Risultato immagini per Cari aspiranti scrittori: è facile farsi pubblicare se sapete come farlo


Vita standard di un caporedattore alle prese con manoscritti illeggibili. Tra chi propone romanzi, racconti e poesie alligna la pazzia. Ma basterebbe seguire alcune sempllici regole per farsi prendere sul serio dagli editori. E finire, con la propria opera, in libreria

Ieri mattina ho avuto la malaugurata idea di mettermi a leggere tutti i manoscritti arretrati spediti a 1437 Network. Di solito li scremo man mano che arrivano in redazione, dividendoli tra Leggibili e Illeggibili. Gli illeggibili li cestino. I leggibili li raggruppo per condividerli con direttori e redattori: insieme si vota per pubblicarli o no. Nelle scorse settimane, per finire il lavoro sul nuovo numero prossimo ad andare in stampa, ne ho accumulato alcune decine, così ho dovuto rimettermi in pari velocemente.
Leggendo in fila i testi, le biografie degli autori, le lettere di accompagnamento, mi sono definitivamente convinto che quasi tutti quelli che stanno per premere INVIO a una mail con oggetto “proposta di pubblicazione”, o “alla cortese attenzione del direttore editoriale…” lo facciano con le peggiori intenzioni. E ne ottengano i peggiori risultati.
Ci sono passato anche io. Conosco per esperienza diretta tutta la rabbia di chi è in speranzosa attesa di pubblicare, il senso di esclusione, le aspettative e le delusioni che danno vita a questa sorta di “grillismo editoriale”, con annesse teorie del complotto stile Ordine Editoriale Mondiale. Raramente l’invio di un manoscritto andato a vuoto dà direttamente origine a una catena di omicidi-suicidi, quindi se ne parla fino a un certo punto. Eppure, sono convinto che se tutti gli aspiranti scrittori che ci sono in giro fossero un po’ meno frustrati e rancorosi, i tassi di violenza domestica, risse, incidenti d’auto, abuso di farmaci e sostanze psicotrope, diminuirebbero sensibilmente. I cinquestelle prenderebbero meno voti, il web sarebbe un posto meno inutilmente violento, il Paese intero ne gioverebbe.
Siccome da qualche tempo mi trovo dall’altra parte della barricata, cioè nei panni di quello che sta alla scrivania a leggere manoscritti inediti, ho iniziato a farmi un’idea meno autobiografica e più sociologica di cosa passi per la testa di chi trova il coraggio di premere INVIO.
Una caratteristica che unisce quasi tutti quelli che non riescono a farsi pubblicare con cui ho parlato negli anni è che, prima o poi, nel silenzio dei propri mugugni o in CAPS LOCK sui social network, trasformano in bandiera in nome della quale combattere l’elenco dei rifiuti editoriali eccellenti. Un ottimo modo per consolarsi alimentando la propria diffidenza nei confronti dell’agognato “mondo editoriale”: da Harry Potter a Proust, da Primo Levi a Moresco, da Moravia, che si autopubblicò “Gli indifferenti”, al caso di culto di Guido Morselli “che si è perfino ammazzato…”. Ci sono libri dedicati a questo argomento. E nutriti elenchi in rete. Ed è tutto vero: gli editori, gli agenti letterari, i critici, i lettori professionisti sbagliano eccome, e voi potreste essere esattamente quel caso su un milione di genio letterario che “non è stato capito”.
Però, pensateci un attimo: quanto è probabile? Quanto è probabile che siate proprio voi l’eccezione e non la regola? C’è un esempio molto banale, che quindi proprio per questo funziona, abusatissimo nei telefilm ospedalieri, da Dr. House, a Grey’s Anatomy, passando per Scrubs: se senti rumore di zoccoli, pensa al cavallo, non alla zebra. Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavalli=testi Illeggibili. Zebra=testi Leggibili (e/o bellissimi, interessanti, vendibili, etc, etc). Ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre.
