Le prime domande che ogni artista
emergente si deve fare sono: Serve ancora il supporto di una major
del disco nell'era dello streaming? Come è cambiato il mercato
discografico?
Ora la 1437 United Artist, la società
che permette agli artisti imprenditori di se stessi di distribuire i
propri progetti "fai da te" senza casa discografica,
cercherà per quanto possibile di dare delle risposte!
Nel mondo della musica ormai la consacrazione dello
streaming è cosa già fatta da qualche anno a questa parte. Si
tratta volendo andare a ben guardare dell'ennesima grande rivoluzione
in poco più di 15 anni, un processo di trasformazione delle
abitudini di chi la musica la ascolta, ma anche di chi la fa, che ha
in
definitiva rivoltato l’industria discografica come un calzino.
Quattro tappe fondamentali hanno portato al mondo che
conosciamo oggi: 1999, apre Napster; 2003, Apple lancia l’iTunes
Music Store; 2005, nasce YouTube; 2008, l’allora sconosciuta
startup svedese Spotify, fa partire l’omonimo servizio di streaming
“a volontà”. In mezzo ci sono state tante altre vicende,
personaggi, innovazioni (l’arrivo dell'iPod prima e degli
smartphone dopo su tutti), ma queste sono sicuramente le pietre
miliari che più hanno scolpito la scena musicale odierna. Minimo
comune denominatore: Internet.
Nel 2014, per la
prima volta, seppure di misura, i ricavi della musica digitale
smaterializzata, a livello globale, superarono quelli generati dalla
vendita di supporti fisici. Una statistica dell'epoca rivelava come
si comprassero sempre meno CD, ma anche come, dopo la mazzata che lo
scambio in rete degli MP3 hanno inflitto alle case discografiche, i
modelli di distribuzione digitale legali cominciassero finalmente a
ingranare. L’altro dato di rilievo è appunto l’esplosione dello
streaming, che in pochi anni ha cominciato velocemente a
cannibalizzare le vendite di brani in download; per le major del
disco era la luce in fondo al tunnel dopo anni di sofferenza, per gli
artisti, si dice, un po’ meno. Perché, diciamocelo, diventare una
star oggi è ancora più difficile di una volta e vivere di musica un
traguardo per pochi. Una volta firmare con una casa discografica era
il sogno che diventava realtà, il punto di arrivo, “l’avercela
fatta”. Oggi, a meno di non essere super fortunati, è un modo se
va bene per arrotondare e avere un po’ di persone in più ai
concerti.
Anche
per questo, il 28 dicembre
2017,
Cesio Endrizzi istituisce una riunione a cui invita artisti legati ad
un'etichetta e gli presenta la sua idea: quella di lanciare una
società di intermediazione per mettere in contatto diretto gli
artisti con la propria fanbase,
realizzando e distribuendo sui canali di vendita - tradizionali e non
- edizioni deluxe e vinili. È il nuovo modello del DIY ("do it
yourself", fai da te) che sta conquistando tanti artisti, sia
affermati che emergenti, che parte dalla premessa che la casa
discografica classica, e in particolare la major, è diventata
obsoleta in questo mercato. “C’è
stato un tracollo totale del fatturato nella discografia, per varie
cause, la pirateria da una parte, ma anche la flessione del CD e il
mancato decollo della promessa del digitale”,
mentre dal punto di vista della 1437
United Artist, tutto è
cambiato nel mercato del disco e soprattutto siamo pronti a vivere il
futuro nell’era dello streaming.
E partiamo proprio da qui, dalla
promessa mancata del digitale: iTunes ha aperto i battenti nel 2003,
ma ancora non basta per sopperire al calo di fatturato del fisico.
Che cosa è andato storto?
