Il padre della fantascienza Phillip Dick viene comunemente associato con l'LSD per stile e contenuti. In realtà Dick odiava l'LSD.



Fellini provò l'LSD e il suo racconto dell'esperienza è estremamente famoso. Molto meno famoso è invece il suo giudizio finale sull'LSD, e la ragione per cui se ne stufò subito dopo averlo provato appena un paio di volte, proprio come Dick.

Come Federico Fellini, pure io ho fatto il mio esperimento personale con l'LSD per capire se queste credenze popolari - questi veri e propri luoghi comuni - avessero qualche fondo di verità.

Qui sotto: Phillip Dick odiava l'LSD. Lo prese solo due volte, fece un bad trip da manuale e poi passò il resto della sua vita sconsigliandolo a tutti. "Non si può scrivere sotto acido" dice Dick.

I went straight to Hell’: Philip K. Dick did NOT like LSD

‘The cross took the form of a crossbow, with Christ as the arrow…’ The interview with Philip K. Dick embedded below, recorded in Santa Ana on May 17, 1979, touches on many of the author’s experiences and obsessions—the combat his father saw in World War I, how he came to join the Episcopal Church (“My wife said if I didn’t, she’d bust my nose”), the dying rat who shook his faith, the coming of Pierre Teilhard de Chardin’s Omega Point, contemporary attitudes towards homosexuality, compulsory ROTC at the University of California, the time he got pancreatitis from using “bad street dope” cut with film developer, the constant threat posed by authoritarian movements—but I’ve cued it up to this vivid description of a bad, bad trip he had in 1964: I only know of one time where I really took acid. That was Sandoz acid, a giant horse capsule that I got from the University of California, and a friend and I split it. And I don’t know, there must’ve been a whole milligram of it there. It was a gigantic thing, you know, we bought it for five dollars and took it home...

In questo post vi racconterò prima ciò che disse Fellini dell'LSD dopo averlo sperimentato apposta per fare arte, e poi che ne penso io. Sì, l'ho provato anch'io 'da scrittore', proprio per capire se potesse essere un dopante della scrittura. Scrivo romanzi.

Pronti?

Perché molti autori di fantascienza divenuti poi celebri facevano uso di sostanze allucinogene? L'utilizzo di Lsd potrebbe essere stata la chiave del loro successo?

Prima di tutto, si tratta di una coincidenza Eh già. La fantascienza comincia a prendere piede in letteratura esattamente negli stessi anni in cui l'LSD venne scoperto per la prima volta. Alcuni scrittori famosi provarono addirttura l'LSD quando era ancora legale venderlo (!!).

Detto questo no, l'LSD non può essere stato la chiave del loro successo. Anzi, l'LSD fa esattamente il contrario: ti ostacola. Rovina quello che stai facendo. E' tutta fuffa e mito. Un mito consolidato dal fatto che non solo l'LSD è giustamente illegale (e quindi provarlo non è esattamente semplicissimo, ma anche dal fatto che effettivamente, mentre lo prendi, ti dà MOLTA 'autoconvinzione'. Giusto per capirci: l'LSD ti fa pensare di essere improvvisamente più intelligente… Ma non lo sei. E' solo un'illusione. E probabilmente è proprio per questo che è nato il mito.

Dice Fellini:

"L'LSD fu una delusione. Ne fui entusiasta all'inizio, ma poi smisi perché non aiutava, anzi. Faceva il contrario: ostacolava invece di aiutare"



Intervista che non trovo più… 'ovviamente'. Tutti amano il mito dell'lSD… Nessuno ama la realtà.

E la realtà è semplicissima:

Jim Morrison beveva tantissimo. Se uno beve tanto diventa un grande scrittore?

Elvis Presley era bulimico. Se mangio tantissimo, scriverò musica come lui?



The acid test, dei chemical brothers, è un capolavoro di canzone che incarna perfettamente il falso mito dell'LSD. La adoro perché adoro l'ottima musica… ma è tutto il contrario di non solo di quello che penso, ma di ciò che l'LSD è veramente.

Adesso parliamo del mio esperimento personale.

