La pellicola del 1939 ha una storia controversa e mette in luce un'inesistente versione edulcorata della schiavitù: ma è solo uno dei tanti titoli che oggi risultano offensivi. Un film non è un monumento, a cosa ci serve una singola sparizione improvvisa dopo 80 anni?


Via col vento è un Moloch del cinema hollywoodiano con una storia controversa: quando è uscito nelle sale – nel 1939, cioè più di 80 anni fa – in America rimanevano solo gli ultimi veterani della Guerra civile, e tra i figli (e i figli dei figli) del Sud schiavista si stava diffondendo una visione romantica della guerra: quella della causa persa, cioè del sogno di una generazione di uomini che si erano immolati sapendo di essere sconfitti in partenza, e che in fondo volevano solo continuare ad andare avanti con le loro vite e il loro piccolo mondo antico.
Quegli uomini, però, da più di 200 anni nutrivano il loro “sogno” con persone ridotte in schiavitù, private della loro umanità e considerate alla stregua di possedimenti personali. Quando Via col vento arrivò al cinema – frutto della collaborazione dei migliori specialisti di Hollywood del tempo – lo schiavismo dei Confederati in una certa retorica era diventato una specie di peccato veniale. Col risultato che nel film Mami – la serva domestica interpretata da Hattie McDaniel, prima donna nera a vincere un Oscar, non ritirato col resto del cast per le leggi di segregazione razziale allora vigenti – considera i suoi padroni persone buone e nobili, che stanno solo cercando di reagire all’aggressione degli stati del Nord, mentre diffida apertamente delle altre persone di colore (a cui si rivolge anche con epiteti razzisti).
Dire che questa prospettiva nel 2020 è inaccettabile – e che col passare degli anni la storia ha provato che gli schiavisti non erano persone per bene – dovrebbe essere scontato: eppure non lo è. Sul Los Angeles Times lo sceneggiatore e regista John Ridley (12 anni schiavo) ha firmato un op-ed in cui chiedeva a Hbo Max, nuovo servizio di video on demand dell’emittente statunitense, di “rimuoverlo” dal loro catalogo in quanto “film che, quando non ignora gli orrori della schiavitù, si ferma solo per perpetuare alcuni dei più dolorosi stereotipi sulle persone di colore”.
Detto fatto, il 10 giugno Hbo ha colto la palla al balzo per rimuovere temporaneamente Via col vento dai suoi archivi, spiegando genericamente che tornerà in un modo adatto a fornire riferimenti più precisi al contesto storico che rappresenta. La scelta, come si dice in questi casi, ha fatto molto discutere: la destra trumpiana ha iniziato a dire che sono iniziati i roghi della cultura in nome del politicamente corretto (era prevedibile, d’altronde), mentre gli attivisti di Black Lives Matter, con diverse sfumature, hanno celebrato la conquista della loro azione di protesta.
Contestualizzare un’opera tanto fuorviante e lontana dalla prospettiva e i valori contemporanei può essere una soluzione percorribile, ma in questa vicenda c’è anche altro, e chi non lo vuole vedere si sta perdendo un pezzo importante del discorso: la rimozione di Rossella O’Hara da Hbo non è arrivata dopo una graduale presa di coscienza dell’azienda, a valle di un confronto teso a dare a chi guarda non uno, ma tutti i suoi film la possibilità di inserirli nel contesto storico appropriato, qualora lo ignorasse. Via col vento non è che uno dei tanti lungometraggi che offendono la nostra sensibilità e consapevolezza di esseri umani del Ventunesimo secolo: la comunità nera potrebbe benissimo puntare il dito altrove, così come i 16 milioni di italo-americani potrebbero non sentirsi rappresentati dal Padrino, o i 17 milioni di statunitensi di origine asiatica avrebbero ogni diritto di non apprezzare particolarmente buona parte dei film sul Vietnam. Una volta scoperchiato il vaso, bisogna andare fino in fondo.
E qui incontriamo il primo tema: come si sceglie cosa va integrato e cosa no? Intendiamoci, per Via col vento la decisione è piuttosto facile: Donald Trump l’ha portato come esempio di bel cinema americano che fu lamentandosi a un comizio degli ultimi Oscar (dove ha trionfato, toh, un film asiatico), e l’alt-right negli ultimi anni si è messa a considerarlo un prodotto culturale da celebrare, in barba ai diritti delle minoranze. Il limite, però, può essere sempre così netto? E – un po’ lo stesso discorso che riguarda il ruolo dei social network – come sappiamo che quella contestualizzazione sarà giusta, imparziale, efficace? Se al posto di Hbo ci fosse una corporation con interessi molto a destra, non rischieremmo di trovare note a piè di pagina che giustificano il razzismo?
Come se tutto potesse essere messo a posto non da una presa di coscienza sociale e convinta, ma da un rapido colpo di spugna per placare la sete di like sui social network
E poi, si diceva, perché ora? Perché quanto nessuno ha fatto in 81 anni è stato fatto di corsa – e quindi in modo approssimativo – nel giro di poche ore, dopo un articolo virale sui social network? Non notate anche voi una certa sdrucciolevolezza in questo modo di operare, come se tutto potesse essere messo a posto non da una presa di coscienza sociale e convinta, ma da un rapido colpo di spugna per placare la sete di like sui social network?
Ancora più a monte, sbagliamo a considerare un prodotto culturale come se fosse una statua da abbattere: un monumento a uno schiavista è un’onorificenza pubblica che riflette un valore culturale (e come tale soggetta anche alla rielaborazione della memoria storica e sociale), un libro e un film sono – questi sì – figli del loro tempo, e non vogliono far altro che raccontare storie nei modi parziali e imperfetti con cui gli uomini da sempre riescono a raccontare storie. Censurare Shakespeare in quanto antisemita è il modo più scemo di sostenere la causa anti-discriminazione: le proteste di questi giorni hanno obiettivi ancora fermamente presenti nel qui e ora, nel mondo in cui George Floyd è stato brutalmente assassinato dalla polizia. A mettere le note a libri e film penseremo dopo.