Facciamo una passo indietro. Sul fatto che il mondo editoriale sia “tutto un magna magna”, parliamoci chiaro: una raccomandazione (che tra l’altro non è sempre una cosa negativa, anzi, spesso nasce da un sincero apprezzamento dell’autore o della sua opera da parte di qualcuno che gode della stima e della fiducia di un altro professionista altrettanto stimabile e affidabile e così via), fa naturalmente sempre comodo. Come dovunque. Non è cosa segreta a nessuno che, come ha detto il Ministro Poletti - rischiando il linciaggio per eccesso di leggerezza - si trovi più facilmente lavoro alle partite di calcetto che mandando i curriculum.
È pacifico che anche nell’editoria molti emergenti ottengano l’attenzione che desiderano proprio negli spogliatoi dei campetti a cinque più che con l’invio al buio di un inedito. Se scrivete e abitate a Roma e avete una buona idea per un romanzo non fareste poi tanto male a comprarvi un paio di scarpini da calcio e cominciare ad allenarvi.
Ma, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, le raccomandazioni servono più a farsi leggere che a farsi pubblicare. Se scrivete cose brutte, o che non funzionano, e non siete Lionel Messi, passare un sacco di serate in panchina, sperando che qualcuno si infortuni per poter entrare, non vi sarà molto d’aiuto.
Tanto vale recuperare l’indirizzo mail di editor di case editrici serie e mandare direttamente il vostro testo senza mediazioni. Le librerie sono piene di invii “alla cieca” andati a buon fine, di inediti acquisiti, amati e sostenuti da veri editori grandi e piccoli senza nessuna raccomandazione, con l’unico interesse di pubblicare il libro migliore con più possibilità sul mercato.
Per farne una rassegna approfondita, occorrerebbe una seria ricerca. Ma, per poterne citare qualche esempio e smontare all’impronta qualche pregiudizio basta un pessimo cronista come il sottoscritto, che essendo vergognosamente pigro, si affida a un rapido giro di telefonate fra conoscenti.
Faccio uno squillo a Leonardo Colombati, che mi racconta del suo esordio: “Non conoscevo nessuno. Mandai il romanzo in busta, e dopo un paio di mesi mi chiamò al telefono una persona, dicendomi: "Buongiorno, sono Giulio Mozzi, vorrei pubblicare il suo romanzo".
Così sento Mozzi, che mi racconta di Diego De Silva: “Mi aveva mandato una busta con un racconto molto bello, avviammo una corrispondenza, all’epoca non lavoravo per nessuno in particolare, sentii Stile Libero, ma niente, allora feci da tramite con Pequod, per cui uscì il suo romanzo La donna di scorta”. Prima di salutarmi, mi suggerisce di sentire Mariolina Venezia, che chiamo: “Avevo scritto questo insieme di racconti nel ‘92 o nel ’93, e avevo selezionato alcune case editrici, una era Theoria, andai lì col motorino, c’erano pile di manoscritti dappertutto, ho pensato che non mi avrebbero mai letto. Poi, parecchio tempo dopo, forse anche un anno, ho ricevuto la chiamata di Giulio Mozzi, e il libro uscì”.
Paolo Di Paolo, a cui mando un sms, mi scrive: «ero ancora uno studente universitario residente fuori Roma, mandai un racconto alla rivista Nuovi Argomenti, e dopo poche settimane mi chiamò Enzo Siciliano, all’epoca direttore della rivista. Era in treno, stava andando a Firenze al Gabinetto Viesseux, c’era molto rumore, mi disse semplicemente “Ho letto il suo racconto, ha un tono dolente e ironico che mi piace, lo pubblichiamo”».
Gaia Manzini, interrogata in proposito, mi scrive su whatsapp che fu sua madre a convincerla a mandare un racconto a Nuovi Argomenti. Chiamò in redazione, rispose Carlo Carabba, all’epoca caporedattore, che dopo averla pubblicata in rivista girò il suo numero a Mario Desiati, che poco dopo la chiamò: “Non ti montare la testa ma i tuoi racconti sono piuttosto buoni, però io per Mondadori non ti posso fare esordire con dei racconti, mettimi giù un’idea di romanzo”. Quando poi ci siamo visti di persona, mi disse “guarda, mi sono appena licenziato da Mondadori e sono andato in Fandango, ti faccio esordire lì coi racconti”.