Per
quanto riguarda l’Italia, visto che all’estero e in particolare
negli Stati Uniti le cose sono andate un po' diversamente, le ragioni
di una disfatta annunciata siano state tantissime. Innanzitutto il
consumatore si è sfiduciato nei confronti del mercato discografico a
causa delle pubblicazioni. Si pensi all’ondata di “best of”
degli ultimi anni. Perché per sopperire alla contrazione del mercato
si rispose con la pubblicazione di tante raccolte inutili. E questo
ha generato ancora più sfiducia, ancora più acredine da parte dei
fan, non tanto nei confronti dell’artista, ma di chi nell’industria
avallava operazioni improbabili che essenzialmente esistevano solo
per fare cassa.
Poi c’è il
fattore prezzi. Basti pensare che il crollo dei consumi è arrivato
quando ancora si viveva di rendita che veniva dal boom del CD nel
1999/2000, e cioè che il prezzo della musica si riteneva ininfluente
sulle vendite. Poi invece quando il mercato è crollato, il prezzo ha
cominciato ad avere una leva rilevante, così si è avuto un
abbassamento del prezzo e allo stesso tempo delle quantità vendute e
quindi in definitiva del fatturato.
Quindi, la
sfiducia dei consumatori, la contrazione del prezzo medio, e poi
naturalmente il fatto che la gente scaricava. Questo d’altra parte
è un paese in cui oltre il 61% della popolazione secondo un recente
sondaggio non considera un reato quello di scaricare musica
illegalmente. Oggi naturalmente tutto questo è superato dalla
piattaforma streaming. Quando tu riesci ad accedere a una piattaforma
legale come Spotify, in cui comunque gli artisti vengono renumerati,
poco tanto non lo so, comunque è qualcosa. Quando invece scarichi
illegalmente comunque danneggi, e ormai viviamo negli anni del boom
della pirateria online. Non c’è un’alternativa legale ed il
mercato discografico è un grande pozzo d’acqua pieno di falle che
si svuota.
La 1437 United
Artist, è nata perché in questa fase abbiamo visto l’opportunità,
di una grande idea: quella di riuscire a carpire e prendere dalla
coscienza dell’artista quella voglia sotterranea di farsi tutto da
solo. Abbiamo visto Renato
Zero che
si staccava dalla Sony e decideva di farsi tutto da solo. I
Pooh che
hanno sempre fatto tutto da soli da una vita ed erano solo
distribuiti da una major, i Nomadi
e
tanti altri fino agli Afterhours.
E così in poche settimane abbiamo già raccolto 150 prodotti
esclusivi, in virtù del fatto che c’è la coscienza di voler fare
tutto da soli.
Ma perché improvvisamente è nata
nell’artista la voglia di farsi tutto da solo?
Perché
fondamentalmente non c’è più bisogno della casa discografica.
Perché con la contrazione del mercato, nelle case discografiche non
c’è più quella propensione a investire. Quello che faceva la
differenza una volta nelle major discografiche erano gli investimenti
pubblicitari, la promozione, i videoclip. Ma con la nascita e il
proliferare di YouTube, con le tecniche video a basso costo, tutto
questo è cambiato. Pensiamo oggi a tanti giovani artisti: il loro
primo video,se lo fanno da soli con i loro amici e sono forse video
che poco più di vent’anni fa non sarebbero bastati 200 milioni
delle vecchie lire per realizzarli.
Oggi le nuove
tecnologie consentono di produrre dei video super, basta un’idea e
non è più necessario spendere tantissimo. Quindi gli artisti hanno
detto: “se le case discografiche non investono più in campagne, se
non c’è più l’advertising che c’era prima, se non c’è più
quell’opulenza che mi consentiva di essere un artista sostenuto
dalla grande casa discografica, perché devo dare più della metà
dei ricavi della vendita del mio lavoro o di quel che ne deriva a un
altro soggetto? Faccio tutto da solo e cerco di guadagnare molto di
più”. E quindi noi cavalchiamo questa esigenza, anche perché con
una società come la nostra, noi comunque retrocediamo oltre l’80%
dei ricavi all'artista.