"FORMAZIONE: LE SCUOLE DI RECITAZIONE
Il percorso di formazione per diventare attore professionista è estremamente vario. In generale, è preferibile frequentare una buona scuola di recitazione per imparare le tecniche del mestiere e approfondire lo studio della storia del cinema, del teatro, della drammaturgia, delle lingue straniere. In Italia esistono diversi centri di formazione dove sono attivi corsi di recitazione, danza e canto per attori.
Qui elenchiamo gli istituti più famosi:
  • Scuola Nazionale di Cinema – Centro Sperimentale Cinematografia (Roma);
  • Accademia Internazionale di Teatro (Roma);
  • Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico (Roma);
  • Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi (Milano);
  • Scuola di Teatro Luca Ronconi (Milano);
  • Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova (Genova).
L’accesso a tali scuole e accademie richiede agli aspiranti allievi il possesso del diploma di istruzione secondaria di secondo grado e può prevedere il superamento di un esame di ammissione. Ricordiamo che l’Accademia Internazionale di Teatro di Roma, l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e la Scuola di Teatro Paolo Grassi sono gli unici istituti a rilasciare – al termine dei percorsi di formazione di durata triennale – la laurea di primo livello in Recitazione (classe di laurea DADPL 02) equipollente alla laurea in discipline delle arti e dello spettacolo.
Naturalmente esistono anche altre scuole per diventare attore in Italia, quello che vi consigliamo è di documentarvi sull’offerta didattica proposta per scegliere e frequentare il corso di recitazione, di dizione e uso della voce, di teatro che più soddisfa le vostre esigenze. A seconda delle vostre preferenze, potete scegliere di seguire un corso per diventare attore di prosa, attore televisivo, attore cinematografico, attore caratterista, attore comico, attore drammatico. Fattori utili che potete tenere in considerazione nella scelta sono, ad esempio, la qualità del corpo docente, la storia e la reputazione della scuola. E, ancora, l’opinione degli ex allievi relativamente alla validità del corso, i laboratori, i seminari e gli stage offerti.
E’ possibile infine valutare l’opportunità di frequentare scuole estere per diventare attore in America o in altri paesi del mondo. In questo caso è indispensabile avere un’ottima conoscenza della lingua inglese o, in generale, della lingua parlata nel paese di destinazione.
In ogni caso non si può pensare di diventare attore senza scuola, senza una buona formazione di base. Anche se si possiede un talento innato per la recitazione ci sono delle conoscenze tecniche che si possono apprendere solo attraverso un buon percorso formativo.