Nella mia vita ho scritto 12 romanzi, uno ha ricevuto critiche positive ai massimi livelli internazionali e anch'io, da bravo pirla, credevo in questo mito dell'LSD. E quindi pure io, quando ne ho avuto l'occasione, ho fatto il mio esperimento con l'LSD…. E concordo al 100% con Fellini, Dick, King e molti altri.

L'LSD non solo diminuisce momentaneamente le tue capacità, ma ti illude. E' una bellissima illusione, per carità… Ma il 'mito' dell'LSD nasce solo da tale grande illusione. Tu lo prendi e lui ti fa credere di stare scrivendo un capolavoro (mentre ne sei sotto l'effetto). Ma poi rileggi quel 'capolavoro' il giorno dopo, a mente lucida, e non solo ti accorgi che è una fesseria, ma è addirttura una delle cose peggiori che tu abbia mai scritto. In gergo tecnico, hai scritto una meXXda mentre eri assolutamente convinto di stare scrivendo una gran cosa.

Ma attenzione… Perché io, King, Dick e Fellini non siamo certo gli unici a pensarla così. Da qualche parte, qualcuno conosce benissimo questo fenomeno.

Qualche anno fa andava in onda una bellissima serie tv che si chiamava MANHATTAN. Raccontava le peripezie degli scienziati Americani che costruirono la prima bomba atomica della storia, nel 1944.

Una sera, due scienziati del team passano tutta la notte a bere e decidono di 'provare' l'LSD. Qualche ora dopo averlo preso, uno dei due scienziati trova la soluzione al problema su cui la squadra studiava da mesi. Eureka! Costruirà la bomba così e colà, e stavolta funzionerà! Fantastico! Il suo collega gli dà immediatamente ragione, e i due si mettono allora a scrivere i loro dati alla lavagna come due pazzi, poi brindano per l'ultima volta e vanno a dormire felici e contenti.

Il giorno dopo, la soluzione trovata era totalmente insensata, e i calcoli scritti alla lavagna erano tutti sbagliati. Ecco, QUESTO è l'effetto esatto dell'LSD nel mondo reale.

E' tutta autosuggestione e illusione. E vi sorprende? Non è forse un allucinogeno? O no?

E cos'è un'allucinazione, se non una grande illusione?

Poi per carità, è bello vivere quell'illusione. E' divertente e morta lì.

Il problema è che se non sei uno scrittore 'vero' (come me, uno che confronta i suoi scritti con quelli precedenti e lotta con le unghie e col sangue per scrivere BENE) o se non sei Fellini (un regista professionista), magari con quelle idee non ci farai un bel niente, e quindi non avrai MAI modo di 'scontrarti' con la realtà dopo il tuo trip.

Magari ti terrai tutte le tue idee strampalate in testa perché tanto non ci dovrai mai fare niente di concreto, con tali idee. E quindi non avrai mai modo di capire che sono una fesseria.

Ora torniamo un attimo invece all'esperimento iniziale: uno scrittore sotto LSD scrive una schifezza e pensa di avere scritto un capolavoro (esattamente come quei fessi che prendono LSD e credono di avere capito tutto dell'universo o quel che è…).

Lo sapete che scrivere spazzatura pensando che sia un capolavoro è la definizione scientifica di cattivo scrittore?

Lo sapevate che peggio scrivono gli scrittori, più sono convinti di essere bravi?

Lo sapevate che i peggiori scrittori in assoluto sono sempre convinti di essere dei geni?

No, probabilmente non lo sapevate perché non siete del settore… E invece è proprio così.

E se uno è abituato a scrivere discretamente e con umiltà, ma poi prende un cartone di LSD e si mettere a scrivere mxxxda convinto che sia una capolavoro… C'è solo un modo per giudicare la faccenda.

L'LSD ti fa scrivere peggio, non meglio.

E infatti lo dicono signori artisti quali King, Dick, Fellini… E io, dopo averlo provato personalmente, nel mio piccolo concordo in pieno con queste autorevoli voci fuori dal coro.

Purtroppo non esiste un vero e proprio doping per noi artisti.

Ci sono tanti bravi artisti leggendari che si drogavano? Sì, ma ci sono stati perché c'è tanta gente che si droga in generale. E quindi - statisticamente parlando - è inevitabile che almeno un certo numero di scrittori facesse uso di droghe nella sua vita.