C’è da dire che c’è sempre stata
un po' la percezione, almeno da parte dei non addetti ai lavori, che
le grandi major sfruttassero gli artisti. Pensiamo alle battaglie
ormai negli scorsi decenni di personaggi come Prince. Ma è poi
davvero così? La 1437 United Artist, afferma di dare all’artista
una fetta di oltre l’80% dei ricavi, ma nel caso di una major qual
è usualmente la proporzione?
Tendenzialmente,
se parliamo di un artista “top” può prendere il 30% da una major
senza gli abbattimenti. Oggi però anche un artista top non è più
sostenuto dalla major come prima, per cui è una cifra anacronistica.
Un tempo tu sapevi che loro si dovevano prendere il 70% perché
c’erano gli investimenti e perché dovevano marginare tanto perché
magari ci perdevano su altri progetti, ma questo sistema è andato
completamente in tilt. Se fai il raffronto tra un artista che prende
il 30% che con degli abbattimenti diventa il 23% e un’artista che
ne prende l’80%, c’è una grande differenza. Ma lo dico non
perché io sono quello che ti dà l’80% e quel sistema il 23%, è
che quel sistema del faccio tutto io, ti pago tutto io e ti do una
piccola quota è andato un po’ in esaurimento. Gli artisti che oggi
sono sotto contratto con le case discografiche, naturalmente, o
riescono a fargli spendere tanti soldi, ma ormai saranno rimasti in
5, oppure non ha più senso che rimangano lì.
E infatti,
all’interno dei contratti, vedo che ci sono artisti come Ligabue
che
si fanno solo distribuire. Un motivo c’è: sono contenti di quello
che fanno, riescono a farsi un contratto di rinnovo giusto, ma si
fanno tutto da soli. Ligabue è un artista che fa tutto da solo. Ha
la sua società, ha il suo ufficio, ha i suoi ragazzi. Il suo canale
è uno dei più forti in Italia e l’ha fatto lui non una major.
Vasco
Rossi è
lui, non c’è una major dietro. Jovanotti
è
lui. È un artista che dice “voglio fare questo progetto” e il
progetto si fa. 30 anni fa c’era un discografico da coinvolgere,
c’erano delle riunioni marketing in cui c’erano delle
professionalità che potevano dare un suggerimento all’artista e
guidarlo, ma ora sono cambiate anche le persone all’interno di
quelle aziende.
Però fino ad ora abbiamo parlato di
grossi nomi della musica: Vasco Rossi, Jovanotti, Renato Zero.
L’obiezione che si fa verso un modello di questo tipo è “ok, ma
prima devi essere famoso per poter stare in piedi da solo”. Un
modello DIY come quello che propone una realtà come la 1437 United
Artist, può davvero funzionare anche per i piccoli artisti o artisti
emergenti?
Assolutamente
sì. Noi abbiamo realtà piccole che funzionano per i loro fan.
Stiamo lavorando su un progetto per esempio, con una band che ha una
comunità molto radicata nel “clero”: è una rock band che suona
anche nelle parrocchie e ha una fanbase pazzesca. Il cantante ha
pubblicato un libro che è già in ristampa. Non importa quale sia il
mercato, noi andiamo anche lì: la fanbase di 15.000 persone. Questi
suonano nelle parrocchie e alle feste della gioventù, ma hanno fatto
due tour mondiali, il cantante ha pubblicato il libro in 10 paesi,
soprattutto in Sudamerica. Oggi ci sono delle realtà che grazie alla
disintermediazione della comunicazione, possono arrivare direttamente
ai fan, riescono a soddisfare i fan, riescono a vendere direttamente
ai fan. E allora, perché non lavorare su quello? Quindi lavoriamo
sull’ingaggio delle fanbase, qualunque esse siano. Quanti artisti
ci sono che non hanno ancora pubblicato ufficialmente un disco - ne
avranno prodotto forse solo uno stampandoselo da sé in modo diciamo
pure carbonaro -, hanno un loro videoclip, hanno YouTube, potrebbero
andare primi in classifica con noi. La differenza la fa la fanbase.