Mentre considero conclusa la mini rassegna, incerto se aggiungere la mia esperienza personale di invio alla cieca ad Antonio Franchini a questa carrellata, mi scrive su Facebook Matteo Strukul, che ho conosciuto alla presentazione dei finalisti del Premio Bancarella. È un’altra storia, ma insieme ad Alessandro Barbaglia siamo finiti in un’osteria novarese dove, dopo aver visto un video di Gianluca Grignani e Gian Paolo Serino, abbiamo iniziato a progettare il manifesto poetico di un gruppo artistico: I Neoromantici. Mentre faccio una chat collettiva su Facebook dal titolo I Neoromantici (per scoprire che il video da cui avevamo preso spunto per la nostra dichiarazione di poetica parlava in realtà di Neuroromantici: non c’è niente di più neoromantico che provare il desiderio di unirsi a un gruppo che non si chiama come si pensava si chiamasse!) approfitto per infilare i miei due compagni di bisboccia nell’articolo.
Strukul: “Ho mandato il mio manoscritto all'attenzione della nuova direttrice della collana Sabot/Age di Edizioni E/O, Colomba Rossi, e l'editore ha fatto avere il manoscritto a Massimo Carlotto che curava la collana appena nata e lui e Colomba hanno deciso di pubblicare La ballata di Mila come romanzo di apertura”.
Barbaglia: “Ero a Novara in un teatrino dove leggevo i miei “Testicoli”, che sono dei testi piccoli e un po’ comici, un po’ intimi, come i testicoli. A fine serata una ragazza molto alta mi si avvicina e dice: “Secondo me i tuoi Testicoli funzionano”. Non so che dire. E allora lei, che era una scrittrice, mi dice: “Dovresti pubblicarli, li giro al mio agente”. Pensavo scherzasse. Poi mi ha chiamato davvero la sua agenzia, che non ha voluto i testicoli ma mi ha chiesto di scrivere un romanzo, l’ho fatto ed è uscito”.
Questi esempi, per quanto estemporanei, possono essere molto istruttivi per chi desidera pubblicare ma ancora non è riuscito a farlo. Gli aspiranti scrittori sono tanti, è vero. Ma anche le case editrici, i loro lettori di fiducia e gli interlocutori che possono fare da mediatori non scherzano, numericamente. È forse il senso più profondo del torto di Tremonti al tempo in cui disse “Con la cultura non si mangia”. Mi pare che, poco e male, magari vivendo esistenze molto più simili a quelle di erasmus ventenni che a quelle di adulti responsabili (salvo quelli, non pochi, benestanti di famiglia), ma ci mangiamo in un po’, mi pare, con la cultura.
Per sincera passione verso il loro lavoro alcuni, per continuare a mangiucchiare qualcosa altri, il piccolo esercito composto da editori e lettori professionisti spera sempre di poter estrarre un capolavoro o un bestseller (meglio se tutti e due) dalle pile fisiche e virtuali di manoscritti che aspettano di essere letti. Cioè i vostri.
A dir la verità, tra queste enormi pile virtuali e analogiche, di capolavori e bestseller non se ne trovano quasi mai. I testi raccomandati, mediamente, sono molto meglio.
L’homo editorialicus, questo, lo sa bene.
E, ormai, visti i tantissimi forum in rete dedicati al tema, lo sa anche chi invia, che chi riceve i testi parte con un legittimo pregiudizio: troppi cavalli, per non dire ronzini, pochissime zebre. Come fare a farsi notare nella mandria?
State sereni: è facile pubblicare (se sapete come farlo).
Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello medio delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di TOTALE inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare. E non sto parlando, naturalmente, di editori a pagamento, o di autopubblicazione, nemmeno se con questo si intenda fondarsi una casa editrice e pubblicarsi da soli. Sto parlando di un vero piccolo, medio, o grande editore. Che vi pagherà tanto o poco (verosimilmente poco) e cercherà di vendere il vostro lavoro (generalmente non riuscendoci, ma questa è un’altra storia).
Qualche piccolo suggerimento perché, sapendo come farlo, pubblicare sia davvero facile:
1) Assicuratevi di conoscere i vostri interlocutori: sapere quello che pubblicano aiuta a non disperdere gli invii. Basta leggere i libri che un editore pubblica per capire se il vostro testo può interessargli o no. Potete leggerli anche in biblioteca se siete tirchi o poveri.