COSA FARE DOPO LA SCUOLA? COME TROVARE LAVORO?
Terminata la scuola, l’aspirante attore deve preparare un book fotografico da allegare al curriculum vitae per proporsi alle agenzie di spettacolo che si occupano della promozione di attori e attrici di cinema, teatro, televisione e pubblicità. Fare l’attore, lo ricordiamo, non è semplice in quanto richiede una lunga gavetta. Per raggiungere il primo ingaggio, tanto desiderato, e ottenere i primi ruoli occorrerà partecipare a numerosi casting e provini che – a prescindere dall’esito finale – rappresentano, soprattutto all’inizio della carriera, una buona occasione per farsi conoscere da un regista, da un casting director e dai colleghi.
Oltre a rivolgersi direttamente alle agenzie, alle compagnie teatrali o cinematografiche è utile fare ricerche online per trovare offerte di lavoro per attori e attrici. Si può iniziare accettando piccole parti in cortometraggi o in produzioni video realizzate da compagnie minori. E’ importante costruire un buon cv, per questo bisogna realizzare diverse esperienze di lavoro che possano far crescere professionalmente e rappresentare un buon biglietto da visita per future candidature in ruoli più rilevanti.

SBOCCHI OCCUPAZIONALI E CONTRATTO DI LAVORO
L’attore può lavorare come libero professionista, collaboratore a progetto o dipendente a tempo determinato sui set cinematografici interni ed esterni, sui set di fiction e serie televisive, sui palcoscenici dei teatri oppure nelle scuole di recitazione come insegnante. La professione richiede la disponibilità al lavoro in orari non convenzionali, durante i giorni festivi e nei fine settimana. Porta inoltre a spostarsi spesso e a vivere lunghi periodi lontano da casa come quando si partecipa a una tournée teatrale o o si girano le riprese di un film.

STIPENDIO DEGLI ATTORI
Quanto guadagna un attore? A inizio carriera lo stipendio non è alto, per cui molto spesso al lavoro dell’attore si affianca un secondo lavoro. In generale, è possibile affermare che la retribuzione dell’attore varia a seconda del tipo di produzione per cui si viene ingaggiati e dall’esperienza / notorietà dell’artista. A titolo di esempio, se si recita in cortometraggi il compenso è generalmente contenuto (500 Euro, 1000 Euro fino a 5Mila Euro circa) e varia in funzione del ruolo e del tipo di produzione. La partecipazione a film italiani o serie televisive italiane può generare retribuzioni molto più elevate (diverse migliaia di Euro) ma anche l’impegno richiesto è più lungo. Chi riesce a diventare un attore famoso ovviamente può ottenere retribuzioni molto elevate. Attori di fama internazionale come Julia Roberts, Leonardo DiCaprio, Tom Hanks, Daniel Craig, Jim Carrey hanno guadagnato cifre che arrivano sui 15 / 20 milioni di dollari a film. Per iniziare non bisogna però pensare a come diventare attore a Hollywood e ottenere compensi milionari ma è necessario fare un passo per volta. Ci sono attori italiani (attori di film, fiction, serie televisive) che ricevono un’ottimo stipendio di decine di migliaia di Euro."