E di nuovo, per l'ennesima volta, tornano utili le lezioni di Stephen King.

Il doping degli scrittori?

Secondo King sono caffé e sigarette.



King ha avuto un passato da alcolizzato e drogato. Tuttavia, ragiona esattamente al contrario rispetto ai luoghi comuni. Per esempio, tutti pensano che SHINING sia 'merito' dei problemi di King con l'acool. King invece ha sempre detto pubblicamente l'esatto contrario. Ha sempre detto che secondo lui SHINING gli sarebbe venuto senz'altro meglio se solo avesse bevuto di meno, mentre lo scriveva.

Torniamo adesso al King pensiero su caffeina e sigarette così come espresso dentro ON WRITING.

La caffeina notoriamente ti dà una svegliata.

Allo stesso modo, la nicotina prima ti rilassa, e poi ti sveglia (è vasodilatatore) però ti ammazza pure, mentre la prendi. Quindi FORSE è meglio limitarsi al caffé.

Domanda: chissà cosa pensa King della sigaretta elettronica? Peccato non avere modo di chiederglielo…

In un articolo scopriamo addirittura che Dick e King la pensano allo stesso modo. Qui Dick non solo dice che scrivere sotto LSD è impossibile, ma che le uniche droghe che Dick considerava utili a scrivere sono le metamfetaine, che sono appunto degli eccitanti.

Veniamo adesso a me, e al mio esperimento personale con gli eccitanti dopo il fallimento con l'LSD.

Nel 2014 ho scritto una saga intera 'sfondandomi' di sigarette elettroniche e caffé. Sì, ne trovai giovamento: più concentrazione, meno fatica, più costanza. Scrivere (e scrivere romanzi in particolare) è soprattutto questione di costanza. E' soprattutto questione di battere il ferro finché caldo (una buona idea mentre ne sei ancora 'infatuato'). No, prendere tanta caffeina e nicotina non fa bene alla salute per nulla, infatti poi ho smesso la sigaretta elettronica e mi sono dato una regolata coi caffé. Sono entrambi eccitanti, e quindi nel lungo periodo possono farti diventare iperteso PER SEMPRE anche se non lo eri mai stato prima. Essere ipertesi significa rischiare di morire (infarti o ictus) o finire in carrozzina, dementi, eccetera. Specialmente se non fate sport (io l'ho sempre fatto, e tanto pure) o avete una dieta così così. Quindi occhio alla pressione, mi raccomando. Anche solo bere troppi caffé non fa bene per niente. Semmai, potreste limitare i caffé a SOLO quando scrivete. Provatelo. Quello funziona per davvero. Bevi due caffé al giorno? Ottimo. Prova a berli solo mentre scrivi.

Il caffé in particolare è molto più pericoloso di quanto la gente pensi proprio perché per motivi culturali non viene percepito come una droga. In realtà, tantissimi infarti di gente perfettamente in salute si spiegano con l'uso eccessivo di caffé.

In conclusione… Non esistono scorciatoie. Nessuna droga crea geni e tanto meno crea talento dove non c'è.

Di sicuro invece fanno male..

Fine.


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In musica l'arrangiamento è il lavoro di organizzazione strumentale e strutturale di una data composizione (che può essere costituita da un semplice tema accompagnato da una sequenza di accordi, o da un brano già arrangiato), allo scopo che essa suoni secondo la forma musicale desiderata.
Il processo di arrangiamento parte, generalmente, dalla scelta del genere musicale in cui si vuole arrangiare il pezzo.
Il processo può includere, al suo interno:
  • la riarmonizzazione, qualora la sequenza di accordi di partenza sia non corrispondente allo stile musicale di arrivo;
  • lo sviluppo di una struttura complessa (intro e giri di intro, numero di chorus o strofe o ritornelli, giri di soli, sezioni strumentali, finali, ecc.);
  • la scelta degli strumenti da utilizzare in base al genere del brano.
Se l'adattamento musicale non provvede all'aggiunta o sottrazione di nuovo materiale musicale rispetto alla forma di partenza, sarà più corretto parlare di trascrizione.
Un arrangiamento soddisfacente deve:
  • fare in modo che gli strumenti non si sovrappongano in un determinato intervallo di frequenze troppo stretto;
  • essere abbastanza "trasparente" affinché ogni frase musicale sia sufficientemente intelligibile;
  • fare in modo che non tutti gli strumenti suonino per l'intera estensione del brano;
  • valorizzare al meglio, quando la composizione lo richieda, gli strumenti ritmici, basso, batteria, percussioni, chitarre accompagnamento ecc. Sono il "cuore pulsante" dell'arrangiamento;
  • essere al servizio del solista, sia esso voce o strumento. Una base musicale perfetta per un interprete non è certo lo sia per un altro. Un errore frequente è quello di prendere a modello l'arrangiamento di un brano di successo, interpretato dal cantante X, e sperare possa essere l'ideale anche per un altro artista. Il risultato è quasi sempre deludente.
L'arrangiamento è fondamentale per il buon esito di una produzione musicale e sono quindi determinanti, oltre ad una orchestrazione corretta, creatività ed ispirazione nella sua stesura.
Le Società Autori-Editori Sacem (Francia), Gema (Germania), Ascap e BMI (USA) ed altre, riconoscono agli arrangiatori una quota parte nelle ripartizioni semestrali agli aventi diritto.