2) Siate consapevoli di quello che avete scritto: inutile mandare romanzi adolescenziali porno soft (o anche non soft) a editori che pubblicano solo saggi entomologici di autori finlandesi ottuagenari. Se non per ravvivare la giornata degli editor. O la mia.
3) Evitate di scrivere lettere d’accompagnamento lunghe quanto o più del manoscritto che inviate. Non è raro che l’ansia da prestazione vi faccia apparire scrittori peggiori e più prolissi di quanto non siate. E, viceversa, se la lettera dovesse risultare più brillante del manoscritto, forse dovreste farvi delle domande.
4) Curate il testo. Vuol dire “giustificate”, usate un carattere d’uso comune, un corpo leggibile e (per l’amor di Dio!) mettete i numeri di pagina. Se il testo sembra perlomeno riletto e un po’ curato graficamente chi lo legge vi prenderà più sul serio. Quindi non dico di farvi ossessionare dalla caccia al refuso (Dio ha inventato i redattori per questo!). Ma se un file word all’apertura appare sottolineato interamente dal correttore automatico, qualcosa che potrebbe far pensare al vostro lettore che siete dei mentecatti ignoranti e menefreghisti c’è. Ci sono eccezioni, certo, ma, di solito, la follia formale in cui si presenta visivamente un file ricevuto si rispecchia pienamente nella follia formale della scrittura in esso contenuta. Come vorreste si presentasse un testo indirizzato a voi? Ecco, siate cristologici, non fate leggere agli altri quello che non vorreste fosse fatto leggere a voi.
5) Non esagerate con le cure. Decine di epigrafi, dediche strappalacrime (“A mia nonna, che nonostante fosse una povera contadina, cieca ed ex partigiana ha risparmiato tutta la vita per comprarmi un volume della Recherche di Proust, volume che lessi avidamente ma che fui costretto a bruciare pagina a pagina nella stufa per riscaldare i miei fratellini rimasti orfani l’inverno in cui decisi di diventare uno scrittore…”) e ringraziamenti (“Grazie Papa Francesco, che con quella stretta di mano mi hai silenziosamente detto: Scrivi, vai avanti!”) non sono così necessari come credete. Tendenzialmente vi fanno apparire patetici. Dei poveri, patetici, boriosi. Dei poveri, patetici, boriosi che non verranno mai, mai, mai e poi mai pubblicati da chiunque abbia un briciolo di dignità.
Altra cosa: non mettete il vostro nome in sovraimpressione su ogni foglio di testo per paura che vi venga rubato il manoscritto. Vi fa apparire paranoici e fuori dal mondo: già i libri di scrittori affermati non si vendono, figuriamoci se si rubano i vostri. Trovare gente che scriva bene è così raro che se siete bravi davvero, e mandate il testo a una casa editrice vera, voi in carne e ossa varrete ai loro occhi molto più del vostro manoscritto. Chi non preferirebbe una gallina oggi a un uovo oggi? Perfino gli editori sono abbastanza furbi da farsi i loro conti, nonostante siano quel tipo di esseri umani che continua a pensare che potrà fare soldi coi libri nel 2020.
FONDAMENTALE: non mettete cornici per rendere più “carine” le vostre pagine. A meno che non sia un libro illustrato, un libro di grafica, o qualcosa per cui i ghirigori abbiano un senso, davvero, abbiate pietà: no cornicette come se foste ancora alle elementari. State invecchiando. E se non vi sbrigate non farete in tempo a dare alle stampe il vostro capolavoro prima di lasciare questa valle di lacrime.