«Via col Vento è un film razzista»: Hbo lo rimuove dalla piattaforma streaming
Sull’onda delle manifestazioni per George Floyd, John Ridley sceneggiatore di «12 anni schiavo», aveva chiesto di eliminare il film dal catalogo. Hbo l’ha fatto, ma ha spiegato che il film tornerà «con una discussione sul contesto storico e una denuncia degli stereotipi etnici e razziali rappresentati nella pellicola»


Il capolavoro del cinema americano, vincitore di otto premi Oscar, uno dei film più scolpiti nell’immaginario mondiale, è stato rimosso dalla nuova piattaforma di streaming Hbo Max. La storia di Scarlett O’Hara e del suo amore tormentato con Rhett, ambientata nelle piantagioni di Tara e ad Atlanta durante e dopo la guerra civile, si legge in un comunicato della compagnia, «è il prodotto del suo tempo e dipinge alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che sono diventati, sfortunatamente, comuni nella società americana». Il film ritornerà sulla piattaforma «con una discussione del suo contesto storico e una denuncia di quegli stereotipi, ma verra presentato come creato originariamente, perché fare il contrario sarebbe come affermare che quei pregiudizi non sono mai esisiti». Un tentativo di storicizzazione, dunque.

Hattie McDaniel, la prima Oscar afromericana
Il 15 dicembre 1939 Hattie McDaniel non poté partecipare alla prima del film: c’erano ancora le leggi Jim Crow nel Sud degli Stati Uniti. Era seduta lontano dai suoi colleghi anche la sera degli Oscar, ma quella notte fu storica: McDaniel fu la prima afroamericana a vincere il premio come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Mami (parte per la quale leggenda vuole che persino la first lady Eleanor Roosevelt avesse raccomandato una sua cameriera).
Un traguardo storico, che non le risparmiò le critiche delle associazioni per i diritti civili che la accusavano di perpetrare lo stereotipo del servo nero. «Preferisco interpretare una domestica che esserlo», era la sua risposta. E ancora: «Credo che il pubblico sia meno ingenuo di quello che pensano i miei critici».

Razzismo e stereotipi
Ottant’anni dopo, il dibattito in qualche modo è ancora aperto. Via col Vento non è solo un capolavoro del cinema di tutti i tempi, ma anche un film che romanticizza l’era della schiavitù al Sud, una pellicola in cui i personaggi di colore non hanno alcuna complessità, sono come figurine tra la ribelle Rossella, la melensa Melania e l’irresistibile Rhett. Una romanticizzazione per di più datata anni Quaranta, quando la segregazione razziale era ancora legge in America.
Già dopo Charlottesville qualcuno aveva chiesto di boicottare Via col Vento. La decisione di Hbo arriva dopo l’appello sul Los Angeles Times di John Ridley. Non uno qualsiasi: regista, scrittore e sceneggiatore, nel 2014 ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale di «12 anni schiavo».

Ma ha senso il boicottaggio?
In un lungo pezzo su Vulture del 2017 sul tema del boicottaggio di Via col vento, una giornalista afroamericana, Angelica Jade Bastién, metteva a confronto proprio il film diretto da Steve McQueen con quello basato sul romanzo di Margaret Mitchell: «Nonostante la sua sanguinosa rappresentazione delle condizioni della schiavitù, credo che 12 anni Schiavo sia una visione più semplice per i liberal bianchi dato l’effetto di distanziamento della violenza che mette in scena. È facile guardare la schiena frustata di Solomon Northup e di altri personaggi e pensare: Be’, non sono così cattivo, non impongo questo tipo di violenza».
Una distanza emotiva che commuove, ma non interroga. Invece, la rappresentazione della mitologia attorno alla schiavitù, degli schiavi felici e fedeli ai loro padroni, la «bellezza di un Sud perduto, non sono intrappolati nell’ambra di un’altra era. Esistono ancora oggi nel cuore ripugnante e velenoso che sta al centro della vita Americana». La frattura su cui è costruito un Paese, come ha ricordato ieri anche Michelle Obama. Così, secondo Jade Bastién, «se Via col Vento fosse consegnato al passato, sarebbe più facile per molti dimenticare quanto sia indicativo del nostro presente». E come quella mitologia attorno alla schiavitù scorra consciamente o inconsciamente non solo negli estremismi del suprematismo bianco.


Come scrivere un romanzo (guida con consigli pratici) - Corso di ...


