Nel mondo degli scacchi, un gioco che molti considerano la quintessenza dello sport intellettuale, la domanda continua a tornare ciclicamente: perché esistono competizioni femminili in una disciplina in cui la forza fisica non gioca alcun ruolo? Se negli sport tradizionali la separazione tra uomini e donne trova una giustificazione fisiologica, nelle 64 caselle della scacchiera i limiti sono solo mentali e cognitivi. Eppure, la distinzione non solo esiste, ma è stata a lungo considerata necessaria. Comprendere le ragioni significa guardare oltre il tabellone, esplorando un intreccio di storia, cultura e scelte organizzative che ancora oggi influenzano il panorama scacchistico mondiale.

Gli scacchi, nati in Asia e sviluppatisi in Europa a partire dal Medioevo, sono stati per secoli un passatempo esclusivo delle élite maschili. Le donne raramente avevano accesso alle stesse opportunità educative e culturali. Solo nell’Ottocento compaiono le prime figure femminili note, come Vera Menchik, che negli anni ’20 del Novecento riuscì a sfidare apertamente i grandi maestri del suo tempo. Eppure, casi come il suo restarono eccezioni.

Per decenni, la partecipazione femminile rimase marginale. Secondo dati della FIDE (la Federazione Internazionale degli Scacchi), ancora oggi meno del 15% dei giocatori registrati nel mondo sono donne. Questo squilibrio non si spiega con presunte differenze naturali, ma con barriere culturali e sociali: le bambine venivano raramente incoraggiate a giocare, mancavano modelli di riferimento, e i tornei erano dominati da uomini che potevano contare su club, sponsor e reti di sostegno consolidate.

La FIDE, consapevole di questo divario, introdusse nel 1927 il primo Campionato mondiale femminile. L’obiettivo non era separare per creare una gerarchia, ma offrire alle donne uno spazio dedicato, dove potersi misurare senza il peso schiacciante di una tradizione maschile secolare.

Questa scelta ha avuto due conseguenze principali:

  1. Ha dato visibilità alle giocatrici, creando un circuito di tornei femminili e incoraggiando la partecipazione di nuove leve.

  2. Ha creato titoli distinti (come “Gran Maestro Femminile” o WGM), che hanno aperto opportunità di carriera ma hanno anche alimentato un dibattito su possibili etichette discriminatorie.

Oggi, le donne possono competere in entrambi i circuiti: quello open (accessibile a tutti, uomini e donne) e quello femminile (riservato alle donne). È importante notare che l’open non è definito come “maschile”: la porta, almeno formalmente, è sempre stata aperta.

Se esiste un nome che dimostra come non ci sia alcun limite cognitivo, quello è Judit Polgár. Cresciuta in Ungheria negli anni ’80, grazie a un esperimento educativo ideato dai genitori, divenne presto la prova vivente che una donna può eccellere contro i più forti uomini del mondo.

Nel 1991, a soli 15 anni, conquistò il titolo di Gran Maestro Internazionale, battendo il record di Bobby Fischer come la più giovane a ottenere quel riconoscimento. Nel corso della carriera sconfisse undici campioni del mondo, da Garry Kasparov a Magnus Carlsen. La sua scelta radicale fu quella di non partecipare mai a tornei riservati alle donne, preferendo confrontarsi direttamente con l’élite maschile nell’open.

Il suo esempio dimostrò che il divario non è biologico, ma culturale e numerico: se le donne sono meno presenti, è naturale che siano meno rappresentate ai vertici.

Perché allora mantenerle? La risposta va ricercata in un concetto chiave: le pari opportunità si costruiscono anche attraverso strumenti temporanei di sostegno.

Le competizioni femminili:

  • Promuovono la visibilità delle giocatrici, creando campionesse in grado di diventare modelli per le nuove generazioni.

  • Aumentano la partecipazione: avere titoli e tornei specifici rende lo scacchismo più accessibile e attraente per molte ragazze che altrimenti si sentirebbero isolate in un ambiente dominato dagli uomini.

  • Contribuiscono all’equilibrio economico: tornei e sponsor dedicati significano anche più opportunità professionali per atlete che altrimenti faticherebbero a emergere.

In altre parole, non si tratta di una barriera definitiva, ma di un trampolino per ridurre il divario.

Oggi, la questione è ampiamente dibattuta. Alcuni sostengono che mantenere competizioni femminili separate rischi di cristallizzare un pregiudizio implicito, come se ci fosse bisogno di “protezioni speciali” per le donne.

Altri, invece, sottolineano che il divario numerico resta enorme e che eliminare queste categorie senza aver prima risolto i problemi di base significherebbe condannare la maggioranza delle giocatrici a un ruolo di eterna marginalità.

Un punto importante riguarda i premi in denaro: nei tornei open le cifre in palio sono spesso molto più alte rispetto a quelli femminili. Alcune grandi maestre, come Hou Yifan, hanno più volte denunciato questa disparità, sottolineando che il vero obiettivo dovrebbe essere l’equiparazione delle condizioni economiche e non la perpetuazione delle differenze.

Secondo i dati FIDE del 2024:

  • Su circa 360.000 giocatori registrati, solo il 14% è costituito da donne.

  • Nei primi 100 della classifica mondiale, c’è soltanto una donna: la cinese Hou Yifan, che ha raggiunto il picco di 2658 punti Elo.

  • La differenza media di rating tra uomini e donne non è dovuta a una presunta inferiorità cognitiva, ma al fatto che la base di giocatrici è molto più ridotta. Con meno partecipanti, le probabilità di avere fenomeni statistici ai vertici diminuiscono drasticamente.

Il futuro della parità negli scacchi dipende da alcune scelte cruciali:

  1. Investire nella formazione femminile, con programmi mirati nelle scuole e nei club.

  2. Valorizzare i modelli positivi: campionesse come Judit Polgár, Hou Yifan o le sorelle Muzychuk sono figure in grado di ispirare.

  3. Garantire equità economica, eliminando le disparità nei premi e negli sponsor.

  4. Riconsiderare le categorie: quando e se la partecipazione femminile crescerà in modo significativo, si potrà ridiscutere la necessità di circuiti separati.

Gli scacchi sono spesso presentati come la grande metafora della meritocrazia intellettuale: sulla scacchiera non contano ricchezze, origini o caratteristiche fisiche, ma solo il talento e la strategia. Eppure, la realtà racconta una storia più complessa, dove le disuguaglianze sociali e culturali hanno un peso determinante.

La separazione tra competizioni femminili e open non è un segno di debolezza, ma una soluzione temporanea a un problema strutturale. Finché la base di partenza non sarà paritaria, strumenti come questi restano indispensabili per dare voce e spazio a metà del genere umano.

Forse un giorno, quando le statistiche saranno più equilibrate e le ragazze non si sentiranno più una minoranza nel mondo degli scacchi, le categorie femminili non saranno più necessarie. Fino ad allora, restano una risorsa preziosa.

La vera sfida non è dimostrare che le donne possano battere gli uomini – perché la storia ha già fornito prove schiaccianti – ma costruire un ambiente che permetta a più donne di provarci.

Gli scacchi, più di qualsiasi altro sport, dovrebbero essere il terreno della parità assoluta. Perché sulla scacchiera, in fondo, l’unica differenza che conta è quella tra il bianco e il nero.