Quando i Queen pubblicarono Bohemian Rhapsody il 31 ottobre 1975, pochi avrebbero potuto immaginare che quella suite rock di quasi sei minuti avrebbe rivoluzionato per sempre la musica popolare. Non era solo una canzone: era un’opera in miniatura, un viaggio musicale e spirituale che univa rock, opera, ballata e pathos teatrale. A distanza di cinquant’anni, resta un enigma: perché Freddie Mercury scelse questo titolo? E di cosa parla veramente il brano?

Il titolo stesso è già un indizio. Una “rapsodia” in musica è una composizione libera, che mescola temi e registri diversi, senza una struttura rigida. Proprio quello che Mercury fece: unire a cappella, ballata, assolo di chitarra, intermezzo operistico, rock e coda finale.

Il termine “bohémien”, invece, evoca due livelli. Da un lato, la Boemia — regione della Repubblica Ceca legata al mito di Faust, l’uomo che vende l’anima al diavolo in cambio di conoscenza e piacere. Dall’altro, richiama la vita da outsider, anticonformista, quella dei bohémien parigini del XIX secolo. Mercury, figlio di immigrati parsi cresciuto a Zanzibar e poi a Londra, outsider per cultura e per identità sessuale, si riconosceva pienamente in questa dimensione.

Il titolo, dunque, diventa manifesto: una rapsodia bohemien, un’opera teatrale che racconta la vita e i dilemmi di un uomo “fuori posto” rispetto al mondo che lo circonda.

Il brano è costruito come un’opera in sette momenti:

  1. Introduzione a cappella – una voce che si interroga: “Is this the real life? Is this just fantasy?”. Realtà o illusione? Vita o sogno?

  2. Ballata – la confessione a cuore aperto: “Mama, just killed a man…”. L’omicidio metaforico di un sé precedente.

  3. Assolo di chitarra – Brian May traduce in note la disperazione.

  4. Sezione operistica – un turbine di voci, rimandi culturali, richiami religiosi, dal Bismillah coranico a Beelzebub.

  5. Sezione rock – la ribellione esplode: “So you think you can stone me and spit in my eye?”.

  6. Coda lirica – la resa e l’accettazione del destino: “Nothing really matters…”.

Questa architettura è già di per sé un atto rivoluzionario: un pezzo concepito per sfidare le regole della radiofonia, che all’epoca raramente accettava brani oltre i tre minuti.

Molti critici hanno visto in Bohemian Rhapsody un parallelo con il Faust di Goethe. Faust, incapace di accettare i limiti della condizione umana, stipula un patto con Mefistofele. Anche nella canzone Mercury canta di un ragazzo che confessa di aver ucciso un uomo — forse se stesso, il suo vecchio io — e che si trova di fronte a un bivio tra dannazione e salvezza.

Nella sezione operistica la battaglia tra forze opposte esplode: Scaramouche, il buffone della commedia dell’arte, diventa simbolo del conflitto; Bismillah invoca Dio; Beelzebub rappresenta il male assoluto. È un duello cosmico, combattuto per l’anima del protagonista.

Ma al di là dei rimandi letterari, Bohemian Rhapsody sembra essere soprattutto la confessione di Freddie Mercury. Alcuni biografi sostengono che il brano rifletta il conflitto interiore del cantante rispetto alla sua identità e alla sua sessualità, in un’epoca in cui non poteva esprimersi liberamente.

L’“uomo ucciso” potrebbe essere l’alter ego pubblico di Mercury, la maschera che non rappresentava più la sua vera natura. La supplica “Mama, I don’t want to die” appare come una confessione disperata, quasi un addio.

Il brano è costellato di citazioni che ne amplificano il mistero:

  • “Scaramouche”: figura teatrale, simbolo di farsa e maschera.

  • “Galileo”: l’astronomo rinascimentale che sfidò i dogmi. Un omaggio, secondo alcuni, a Brian May, astrofisico oltre che chitarrista.

  • “Figaro”: riferimento a Mozart e al genio operistico.

  • “Magnifico”: eco del Magnificat di Bach, canto sacro per eccellenza.

  • “Bismillah”: parola araba che apre ogni sura del Corano, “Nel nome di Dio”.

  • “Beelzebub”: il diavolo biblico.

L’opera diventa quindi un mosaico culturale che unisce cristianesimo, islam, teatro europeo e rock britannico.

Bohemian Rhapsody non fu solo una canzone. Fu anche un esperimento visivo. Il video, realizzato per la BBC, è considerato il primo vero videoclip della storia, aprendo la strada a MTV e alla cultura visuale degli anni Ottanta.

Al momento della sua uscita, la critica era divisa: alcuni la giudicarono pretenziosa, altri la acclamarono come rivoluzionaria. Ma il pubblico decretò il verdetto: il singolo rimase nove settimane al numero uno delle classifiche britanniche. Tornò in vetta nel 1991, alla morte di Mercury, e di nuovo nel 1992 con il film Wayne’s World.

Oggi è il brano più ascoltato del XX secolo in streaming.

Alla domanda “Di cosa parla veramente Bohemian Rhapsody?”, non esiste una risposta definitiva. Freddie Mercury non spiegò mai chiaramente il significato, sostenendo che fosse solo “una canzone che parla di rapporti e sentimenti”. Forse era un modo per proteggere il lato più intimo e personale della sua arte.

Ma è proprio questo mistero che ne ha alimentato il mito. Ogni ascoltatore può riconoscervi una storia diversa: un dramma esistenziale, un patto con il diavolo, una confessione autobiografica, una parabola spirituale.

Bohemian Rhapsody è una rivelazione musicale e culturale: un’opera ibrida che sfida i generi, un confessionale nascosto in una melodia rock, un mosaico di riferimenti religiosi e letterari che dialogano con la biografia tormentata di Freddie Mercury.

Il titolo unisce libertà e inquietudine: la rapsodia, con la sua struttura fluida, e la boemia, con il suo fascino marginale e ribelle. In quell’intreccio, Mercury ha consegnato al mondo non solo una canzone, ma un enigma eterno.

Perché, come conclude il brano, “nulla conta davvero”. Se non la musica.