Ci sono alcune tristi, tristissime verità che nessuno racconta ai milioni di scrittori che custodiscono un romanzo nel cassetto. Da scrittore (non di romanzi, ma di saggi), ho avuto spesso modo di relazionarmi con queste verità e posso dire che non sono piacevoli da affrontare, specialmente per chi vagheggia il romantico desiderio di vedere il proprio romanzo a fianco dell'ultimo libro di Fabio Volo alla Feltrinelli di Galleria Vittorio Emanuele II.
Eccole, e scusate la violenza verbale:
  1. devi conoscere benissimo la lingua italiana. Non pensare di usare la scusa di essere un discepolo di Bukowski o un gonzo writer per non saper concatenare una principale a una subordinata o distinguere un congiuntivo da un condizionale. No, non è così.
  2. devi avere una bella storia da raccontare. La tua fantastica gita delle medie o la vacanza in Grecia potrebbero non essere il romanzo di formazione che tutti aspettiamo da dopo che Hemingway ci ha lasciato.
  3. devi saper raccontare. Che è un po' la combinazione dei primi due punti. Se hai la stessa prosa coinvolgente del bugiardino del Voltaren, lascia perdere.
  4. devi darti da fare per trovare il modo di farti conoscere. Capolavori nel cassetto ce ne sono a migliaia e, purtroppo, tali rimarranno. Nel cassetto. Cerca un editore, cerca dei canali di diffusione, cerca di far sapere alla gente che c'è un libro bellissimo che attende solo di essere letto.
  5. c'è una concorrenza spietata. Le librerie sono inondate, subissate di narrativa. L'editoria non naviga nell'oro, ma a quanto pare in Italia non ci si stanca di scrivere. Il tuo libro potrebbe restare esposto, qualora arrivasse in libreria, una o due settimane prima di sparire nei magazzini.
  6. non diventi milionario. A meno che non indovini la saga giusta, la storia giusta, il filone giusto, non riuscirai a pagare le rate dell'Aventador con i diritti del tuo primo romanzo.
  7. se sei un VIP puoi saltare allegramente tutti i punti precedenti. Un romanzo non si nega a nessun vero VIP, influencer, attore, soubrette, trend setter o blogger che si rispetti. Li riconosci subito. Il loro nome è scritto più in grande del titolo. Lo hanno scritto proprio loro? Hanno usato un ghost-writer? Sono davvero romanzi di qualità? Quando avrai scoperto la risposta, probabilmente avranno già venduto 200.000 copie.