Cenni storici

Il termine "arrangiamento" si diffuse nei primi anni venti del XX secolo, ed era usato nella musica leggera e, soprattutto, nel jazz per indicare un libero adattamento, sviluppato da una formazione orchestrale, di una canzone di successo, di un motivo popolare o tradizionale, di un brano classico.
Il primo grande direttore d'orchestra e arrangiatore jazz fu Jelly Roll Morton, che effettuò negli anni venti superbe incisioni per la RCA Victor, dosando con grande abilità i differenti colori orchestrali e le alternanze tra parti soliste e parti fisse. In seguito, queste rivisitazioni musicali vennero sviluppate dalle più estese orchestre jazz di Duke Ellington, Fletcher e Horace Henderson, Don Redman, Benny Carter. Successivamente ed in epoche più recenti furono le grandi orchestre di Glenn Miller, Tommy Dorsey, Xavier Cugat, Perez Prado, James Last, Franc Pourcel, Michel Legrand, Bert Kaempfert, ecc. a cimentarsi in famosi arrangiamenti, anche in forma di pot pourri (successione di motivi uniti fra loro ed eseguiti senza interruzione) o arbitrariamente antologica, di brani celebri, arrangiamenti per altro non sempre molto riusciti e apprezzati.
Fra i tanti vanno ricordati anche i Swingle Singers, superbo gruppo vocale, e Walter Carlos con il primo sintetizzatore inventato da Robert Moog, che con i loro celeberrimi arrangiamenti di Bach e W.A. Mozart hanno operato negli anni sessanta originali contaminazioni fra musica colta e musica di consumo.


Arrangiare e riarrangiare

Un brano musicale già esistente può essere registrato nuovamente con un arrangiamento diverso dall'originale, cambiando - spesso drasticamente - strumenti, tempo, bpm e tonalità. Il risultato finale è una canzone che contiene, rispetto al brano di partenza, uno stesso testo, delle linee melodiche familiari, ma fondamentalmente suona come qualcosa di nuovo (gli esempi eclatanti a tale proposito non si contano. Talvolta è lo stesso artista/band (o il suo arrangiatore) che ripropone il nuovo arrangiamento di un brano, allo scopo di renderlo più adatto ad una dimensione live o per rilanciarlo da un punto di vista artistico o commerciale.
Anche alcuni remix, in particolare nella musica dance, possono essere considerati dei riarrangiamenti.

Specifiche differenze fra arrangiamento, trascrizione e parafrasi

Nella terminologia corrente può accadere a volte che parole come "arrangiamento" e trascrizione si sovrappongano. La trascrizione propriamente detta, differentemente dall'arrangiamento, consiste un po', come la filologia in letteratura, nel riportare antiche melodie strumentali o vocali, scritte con vecchie notazioni (neumi, intavolature), a sistemi più accessibili di standard correnti. O anche – e qui si determina effettivamente una certa somiglianza con l'arrangiamento – nell'adattare o elaborare, per strumenti o voci diverse, una partitura in origine differentemente concepita (altri sinonimi comuni sono per l'appunto l'adattamento, l'elaborazione o la parafrasi lirico-ottocentesca). Di fatto però l'arrangiamento non ha mai avuto una connotazione rigorosamente classica.
Pian piano, per estensione, il significato storico del termine, tipico come si è visto della musica leggera moderna, si andò adattando all'orchestrazione ex novo di tutte quelle canzoni inedite per le quali si poneva l'esigenza precipuamente commerciale di un "confezionamento" adeguato ai mezzi di diffusione di massa. Nasceva così, ed è tuttora tale, la figura del musicista arrangiatore, molto spesso anch'egli un compositore, al quale si richiede, più o meno pilotandone l'ispirazione, di creare un prodotto di successo.