Lavorare sulla fanbase è quello che noi abbiamo percepito fare oggi
la differenza.
Ma un artista emergente come fa a
crearsi e far crescere la propria fanbase? Una volta c’era il
supporto di un’etichetta, ma oggi?
Oggi ci sono
tre strade. O fai da solo, vai su YouTube, e se hai qualcosa da dire
la gente prima o poi se ne accorgerà. Anche Emis
Killa ha
iniziato su YouTube, poi si è fatto notare e una casa discografica
l’ha preso. Oppure si può provare la strada del Talent. Di fatto
il Talent Show ormai è un laboratorio, ha sostituito quelli che
erano gli uffici artistici delle case discografiche, dove si faceva
lo scouting. Basti pensare che da Amici sono usciti Emma
Marrone,
Alessandra
Amoroso.
Da X-Factor è uscito Marco
Mengoni.
L’altra
alternativa è quella di andare dagli imprenditori; vai in una
società indipendente, vai da un imprenditore. In Italia c’è stato
Claudio Cecchetto che ora è dedito all’innovazione, ma c’è
anche Lorenzo Suraci (presidente di RTL, n.d.r.) che è un talent
scout; ha una grande forza alle sue spalle, fatta dalla sua radio.
Oppure appunto
ci sono le etichette indipendenti. Quel tipo di imprenditoria, quel
tipo di rischio, secondo Noi, è l’antitesi del portare soldi in
cassa tramite le operazioni improbabili delle major di cui parlavamo
prima”.
Prendiamo allora il caso che io sia un
artista “fai da te”, che si è registrato il suo disco con
GarageBand e magari ha già il primo migliaio di mi piace su
Facebook. Cosa può offrire una società di intermediazione come
la 1437 United Artist
all’artista DIY?
Innanzitutto
se hai già una fanbase, con i social, se hai qualcosa di nuovo, la
tua base già lo sa. Quello che facciamo noi, è andare a
consegnargli il disco a casa con il tuo autografo. Possiamo
realizzare delle confezioni esclusive intorno alla musica: intorno al
CD, che è solo una scusa, possiamo costruire un libro, un gadget,
delle chiavette USB. Ci possono essere tante confezioni speciali. Noi
ci inventiamo dei progetti da questo punto di vista anche con un po’
di ironia. Perché se tu sei fan di un artista, vuoi anche possedere
un oggetto; perché con la tiratura numerata limitata, che quando tu
lo fai lo vendi per certo, puoi fare e costruire un oggetto.
L’oggetto che costruisci contiene un po’ l’anima dell’artista.
E sei un fan, sei anche disposto a pagare 50 o 60 euro per
quest’oggetto.
A questo punto viene da chiedersi, ok
il cofanetto, ma davvero il supporto fisico ha ancora qualcosa da
dire?
In Italia
intanto il supporto fisico costituisce comunque ancora una discreta
fetta del mercato. Può dire assolutamente qualcosa se viene
costruito intorno ad esso non un semplice CD, un pezzo di plastica,
ma una storia, un concetto emotivo. Devi trasformarlo in qualcosa che
la gente vuole possedere. Poi bisogna tenere presente fasce come, non
so, ad esempio le donne dai 45 anni su che non scaricano: in questa
fascia demografica, guarda caso, le vendite del fisico sono ancora
molto superiori al digitale.
Ma se alla fine la soluzione è
realizzare un oggetto del desiderio, non potrebbe benissimo proporla
anche la major, che forse ha anche più risorse alle spalle? E invece
non accade. Come mai?
La major ha
delle griglie di costi che, per il prodotto fisico, non possono
superare un tot in percentuale rispetto al prezzo di vendita. Quando
ritengono l’operazione superflua rispetto ai margini che la
caratterizzano, quel progetto non lo fanno.
Ma le major non dovrebbero avere più
margini con prodotti di questo tipo?
No, non è
così semplice. Deve essere anche un prodotto che ingaggi.