10 Consigli per promuovere il tuo libro | Youcanprint.it



E perché mai dovrei?
Ho letto manoscritti inediti per una casa editrice come selezionatore, e conosco BENISSIMO cosa gira tra gli esordienti non pubblicati e/o i rifiuti delle case editrici.
Questi sono i miei motivi:
  1. Ho letto - e leggo purtroppo ancora - alcuni cosìddetti 'fenomeni' del self-publishing. Perché quando incontro qualcuno che canta vittoria con il self publishing in Italia, faccio allora dei controlli per pura curiosità professionale. E finora ho trovato SOLO truffatori: copie autocomperate a centinaia per gonfiare le vendite, recensioni a pagamento, palesemente fasulle e spesso scritte dall'autore stesso (!!!!). Per carità, essere nel settore come me aiuta a scoprire queste cose, ma non ci vuole un genio. Se un libro ha dieci recensioni a 5 stelle che gridano al capolavoro (senza nemmeno accennare alla trama, né ad altri contenuti), e poi c'è una sola recensione da una stella, che però parla di “un romanzo senza capo né coda, pieno di errori e incongruenze, e senza finale pure…” allora è chiaro che le altre recensioni sono tutte fasulle. E senza nemmeno bisogno di leggere più di 4–5 pagine. Il massimo dei fenomeni 'leggittimi' del self italiano aveva delle vendite da fallimento editoriale ASSOLUTO, e non si capiva di quale successo stessero parlando. Per quanto riguarda il talento, in tanti anni ne ho incrociato solo uno e vendeva zero, dunque non se lo sta filando nessuno.
  2. leggere richiede tempo. Anche solo accorgersi che un libro non va a parare da nessuna parte richiede tempo prezioso e no, non ho alcun 'dovere' di dare una possibilità a tutti. Lascio che le case editrici facciano il lavoro per me. Infatti il vero lavoro delle case editrici è selezionare libri per noi. Ma nel momento in cui andiamo a tirar su roba cestinata dalle case editrici, stiamo rimestando appunto nella spazzatura. E dentro la spazzatura - per forza di cose - trovare roba buona richiede DAVVERO troppo lavoro. Un lavoro VERO, che conosco per esperienza. La maggior parte dei lettori si lamenta della scarsa qualità della letteratura moderna e qualcuno dice che non bisogna essere 'razzisti' con le autopublicazioni? Bé, io lo sono eccome. Perfino 50 sfumature di Grigio pare Tolstoji rispetto alla media delle autopubblicazioni e questo è un dato di fatto. Poi se avete tempo da perdere alla ricerca della chicca che non conosce nessuno per motivi di puro egocentrismo, siete fortunati. Io ho una vita piuttosto piena, e preferisco NON leggere 10 romanzi orrendi prima di trovarne uno vagamente decente.
  3. i libri curati da una casa editrice vengono curati da professionisti, non da dilettanti. Questo significa meno errori, migliore impaginazione, miglior copertina, miglior tutto. E se da un lato è vero che l'abito non fa il monaco, dall'altro in letteratura la faccenda è un pochino più complicata. Romanzo e libro sono due cose diverse, lo sapete vero? Ma se devo spendere dei soldi - anche solo pochi euro - per un romanzo, PRETENDO che venga messo dentro un libro dignitoso. Ebook o carta, non importa: gli autoeditori non sanno fare libri. Al di là del 'possibile' contenuto sono SEMPRE tutti brutti libri… per il semplice fatto che fare libri belli è un mestiere. E l’autoeditore non lo sa fare.
  4. la maggior parte delle autopubblicazioni meritano di non essere pubblicate, e di non essere lette da nessuno pure. E' un dato di fatto. La gente che scrive male è MOLTA DI PIU’ di quella che scrive bene, è un dato di fatto. No, non è che tutti sanno scrivere. Assolutamente no. E gli autori di tali porcherie cascano sempre tutti completamente dalle nuvole. Non se ne rendono proprio conto. Tutto questo è dimostrabile scientificamente. Viene infatti causato dal 'Dunning Kruger effect'. Il Dunning Kruger effect è un fenomeno psicologico (universale e inevitabile, purtroppo) per il quale meno conosci una cosa, più pensi che sia facile farla. Un po' come quando guardiamo il pattinaggio artistico su ghiaccio, e pensiamo che sia facile perché quelli bravi fanno le acrobazie con fluidità. O pensare che diventare un campione di calcio sia facile perché basta 'calciare un pallone'. In letteratura, il Dunning Kruger ha però una tragica conseguenza: peggio uno scrive, più crede di essere bravo perché non ha proprio idea di cosa voglia dire scrivere bene. Ergo: chi scrive male, per definizione, crede di essere bravo. E a volte, crede di essere addrittura un genio. Se avessi un euro per ogni scrittore mai pubblicato che credeva di essere un genio incompreso, e che ho conosciuto… adesso sarei ricco. Altra cosa - meravigliosa, quest’ultima - è che sono proprio quelli che credono di essere dei geni a scrivere decisamente peggio della media. Viceversa invece, i più bravi sono proprio quelli che pensano - per dire - a 50 sfumature di grigio come a un libro scritto COMUNQUE meglio di come scrivono loro.
In conclusione:
Finiamola con questo qualunquismo letterario e diciamo le cose come stanno:
A) la maggior parte di chi scrive, scrive male
B) possiamo lamentarci delle case editrici quanto vogliamo, ma alla fine le case editrici sanno fare il loro mestiere. Specialmente A) nello scegliere e B) nel trasformare un manoscritto in un libro VERO, fatto bene.
C) Amazon sta lucrando sui sogni e l’ignoranza di migliaia di scrittori.
D) Amazon non rende pubblici i dati sulle vendite per mantenere in piedi l'illusione che il self publishing funziona.