinquant’anni, una vera e propria famiglia professionale che lo conosce, lo capisce, e lo segue con fiducia in ogni set. Il risultato è un modo di girare che ha del prodigioso per sobrietà e rapidità: poche riprese, pochissimi fronzoli, ritmo serrato. E tutto funziona come un orologio svizzero.

Toni Collette, che nel nuovo film interpreta l’assistente procuratore Faith Killebrew, è rimasta colpita dalla presenza registica di Eastwood:

“Non credo di aver mai lavorato con un regista così sicuro di sé, così profondamente presente. La sua conoscenza del cinema è radicata, profonda. E ha questa calma serena, priva di ego. Ti mette a tuo agio. Il set era sobrio, semplice. Pochissime riprese. Meraviglioso.”

In un'epoca in cui la maggior parte dei registi affida la visione finale al monitor, Eastwood gira ancora “alla vecchia maniera”: si fida dell’istinto, del cast e della macchina collaudata che lo circonda. E la cosa più sorprendente è che questo approccio non è solo una scelta stilistica, ma anche una necessità organizzativa che gli permette di lavorare senza sprechi, senza esitazioni. Quando Clint dirige, il set si muove al ritmo del suo sguardo.

Ma cosa fa davvero Eastwood oggi, al di là di mettere la sua firma su un progetto? La verità è che fa tutto quello che ha sempre fatto: sceglie le storie, guida gli attori, supervisiona il montaggio e imposta il tono di ogni scena. Il fatto che lo faccia con meno parole, meno ciak e meno rumore non significa che sia meno presente. Al contrario, il suo metodo è una sintesi estrema di ciò che conta davvero nel dirigere un film.

La sua carriera dietro la macchina da presa comincia nel 1971 con Play Misty For Me, e da allora ha diretto più a lungo di qualunque altro gigante della Hollywood classica — più di John Ford, Allan Dwan o Raoul Walsh. Una longevità senza precedenti, che poggia su quattro pilastri fondamentali:

  1. Genetica robusta – sua madre visse lucida fino a 97 anni.

  2. Stile di vita disciplinato – sobrietà, lavoro, alimentazione sana.

  3. Una filmografia commerciale e coerente, in grado di attrarre pubblico e studio system.

  4. Etica del lavoro ferrea, che lo ha mantenuto in attività per oltre settant’anni.

A ciò si aggiunge una costante qualità autoriale: Eastwood ha firmato film memorabili dagli anni ’70 in poi, vincendo quattro Oscar e ottenendo undici nomination. Le sue opere sono entrate nell’immaginario collettivo — da Gli spietati a Million Dollar Baby, da Mystic River a Gran Torino — e anche quando ha diviso la critica, non ha mai perso il controllo del proprio linguaggio.

Alcuni attori, come Judi Dench o Leonardo DiCaprio, hanno espresso perplessità per il suo stile asciutto (pochi ciak, niente ripetizioni, nessuna prova lunga). Ma in fondo, è proprio questo il segreto del suo metodo: la fiducia radicale — in sé, nella scena, nel tempo del cinema. E oggi più che mai, in un’industria dominata da logiche iperproduttive e registi che accumulano ore di girato, Clint Eastwood resta un artigiano essenziale, rigoroso, libero.

Con Giurato n. 2, che si preannuncia come un legal thriller nel solco dei suoi drammi più umani e morali, Eastwood potrebbe aver firmato un nuovo capitolo di grande cinema. E se anche fosse l’ultimo, avrebbe chiuso il cerchio con la stessa semplicità con cui ha sempre vissuto i set: senza rumore, ma con la precisione di un colpo a segno.