Più di un secolo fa, nelle notti elettriche di Harlem, una giovane cantante afroamericana incantava il pubblico del Cotton Club con il suo stile vocale inconfondibile. Si chiamava Esther Lee Jones, ma tutti la conoscevano come Baby Esther. I suoi giochi di suoni – “Boo-Boo-Boo”, “Doo-Doo-Doo” e soprattutto il celebre “Boop-Oop-A-Doop” – divennero il marchio di fabbrica che avrebbe ispirato uno dei personaggi più iconici dell’animazione americana: Betty Boop.

Eppure, per decenni, il legame tra Baby Esther e Betty Boop è rimasto in ombra, oscurato da una disputa legale e da una narrazione culturale che privilegiò altre figure.

Negli anni ’20, Harlem era il cuore pulsante del Rinascimento afroamericano: jazz, poesia e spettacoli teatrali trasformavano la cultura statunitense. Baby Esther, con la sua voce giocosa e innovativa, divenne una delle attrazioni più originali della scena musicale.

Nel 1930, l’animatore Max Fleischer introdusse Betty Boop in Dizzy Dishes. Inizialmente rappresentata come un barboncino francese, Betty evolse rapidamente in una flapper dagli occhi grandi, simbolo di emancipazione femminile. Ma dietro quella voce frizzante c’era l’eco di Harlem, non quella di Broadway.

Il nodo centrale della vicenda fu l’attrice e cantante bianca Helen Kane, che nel 1928 assistette a un’esibizione di Baby Esther. Poco dopo, interpretò I Wanna Be Loved By You, replicando il medesimo stile vocale con il famoso “Boop-Oop-A-Doop”.

Kane sostenne di aver inventato la formula e, nel 1932, intentò una causa contro Fleischer Studios e la Paramount, accusandoli di aver copiato il suo stile per Betty Boop. Tuttavia, emerse una verità scomoda: non era stata lei a creare quel linguaggio musicale.

In tribunale, il manager di Baby Esther testimoniò che Kane e il suo entourage avevano assistito alle performance della giovane cantante nel 1928, adottandone lo stile. A conferma, venne presentato un filmato che mostrava Baby Esther esibirsi con le sue tipiche inflessioni vocali.

Il giudice Edward J. McGoldrick concluse che Kane non poteva rivendicare alcun diritto esclusivo: lo stile “Baby” non era una sua invenzione. La sentenza spazzò via le pretese legali, ma non restituì mai a Baby Esther la visibilità che meritava.

La carriera di Baby Esther, già fragile in un’industria segnata da barriere razziali e sessuali, non sopravvisse al clamore del processo. Nel 1934, poco dopo la causa, fu dichiarata morta in contumacia: le fonti sul suo destino restano confuse, avvolte da silenzi e omissioni.

Per gli storici, la sua figura è diventata emblematica di un fenomeno più ampio: la cancellazione del contributo afroamericano nella cultura popolare statunitense.

Lo studioso Robert G. O’Meally ha osservato che, in un certo senso, Betty Boop ha una “nonna nera” nascosta nelle pieghe della sua storia. Il personaggio, che divenne un’icona della cultura bianca e della modernità americana, deve la sua voce e la sua anima a un’artista afroamericana dimenticata.

Oggi, riscoprire Baby Esther significa riconoscere il ruolo delle comunità nere nella creazione di stili, linguaggi e simboli che hanno plasmato la cultura globale.

La storia di Baby Esther non è solo una curiosità da archivio: è il riflesso di una società che ha troppo spesso negato credito e visibilità ai suoi pionieri afroamericani. Dietro il sorriso di Betty Boop, dietro il suo “Boop-Oop-A-Doop”, c’è la voce di una giovane donna che cantava ad Harlem negli anni ’20 e che, pur scomparsa troppo presto, ha lasciato un’impronta indelebile sulla cultura pop.

Ricordarla oggi significa dare giustizia non solo a un’artista dimenticata, ma a un intero patrimonio di creatività afroamericana che merita finalmente di essere riconosciuto.