L’interattività con la fanbase la puoi fare solo se metti
l’artista al centro, e cerchi di sviscerare tutto. In una major non
c’è più il tempo di fare questo, perché quel lavoro sta
cambiando e loro non si sono resi conto che stanno lavorando su un
mercato in cui hanno peccato di disattenzione, di qualità e
soprattutto di passione. Per loro quel lavoro oggi è bene o male
sempre una questione di soldi.
Sono
persone che sono cambiate molto nel loro approccio, perché ora le
senti parlare di quantità, ecc., mentre prima le sentivi parlare di
musica, di concerti; oggi francamente parlano solo di numeri, gli
interessano solo i risultati. Ma dico, tu sei in un’azienda in cui
tu hai anche una responsabilità culturale sul mercato locale; va
bene far quadrare i conti, ma perché oggi devono essere solo i
produttori indipendenti a fare diversità culturale?
Qual è la risposta degli artisti che
lasciano le case discografiche, iniziano a fare tutto da soli e si
rivolgono ad un’azienda come la vostra? C’è qualcuno che alla
fine dice “ma forse stavo meglio prima”?
Devo dire che
noi abbiamo un tasso di soddisfazione di chi sceglie di lavorare con
noi molto elevato. Diciamo che devi comunque avere la predisposizione
a metterti in gioco, devi avere la voglia di lavorare, perché è un
lavoro molto faticoso. Lo sto vedendo ora con giovani artisti con cui
stiamo lavorando, dove loro si mettono in gioco in prima persona
perché davvero vogliono fare tutto loro.
Ma la vostra sensazione è che gli
artisti sono pronti a inseguire questa evoluzione del mercato? Spesso
si ha questa percezione dell’artista che è perso nel suo flusso
creativo e non ha molto i piedi per terra quando si parla di impresa…
o sono più avanti invece delle major rispetto a questo discorso?
Partiamo dalla
considerazione che per anni l’artista è stato sempre considerato
un minus habens, il disadattato che ha sempre bisogno dell’esperto
che lo segue. Certamente c’è sempre bisogno di servirsi di
professionalità, promoters, manager con cui fare squadra, non è che
uno può letteralmente fare tutto da solo.
In ogni caso
sono gli artisti che ci chiamano per lavorare con loro, perché sanno
quello che facciamo e hanno bisogno di professionalità. E sono tanti
i professionisti che prima lavoravano all’interno delle case
discografiche e che ora comunque ne sono usciti anche loro e lavorano
direttamente con gli artisti.
Ma in questo mondo dove ormai sembra di
capire che tutti sono diventati liberi professionisti, c’è ancora
un motivo per scegliere di fare un contratto con una grande casa
discografica?
Non c’è più
motivo se non… tanto denaro, prendere tanti soldi. Quello è
l’unico motivo oggi per firmare un contratto con una major: se
prendi dei soldi, tanti. Con minimi garantiti elevati. Tutto il resto
non ha senso. È anacronistico, è vecchio.
Ma visto che di “tanti soldi” non
sembrano comunque essercene, secondo Voi, è ancora possibile vivere
di musica oggi?
E' molto
difficile oggi vivere di musica. Primo perché i locali preferiscono
prenderti solo se porti come minimo 200 persone. E quindi è anche
molto difficile iniziare, ci vuole tanto coraggio. Oggi puoi uscire
solo se hai una bestia dentro. Però è difficile quanto oggi è
difficile fare, non so, l’architetto, perché oggi ci sono pochi
studi di architettura in cui lavorare. Ci vuole molto più tempo a
diventare una star e devi avere dei risultati. Sicuramente è un
cammino difficile e irto di ostacoli, però, dall’altra parte, sei
molto più padrone della tua fanbase rispetto a prima.
Dal vostro punto di vista come
giudicate questa polemica sulle royalties dello streaming? Lo
streaming può davvero essere il futuro del mercato della musica?
