Nel firmamento delle leggende di Hollywood, pochi nomi evocano la stessa aura gotica e struggente di Bela Lugosi, l’uomo che ha donato un volto e un accento immortali al principe delle tenebre. Eppure, dietro l’iconica mantella di Dracula, si cela una delle storie più amare della storia del cinema: quella di un attore che, per sete di gloria, accettò il ruolo della sua vita a un prezzo che lo avrebbe condannato a un’intera esistenza di sfruttamento e rimpianto.
Era il 1931 quando la Universal Pictures, in cerca di un volto per il primo Dracula sonoro tratto dal romanzo di Bram Stoker, si ritrovò davanti un attore ungherese di teatro che aveva incantato Broadway con il suo sguardo ipnotico e il suo inglese rigido e accattivante. Lugosi voleva quel ruolo più di ogni altra cosa. Lo desiderava al punto da accettare un compenso che oggi suonerebbe come un insulto anche per un comparsa: 500 dollari a settimana per sette settimane, un totale di 3.500 dollari, mentre altri suoi contemporanei, come Lon Chaney, guadagnavano oltre 3.700 dollari a settimana presso studi rivali come la MGM.
Non era solo un problema economico. Quella cifra rappresentava l’inizio di una lenta ma inesorabile discesa per Lugosi. Hollywood lo aveva etichettato come disperato, facilmente manipolabile e, soprattutto, sostituibile. Carl Laemmle, presidente della Universal, lo ingaggiò solo dopo aver esaurito opzioni più appetibili, come Paul Muni e Chester Morris. La sua accettazione del compenso ridicolo non fu un gesto di umiltà, ma una condanna autoimposta.
Peggio ancora, Lugosi rifiutò un contratto a lungo termine offertogli dalla Universal, convinto che Dracula lo avrebbe consacrato al rango di nuovo Rodolfo Valentino. Rifiutò anche il ruolo del Mostro in Frankenstein, sbuffando con disprezzo: “Non sono venuto in questo paese per fare lo spaventapasseri!”. Una decisione che avrebbe marchiato la sua carriera. Quel rifiuto consegnò la gloria a Boris Karloff, che con quel ruolo divenne una star mondiale.
Nel frattempo, la Universal non dimenticò l'affronto: Lugosi fu escluso dai sequel del film che lo aveva reso immortale. In La figlia di Dracula (1936), il suo personaggio fu sostituito da un manichino di cera. In altri capitoli della saga horror, il ruolo del Conte venne affidato a John Carradine.
Quando, nel 1948, la Universal decise di riportare Dracula sullo schermo in chiave comica con Abbott & Costello Meet Frankenstein, fu con un tono da commiato che Lugosi rivestì il mantello. Era ormai una caricatura di sé stesso, intrappolato in ruoli stereotipati e sempre più marginali. Seguì una rapida spirale discendente: film di serie Z, registi visionari e disperati come Ed Wood, e infine la dipendenza da morfina.
A Hollywood, Lugosi divenne il volto del declino, un monito silenzioso sulle conseguenze di un sogno inseguito senza paracadute. Eppure, anche nella sua tragedia, resta un simbolo irripetibile: fu il primo a incarnare Dracula con la forza del linguaggio cinematografico moderno, e lo fece con un’intensità tale da fissare per sempre nell’immaginario collettivo il profilo del vampiro aristocratico.
Ironia della sorte, l’immortalità cinematografica che tanto aveva cercato gli fu infine concessa — non dalla gloria, ma dalla sconfitta. Morì in povertà nel 1956, sepolto con il suo costume da Dracula, quasi a voler chiudere un cerchio tra il personaggio e l’uomo che vi si era fuso dentro.
Nella storia del cinema, Bela Lugosi non fu solo l’attore meno pagato in un ruolo iconico: fu il simbolo inquietante di quanto alto può essere il prezzo della fama, quando si baratta il proprio valore per una promessa mai mantenuta.
E oggi, mentre scorrono ancora le sue battute sussurrate e i suoi occhi brillano in bianco e nero tra le ombre di un castello fittizio, il suo eco ci ricorda che nessun contratto vale quanto la dignità di un artista. Anche se a volte, per scoprirlo, bisogna passare attraverso l’oscurità.
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