6) Se proprio sentite l’esigenza di aggiungere al testo una biografia, fatelo solo se è una biografia che aiuta il testo e non una di quelle che fa si che il testo venga direttamente cestinato, o leggiucchiato con pregiudizio. Ad esempio, se avete altre pubblicazioni alle spalle, siete sicuri sicuri di volerle segnalare proprio tutte? Anche l’aver pubblicato il “bestseller circondariale” Il torto del recensore con Kittesenculaselfpubliching? Io vi consiglierei di eliminare anche i “vive in un piccolo paese in provincia di Sassari”, “Dalla sua casa in collina osserva tutti i giorni il verde del territorio circostante”, “La mattina scruta il mare e ne trae ispirazione”, “Fruga spesso tra le cose vecchie e nascoste ma ha l’ansia da notifica per mail, social network, forum e quant’altro” che mi è toccato leggere ieri. Sembrate pazzi. Pazzi e noiosi. Pazzi, noiosi e impubblicabili.

7) Se inviate per posta, benissimo. Se volete aggiungere un omaggio al manoscritto, sentitevi liberi. Ma che il vostro tentativo di corruzione sia invogliante. Mettere foglie secche, fiori appassiti, immaginette sacre, ritagli di foto del destinatario (sembrano più una minaccia!), disegnetti dei vostri figli e indecifrabili lettere vergate a mano dentro buste chiuse non vi aiuterà a essere letti con maggior favore. Piuttosto, soldi. Se sapete già che la qualità del testo non basta, mettete soldi. Tanti soldi. Ma sono graditi anche salumi, vini, formaggi. Nessuna persona seria vi pubblicherà per questo. Ma brinderà a voi e troverà maggiori motivazioni per non insaponare una corda a fine giornata.

8) Mettere come prima cosa, prima del titolo, prima del vostro nome, prima di tutto, i vostri recapiti di casa, lavoro, cellulare, mail personale, mail ufficio, tutti i vostri profili sui social network, etc, etc, denota ANSIA. Non indurrà il vostro lettore a chiamarvi prima per chiedervi come state, che fate, se vi va di fare quattro chiacchiere al telefono, ognuno nella rispettiva vasca da bagno, per sparlare un po’ insieme del mondo editoriale brutto e cattivo. Vi troveranno, se quello che avete scritto è buono, vi troveranno facilmente, se non vi telefoneranno, non vi risponderanno alle mail, non lasceranno messaggi ai vostri genitori che avete obbligato a restare a casa “sia mai che chiami l’editore”, non è perché non vi riescono a rintracciare, ma perché non gli piacete abbastanza.

9) No, tendenzialmente, a meno che non siate particolarmente avvenenti, niente “allegata foto dell’autore”, grazie.

10) Quando scrivete direttamente a qualcuno, se sbagliate il suo nome, non è che sia grave, mediamente sarà un povero stronzo, come il sottoscritto. Però, diciamo che quando mi arrivano mail tipo: “Esimio Direttore della 1437 Network Dottor Endrizzi”, come faccio a non rispondere “Non sono direttore, sono caporedattore, praticamente un factotum, quindi capisce bene, un minimo ci tengo, in cosa posso esserle utile?” senza provare un certo senso di sconforto e quindi senza essere pienamente bendisposto verso l’interlocutore?
In generale, giuro, la cosa più importante per aumentare le possibilità di essere pubblicati è, non dico essere, ma perlomeno sembrare, sani di mente. Se ce la fate, e mandate un testo che possa rientrare nei gusti di chi dovrà leggerlo, permettendogli di leggerlo senza indisporlo con assurdità paratestuali che vi mettano in pessima luce, siete già a metà dell’opera.














Già, è proprio vero: Ben Stiller era uno di quegli attori che piacevano proprio a tutti, però ultimamente è, come dire, un po' sparito nel nulla. Ma come mai?



