Ogni leggenda musicale ha i suoi eroi, i suoi dissidenti e le sue fratture. Nel caso dei Pink Floyd, una delle band più influenti del XX secolo, l’interrogativo su chi sia stato il principale artefice del loro successo non ha una risposta semplice — ma una direzione prevalente sì: Roger Waters.

Certo, Syd Barrett fu il fondatore, il visionario originale, l'uomo che diede alla band un nome, un'immagine psichedelica e il primo disco, The Piper at the Gates of Dawn (1967), un’esplosione di creatività surreale. Ma chi sostiene che Syd “è stato il cuore” dei Pink Floyd anche negli anni successivi, compie un atto di idealizzazione romantica. Perché la verità, nuda e cruda, è che Syd Barrett fu la miccia, non il motore.

Fu Roger Waters a prendere le redini dopo il collasso mentale di Barrett. Inizialmente bassista e corista, Waters si trasformò gradualmente in architetto concettuale e lirico della band. Dal cupo intimismo di Dark Side of the Moon (1973) alla critica sociale feroce di Animals (1977), fino al monolitico The Wall (1979), fu Waters a dare coerenza tematica e intellettuale a un gruppo che altrimenti sarebbe potuto restare una brillante ma confusa jam band psichedelica.

Waters scriveva i testi, concepiva i concept album, progettava le strutture narrative, spesso persino le scenografie. La sua ossessione per l’alienazione, il potere, la guerra e la psiche umana ha trasformato i Pink Floyd in un’entità artistica totale, non solo una band.

Nonostante ciò, Waters non lavorava in un vuoto. David Gilmour, subentrato proprio per rimpiazzare Barrett, è stato la voce e la chitarra più memorabili della band. Ma Gilmour non è mai stato un motore creativo nella fase d’oro degli anni '70: non scriveva testi forti, non costruiva concept, e la sua attitudine era più da interprete e perfezionista che da autore. Il suo ruolo era fondamentale: dava carne e bellezza alle ossessioni di Waters, equilibrandone gli eccessi. Il suo solo in Comfortably Numb ne è la prova vivente.

Richard Wright, con il suo tocco elegante e atmosferico alle tastiere, ha avuto momenti cruciali (The Great Gig in the Sky, Us and Them), ma non ha mai mostrato la forza o la volontà di leadership. Nick Mason, batterista solido e affidabile, è stato spesso più osservatore che motore creativo. Entrambi erano essenziali per l'identità sonora della band, ma non per la sua direzione artistica.

Quanto a Syd Barrett, la sua influenza va riconosciuta per quello che è: l’inizio. Era un artista visivamente affascinante, un paroliere eccentrico, un talento non convenzionale. Ma era impreparato alla pressione, imprevedibile, limitato tecnicamente. La sua chitarra non aveva l’ampiezza per evolvere con i tempi, e la sua psiche fragile non reggeva lo stress creativo. Il suo allontanamento fu una necessità, non un tradimento.

La tesi secondo cui senza Roger Waters la band avrebbe fatto al massimo un paio di dischi post-Piper è più che plausibile. I Floyd senza Waters non avrebbero avuto una voce, né un messaggio, né uno scopo. Anche la fase post-Waters — A Momentary Lapse of Reason, The Division Bell — benché tecnicamente valida, è spesso giudicata bella ma vuota, priva della spinta intellettuale e politica che Waters forniva.

Roger Waters è stato il vero artefice del successo dei Pink Floyd, non perché fosse il più carismatico, il più virtuoso o il più vendibile, ma perché sapeva dove stava andando. Ha dato forma a un’identità artistica che ha permesso ai Pink Floyd di trascendere la musica per entrare nel mito. Senza la sua visione — lucida, dolorosa, ossessiva — i Pink Floyd sarebbero forse rimasti una nota psichedelica in un mare di band inglesi degli anni ’60.

In definitiva: Barrett accese la miccia. Waters costruì la macchina. Gilmour le diede voce. E fu questo triangolo, spesso in tensione, a scrivere la storia.