C’è una leggenda metropolitana tanto resistente quanto infondata che circola da decenni a Hollywood: quella secondo cui Mark Hamill avrebbe intrapreso la carriera nel doppiaggio perché irrimediabilmente “rovinato” da un grave incidente stradale, al punto da non poter più lavorare davanti alla macchina da presa. Come spesso accade con le storie troppo perfette per essere vere, anche questa si regge su una mezzogna: una parte di verità trasformata in narrazione comoda, distorta e, soprattutto, smentita dai fatti.

È vero: Mark Hamill fu coinvolto in un incidente d’auto nel 1977, tra le riprese di Star Wars (1977) e L’Impero colpisce ancora (1980). Riportò la frattura del naso e dello zigomo sinistro. Subì un intervento chirurgico ricostruttivo, ma le conseguenze sul suo aspetto furono modeste, al punto che nella saga di Star Wars non fu necessario alcun cambiamento di cast. Anzi, George Lucas e Irvin Kershner inserirono la scena dell’attacco del Wampa su Hoth proprio per spiegare, con eleganza narrativa, le lievi differenze facciali. Un dettaglio, più che una necessità.

Il punto è che Hamill non “abbandonò” mai il cinema. E soprattutto non fu “costretto” a rifugiarsi dietro un microfono perché sfigurato. Questa è la proiezione di una visione limitata e, in fondo, denigratoria dell’arte del doppiaggio, spesso considerata come il ripiego degli attori “falliti”, dei volti dimenticati o di quelli che “non possono più comparire sullo schermo”. Niente di più sbagliato.

La verità è ben diversa — e ben più interessante.

Mark Hamill si è avvicinato al doppiaggio perché è bravo. Straordinariamente bravo. E perché lo ama. La sua interpretazione del Joker, inaugurata con Batman: The Animated Series nel 1992, è diventata una pietra miliare della cultura pop. Il suo timbro inquieto, instabile, ironico e disturbante ha ridefinito il personaggio, ispirando non solo altri doppiatori, ma anche attori in carne e ossa. E non è stato un colpo di fortuna. Hamill ha continuato a dare voce al Joker per oltre quattro decenni in film d’animazione, videogiochi (Arkham Asylum, Arkham City, Arkham Knight), serie e speciali, rimanendo sempre all’altezza delle aspettative, e spesso superandole.

Inoltre, il suo lavoro vocale si è esteso ben oltre Gotham City: ha interpretato decine di personaggi in universi animati e interattivi, da Avatar: La leggenda di Korra a Regular Show, fino a videogiochi come Darksiders e Kingdom Hearts. Il suo talento vocale si fonda su una duttilità e una presenza scenica trasposte, più che nascoste, dietro al microfono. Ed è questo il punto essenziale: il doppiaggio non è una disciplina di serie B.

Nel sistema hollywoodiano contemporaneo, dove animazione e videogame costituiscono ormai una quota significativa della produzione e dell’economia dell’intrattenimento, dare voce a un personaggio è un’arte a tutti gli effetti. Richiede abilità tecnica, immaginazione, tempismo comico, controllo del tono e della respirazione. Hamill ha dimostrato di padroneggiarle tutte.

Allora perché la leggenda persiste?

In parte per la tendenza a romanticizzare (o drammatizzare) le carriere degli attori, riducendole a narrazioni tragiche o eroiche. In parte perché ancora oggi c’è chi considera il lavoro “vocale” meno nobile di quello “visivo”. Ma soprattutto perché Mark Hamill, a lungo identificato con Luke Skywalker, ha avuto il coraggio di reinventarsi in un settore diverso, meno glamour e più tecnico, dove il carisma non passa dagli zigomi, ma dalla gola.

A quasi cinquant’anni dalla sua prima comparsa su Tatooine, Hamill è rimasto centrale nell’immaginario collettivo. Non per il suo volto, ma per la sua voce. E non perché abbia perso qualcosa nel passaggio al doppiaggio, ma perché ha guadagnato un ruolo d’onore in un mondo che ancora fatica a riconoscere fino in fondo il valore degli attori che lavorano senza farsi vedere.

Quindi no: Mark Hamill non ha mai “ripiegato” sul doppiaggio. L’ha scelto. E l’ha dominato.