L'ex membro della frat pack (nomignolo preso dalla rat pack di Sinatra, usato per definire un gruppo di attori che parteciparono insieme in vari film, e composto da: Jack Black, i fratelli Wilson, Will Ferrell, Carell, Vince Vaughn e appunto Stiller), un tempo uno tra i più pagati attori di Hollywood, e l'attore comico più popolare assieme a Jim Carrey, è ora completamente scomparso dalle nostre sale cinematografiche.
Il suo ultimo film di cui ci ricordiamo, è stato l'insoddisfacente Zoolander 2, mentre l'ultimo film con qualche pretesa di successo (uscito subito dopo il modesto progetto di The Meyerowitz Stories— distribuito da Netflix, e resosi famoso principalmente per la sua diatriba con Cannes) fu Brad's Status, inedito in Italia, il quale fu un assoluto insuccesso (basandosi sulla risposta negativa della critica e sul fatto che — pur essendo stato distribuito da due buone case (Amazon e Annapurna) la pellicola fu un fiasco totale al botteghino ($3.8 milioni—giusto per darvi un'idea, il penultimo Notte al Museo fece 420 milioni di dollari).
Brad's Status fu anche l'ultimo film di Ben Stiller, che dal 2017 ha completamente smesso di recitare [in produzioni cinematografiche].
Da allora Stiller è riapparso sugli schermi una sola volta, nel 2018, in un divertentissimo ritorno al Saturday Night Live, dove impersonò l'avvocato del Presidente Trump, Michael Cohen, il quale nello sketch viene sottoposto ad un test con la macchina della verità da Robert [De Niro] Mueller. Quando Mueller/De Niro domanda a Stiller se egli abbia mai effettuato un test con il poligrafo, Cohen (Stiller) gli risponde: "Mii sento come se avessi."



Insomma, Ben la vena comica non l'ha persa proprio; ma, quindi, che è successo?
A suo favore diciamo subito che Ben è uno delle poche ex-stelle che non hanno cercato scuse: se pur vero che fin dagli inizi Stiller sentì il bisogno di dar sfogo alla sua cretività (già nel 1992 creò uno show tutto suo, il Ben Stiller Show; ed in seguito fu direttore di alcuni dei suoi stessi film, alcuni dei quali ebbero anche molto successo, come il primo Zoolander e Tropic Thunder), Ben non ha citato questo impulso creativo come scusa per il suo declino. Ma, di nuovo, cosa è successo quindi? Beh, come detto, l'ultimo film fu un insuccesso, così come il Zoolander che lo precedette: Hollywood potrebbe semplicemente aver deciso che non valeva più la pena correre rischi (pensate: Zoolander 2 incassò 56.7 milioni contro un budget di 55; quando si dice salvi per un pelo!).
Ad incrinare i rapporti con Hollywood e l'audience, poi, potrebbe esserci anche il tentativo di 'cambio di personaggio-tipo' da parte di Stiller. Molto spesso, nel mondo dello spettacolo (specialmente quando si parla di comici), accade che un attore, nella fase avanzata della sua carriera, decida di scrollarsi di dosso il tipico ruolo o immagine a lui associata cambiando genere ed approccio al personaggio. Stiller tentò di fare questo negli ultimi tempi (pur rimanendo sul genere comico-drammatico) ad esempio con Greenberg e La Vita Segreta di Walter Mitty (un film che mi apparve molto… strano. Non riesco a definirlo né un'esperienza negativa, né un'esperienza positiva. Boh).
Poi come sempre ci sono gli affari della vita privata che incidono sulla carriera e le prestazioni artistiche. Gli fu diagnosticato il cancro alla prostata nel 2014 (la cui operazione di rimozione andò bene); nel 2017 si separò dalla moglie Christine Taylor (la co-protagonista nel primo Zoolander), ed infine, nel 2015 perse la madre, la famosa attrice Anna Meara. Il genitore rimastogli, ovvero papà Jerry—anche lui attore, apparve insieme al figlio in vari film, tra cui Lo Spaccacuori:


—a 92 anni di età, potrebbe risultare difficile da gestire (vivono entrambi a Manhattan) o nella comunicazione.
Altri due aspetti da considerare sono l'insicurezza ed il tempo. Sì, perché il tempo passa per tutti, ma al suo passare viene ascritta più importanza da alcuni, e meno da altri. Ben Stiller dichiarò pubblicamente di soffrite di disturbo bipolare, si vociferava avesse sofferto di bulimia da ragazzo. Inoltre—anche se non si nota—osservandolo attentamente sotto l'aspetto estetico nei suoi film, si percepisce la sua attenzione all'aspetto fisico, che a sua volta si evince dalla sua forma fisica molto 'pompata':