In realtà
questo è un problema che riguarda il contratto tra l’artista e chi
ha intermediato la pubblicazione sulla piattaforma di streaming, non
il servizio in sé. Io sono convinto che lo streaming sia sicuramente
il futuro e credo che le cifre più cospicue arriveranno quando
davvero sarà un fenomeno di massa, quando lo sarà la subscription
premium a Spotify o altre piattaforme. È ovvio che per l’artista
dipende dal contratto che hai con il proprietario del catalogo. Se
sei il Tom Yorke della situazione che ha un contratto con l’etichetta
per l’8 o il 10%, quei ricavi non potranno mai avere un impatto
significativo. Gli artisti che si lamentano dovrebbero prendersela
non con Spotify ma con gli intermediari, quelli con cui hanno fatto
il contratto. In questo c’è la componente “disadattata”
dell’artista: “ho firmato una roba, non so bene cosa ho firmato,
ma voglio di più”.
Una cosa
diversa e assolutamente scandalosa è YouTube, perché tu hai video e
audio, un intrattenimento più invasivo e a fronte di che cosa? Cioè,
per 100.000.000 di visualizzazioni prendi 80.000 euro, ma di cosa
stiamo parlando? E sai per quale motivo abbiamo queste royalties?
Perché all’estero le multinazionali hanno firmato quegli accordi,
che a noi sono piovuti dal cielo, e oggi non puoi andare da YouTube e
dirgli “tu mi devi dare di più di 8 millesimi”, quando tu non
hai un catalogo di 50 milioni di brani. La cosa gravissima delle
major è che abbiano accettato supinamente accordi ridicoli con
YouTube. Se YouTube pagasse anche solo dieci volte quello che paga
oggi, che poi sarebbe il minimo sindacale, sicuramente tanta gente
potrebbe anche vivere solo di quello.
Ma il vecchio mondo della discografia è
tutto da buttare secondo Voi o c’è qualcosa da salvare?
Sicuramente i
piccoli imprenditori, le piccole etichette indipendenti, gente che ci
mette del suo, la sua passione per scoprire il ragazzino che ci vuole
provare o il gruppo che sta li li per esplodere. Quelli sono eroi.
Sono eroi perché pur di fare quello che gli piace sono disposti a
fare sacrifici e a rimanere in una situazione sempre sul chi va là,
per cercare di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per la
passione a lavorare in questo settore. C’è tanta purezza in questo
discorso.
Comunque, non
è che Noi vogliamo demolire le major perché siamo la 1437 United
Artist e loro sono le multinazionali. Io dico: “bene, mettetevi su
un territorio diverso. Smettetela di pensare", e lo dico ai
capi, ai country manager delle multinazionali, "smettetela di
pensare solo ai numeri. Cioè, il vostro è un meccanismo che non
potrà mai essere favorevole al fan, non può mai ingaggiare il fan,
perché voi il fan lo avete disingaggiato, ed è stato solo l’artista
a tenerselo. E gli artisti ve li siete tenuti soltanto con i soldi.
Invece, trovate delle valide motivazioni. Attorno a quei tavoli, in
quelle sale riunioni, inventatevi dei discorsi più logici, più in
linea con il mercato, non pensate soltanto che se dite una cosa un
pochino più avanti domani perdete il posto”. Non è che siano
stupidi nelle major, è che c’è paura, paura di andare via di lì.
Paura di essere cacciati. Quando si lavora in un’azienda di un
imprenditore, il portafogli che tu stai gestendo è nella porta
accanto. Ti fai venire senza dubbio delle idee diverse. Se i soldi
non sono tuoi e non ce li metti tu, quello fa la differenza.
"Noi
diciamo: aiutate chi in Italia ci mette i propri soldi. Le produzione
italiane. Finanziate le aziende italiane.
Oggi
mancano i talent scout di una volta che andavano a vedere i ragazzi
suonare. Non ci sono più quei momenti in cui magari due case
discografiche volevano un artista e se lo contendevano. Manca questo,
manca la passione, l’amore per quello che si faceva, la
determinazione, il dire voglio prendermelo, voglio firmarlo.
Ritrovate la passione".
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