Oggi, il pubblico ammira con nostalgia e reverenza i mostri dell’era d’oro di Hollywood — figure leggendarie come la Creatura di Frankenstein, la Mummia, l’Uomo Lupo — ma pochi si soffermano sul prezzo fisico e mentale che gli attori dovevano pagare per incarnarli. Nei decenni precedenti alla rivoluzione degli effetti digitali, la magia del cinema era scolpita a mano, con strati di lattice, colla animale, cerone e pazienza. Molta pazienza.
Tra tutti, Boris Karloff è ricordato non solo per il suo talento inquietante ma anche per la sua stoica sopportazione. Nei panni della Creatura di Frankenstein (1931), passava cinque ore al giorno nella sedia del trucco mentre Jack Pierce, leggendario maestro degli effetti prostetici, lo trasformava pezzo dopo pezzo nel mostro iconico di Mary Shelley. Ma Karloff considerava quel dolore parte del mestiere. Una volta disse: “Non era facile, ma era per il mio bene. Mi ha dato la carriera che sognavo.”
Eppure, se Frankenstein fu un’impresa, La Mummia (1932) fu quasi una tortura. Per impersonare Imhotep, l’antico sacerdote resuscitato, Karloff dovette restare immobile per quasi otto ore durante l’applicazione delle bende, del lattice crepato, della polvere e delle vernici. La rimozione del trucco richiedeva altre cinque ore, spesso dolorose, eppure non ci furono lamentele. Karloff capì che il suo volto era diventato un mezzo, uno strumento per evocare orrore e meraviglia.
Altri attori, invece, soffrirono il trucco più a livello fisico e psicologico. Lon Chaney Jr., figlio del “uomo dai mille volti” Lon Chaney, dovette subire 21 ore di riprese per una singola sequenza di trasformazione da uomo a lupo ne L'Uomo Lupo (1941). Il trucco veniva applicato a più livelli, uno per ogni stadio della trasformazione. I peli sintetici, la colla, le crepe create a mano e le lenti opache lo costringevano a rimanere ore su un lettino sotto luci cocenti, senza possibilità di movimento.
Chaney era meno incline al martirio rispetto a Karloff. Durante le riprese di La Mummia (1942), in cui interpretava Kharis, lamentò irritazioni cutanee causate dalle sostanze chimiche usate per trattare le bende e dalla vernice usata sul corpo, che sembrava provocargli una vera e propria reazione allergica. A differenza di Karloff, Chaney mostrava apertamente il suo disagio. Il confronto tra i due evidenzia non solo differenze di tolleranza fisica, ma anche di attitudine professionale e background: Karloff era un attore shakespeariano prestato al cinema, Chaney un erede sotto pressione della leggenda paterna.
In un’epoca in cui la CGI può creare trasformazioni in tempo reale con un clic, le imprese di Karloff e Chaney sembrano appartenere a un’altra dimensione del cinema. Ma quelle ore di trucco, quelle eruzioni cutanee, quelle giornate interminabili non erano solo sacrifici fisici: erano parte integrante della costruzione mitica dei personaggi. Le espressioni lente, i movimenti goffi, persino le pause respiratorie degli attori erano modellati anche dalla limitazione imposta dal trucco stesso — e proprio per questo, autentiche.
Oggi, gli appassionati del genere horror classico non celebrano solo il design delle creature, ma anche il corpo martire degli attori che le interpretavano, e il genio artigianale di tecnici come Jack Pierce, il cui lavoro era tanto creativo quanto crudele.
Dietro ogni urlo di terrore provocato da Frankenstein o dalla Mummia si nascondeva un attore coperto di lattice, sudore e talvolta dolore, inchiodato per ore in una sedia, trasformato da mani sapienti e implacabili. Quella sofferenza non era visibile sullo schermo — era parte del patto silenzioso tra artista e illusione.
E oggi, mentre ci meravigliamo ancora delle loro performance, ricordiamo che il vero horror, a volte, iniziava prima ancora che le telecamere iniziassero a girare.
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