Ora io non sono uno psicologo, ma tutte queste cose messe insieme mi danno l'idea di una persona… insicura. Magari Ben ha paura che sia passato troppo tempo, di essere invecchiato; che il suo aspetto e le sue battute siano troppo vecchi per ottenere l'approvazione del grande pubblico…
*
Infine, nel 2001, Stiller fondò la casa di produzione Red Hour, che tuttoggi si impegna nel supporto e produzione di pellicole indipendenti (ad esempio, Il Re della Polka, con Jack Black), tra le quali viene data precedenza al valore artistico; e la direzione di questa casa di produzione avrà certamente tenuto occupato Stiller, ed è possibile—visto il sopraccitato focus di questa—possa averlo alienato maggiormente da Hollywood.
Mi piacerebbe potervi lasciare con una fausta nota sul futuro cinematografico di Ben, ma ad oggi ci sono solo vaghissime voci su un nuovo Notte al Museo ed un possibile sequel di Dodgeball (nel 2015, comunque, Stiller diresse Escape at Dannemora—con Benicio del Toro, il quale fu acclamato dalla critica; se quindi desiderate testare le sue abilità da regista drammatico, potreste voler dare a questa mini-serie una chance).
Non ci resta che aspettare e stare a vedere, quindi, sempre che non ce lo dimentichiamo nel frattempo, o che lui non si dimentichi di noi…






Scoperta per caso nella metropolitana di Londra, protagonista di un video diventato virale in Rete, la ragazza di 30 anni diventa, con la sua cover di «Shallow», il nuovo fenomeno su cui puntare. Dal successo su Instagram all'ospitata da Ellen, ecco come il sogno è diventato (per caso) realtà
Mentre l’originale strega il mondo con i capelli rosa e una tutina metallizzata che ammicca a Sailor Moon, Charlotte Awbery inizia a essere battezzata un po’ dappertutto come la nuova Lady Gaga, come il talento grezzo da tenere d’occhio. È passata una settimana da quando passeggiava per la metropolitana di Londra e Kevin Freshwater, star di Youtube, l’ha fermata chiedendole di intonare a cappella una strofa di Shallow, la canzone che ha permesso a Gaga di vincere l’Oscar nel 2019. Quella di chiedere ai pendolari di cantare è per Kevin una prassi ormai consolidata, un giochino per suscitare ilarità, ma trovarsi di fronte a ciò che è riuscito a fare Charlotte non è decisamente la norma.
Dopo aver abbattuto la ritrosia iniziale la ragazza, 30 anni, originaria di East London, si lascia andare regalando una performance da brivido che diventa immediatamente virale in Rete.
È l’inizio del fenomeno: i suoi follower su Instagram passano da 400 a più di 600mila (inclusa Ariana Grande) e i media internazionali non fanno che parlare di lei, di questa donna con i capelli vaporosi alla Farrah Fawcett che colpisce per l’aria sbarazzina e, soprattutto, per il mancato bisogno di diventare famosa e popolare a tutti i costi. Il fatto di essere stata intercettata per caso in metropolitana la rende un’eroina sui generis, una delle poche che, anziché scalpitare per farsi vedere, sceglie di farsi i fatti suoi in attesa che qualcosa cambi la sua vita per sempre.
In questo, Charlotte Awbery è un po’ la Cenerentola dei talent: mentre la maggior parte dei pretendenti affolla i palchi con un numerino attaccato alla maglietta, lei prosegue per la sua strada convincendoci che, forse, per trovare un vero talento c’è bisogno di scendere per i corridoi della metropolitana e vedere un po’ come se la passano tutti i cantanti che scelgono di non farsi vedere, ma che coltivano la loro aspirazione in segreto. La consacrazione definitiva arriva, però, grazie a Ellen DeGeneres che, nell’ultima puntata del suo show, sceglie di invitare Charlotte come guest facendola conoscere anche a quei pochi che non si sono imbattuti nel video della sua performance. E chissà che per lei non sia l’inizio di una nuova carriera. Magari con un duetto proprio con Lady Gaga.


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«Non basta scrivere due rime sopra un Beat»
(Saga, Wanna be MC)


Master of Ceremonies, noto anche con la sigla MC è un'espressione di lingua inglese che significa, letteralmente, "maestro di cerimonie". L'MC'ing è una delle quattro discipline che compongono l'hip hop.
Spesso il termine "MC" ed il termine "rapper" vengono usati come se fossero sinonimi. In realtà un MC è un rapper, ma il rapper non è sempre un MC. La caratteristica comune ai due personaggi è la capacità di comporre testi che abbiano un senso, che parlino di un qualcosa dall'inizio alla fine della composizione. Ma un rapper per essere veramente un bravo maestro di cerimonia, come dice chiaramente il suo nome, deve anche:
  1. riuscire a fare freestyle, cioè improvvisare delle rime su qualsiasi base, sul silenzio, o con l'accompagnamento di un beat-boxer;
  2. avere il flow (letteralmente flusso, inteso come il ritmo) necessario per riuscire a "trascinare" la folla che sta ascoltando.
Anche se si può fare rap (rappare) senza base musicale, solitamente un MC è accompagnato da qualcuno che possa fornirlo di una base, che può essere il dj o il beat-boxer. In sostanza l'MC è il più alto grado di esperienza attribuibile a un rapper.









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Il Block Party, che in italiano sarebbe la Festa dell'isolato, è una sorta di manifestazione Hip Hop che si svolge in strada.
I primi Block Party si svilupparono nel Bronx di New York ad opera di djKool Herc che, con il suo stile musicale innovativo, composto da breaks, coinvolse numerosi teenager afroamericani della zona, dando origine alle dinamiche che avrebbero portato alla nascita del movimento hip hop.
Durante i Block Party, numerosi ragazzi svilupparono e praticarono nuove tipologie di ballo, completamente diverse da quelle esistenti, che portarono alla nascita della odierna break dance. Altri teenager invece intrattenevano il pubblico con battute e rime a suon di musica, poi ribattezzati "Master of Ceremonies" o, più comunemente, MC. Durante la prima metà degli anni settanta, i Block Party ebbero una grande diffusione in tutta la zona pervasa dalla cultura dell'hip hop; oggi, al contrario, rappresentano un fenomeno assai raro nel mondo dell'hip hop.


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Turntablism è l'arte di manipolare i suoni e creare musica mediante il giradischi ed il mixer da DJ.

Le origini
Il termine fu creato da DJ Babu dei Beat Junkies nel 1995 e differenzia il dj, che più semplicemente seleziona e mixa brani musicali, dal turntablist che invece è colui che esercita una serie di manipolazioni su vinile, puntine e mixer per produrre suoni. È una disciplina che deriva dalla cultura hip hop: Kool Herc fu il creatore dei cosiddetti break musicali che caratterizzarono il background musicale dell'hip hop anni settanta, mentre dobbiamo a Grand Wizard Theodore l'invenzione della celebre tecnica dello scratch.
Il turntablism si può dividere in due sottodiscipline che sono lo scratch e il beat juggling. Ognuna di queste è composta da svariate tecniche più o meno avanzate che si possono ammirare nei contest nazionali e internazionali come quelle organizzate dalla DMC o dall'ITF.
Nella storia del turntablism si può considerare una "vecchia scuola" e una "nuova scuola" dati i molti progressi nell'ambito tecnologico con l'invenzione di nuovi giradischi con forze di trazione superiori e mixer più avanzati soprattutto per quanto riguarda la scorrevolezza dei fader e gli effetti.
Tra i più noti turntablist possiamo citare: Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash, DJ Grand Mixer DXT Jam Master Jay, DJ Qbert, Mix Master Mike, A-Trak, DJ Craze, D-Styles, Roc Raida, Rob Swift, Kid Koala, DJ Shadow, e le crew Invisible Skratch Piklz X-Ecutioners, Allies, Birdy Nam Nam e C2C. In Italia ricordiamo le storiche crew Alien Army con DJ Gruff, DJ Skizo, DJ Tayone, John Type e la crew Men In Scratch con DJ Myke e DJ Aladyn. Altri capostipiti del turntablism in Italia sono DJ Jad Giorgio Prezioso dj cordella.