Ruolo dell'arrangiatore

All'arrangiatore non si rivolgono solo produttori discografici, artisti famosi o grossi impresari, ma anche molti appassionati desiderosi di confezionare professionalmente proprie composizioni originali. L'autore del brano a volte suggerisce all'arrangiatore lo stile o il genere gradito, altre volte si affida alla sensibilità ed alla fantasia dell'arrangiatore lasciandogli completa autonomia. Può capitare che l'autore non abbia conoscenze musicali e fornisca all'arrangiatore solo un motivo (melodia) privo di accordi (armonia), magari semplicemente canticchiandolo "a cappella" (con la sola voce senza strumenti). In questo caso sarà compito del musicista arrangiatore trovare un giro armonico adeguato a valorizzare la canzone. La possibilità di apportare eventuali modifiche come arricchimenti armonici, incisi strumentali, cambi di tonalità, adattamenti/variazioni sul testo, va in genere concordata preventivamente.
Esistono molte scuole di pensiero e innumerevoli modi di intendere un arrangiamento.
Più nel dettaglio: gli stili utilizzabili per arrangiare un brano sono teoricamente infiniti, ma in pratica si dovrà sempre tener conto:
  • del tipo di melodia, che nel suo andamento, più o meno marcatamente, si rifarà già di per sé ad un genere più che ad un altro;
  • della metrica del testo (se esiste) che in questa melodia è inserito; e di conseguenza;
  • degli accenti e della sillabazione, quindi del ritmo, che scaturisce dal testo stesso.
A volte questa osservazione analitica da parte dell'arrangiatore è facilitata dalla semplicità strutturale del brano, a volte no; non esiste una regola precisa. Ma con una buona dose di sensibilità e preparazione e parlandone fra le due parti si addiverrà certamente alla migliore soluzione.

Stili musicali richiesti

Gli stili arrangiativi più richiesti e graditi orbitano in un ambito leggero. Principalmente "sanremerie", pop-rock (e numerose sottospecie), musica latina, disco, dance e liscio, ma anche standard jazz, swing, fusion, reggae, rock blues. Sporadicamente possono capitare richieste di arrangiamenti world music, elettronica, new age, etno-folk/popolare, o anche, più raramente, di stili riconducibili alla musica colta (medioevo, rinascimento, barocco, classico, romantico). In quest'ultimo caso è meglio farsi documentare dal committente, se possibile attraverso dischi o partiture complete, con dei chiari esempi stilistici.
Negli ultimi anni, sia negli arrangiamenti che nella scelta dei suoni – causa anche una certa esasperazione tecnologica –, si assiste alla tendenza dell'imitazione reciproca. Basta ascoltare le centinaia di emittenti radiofoniche per avere un'idea di quanto sempre più omogeneizzato sia il prodotto musicale leggero. Chiunque può verificare, ascoltandole, che dietro una pretesa di diversità o novità, le canzoni, in realtà, tendono sempre più a somigliarsi fra di loro riciclando gli stessi ingredienti. Stessa cosa si può dire per gli stili vocali dei cantanti.

L'arrangiamento standard – Strumenti musicali utilizzati

Ecco un facile esempio di orchestrazione arrangiativa. Dopo aver determinato con precisione l'ossatura melodico-armonica della composizione (se ne può buttar giù una bozza provvisoria) e – nel caso di brano cantato – fissata una giusta tonalità, si elabora una partitura (classica o schematica) per l'attribuzione e la suddivisione timbrica delle parti strumentali. Si comincia dalla sezione ritmica, programmando tempo e suoni di batteria e/o eventuali percussioni. Il giro e il tipo di basso scelto, interagendo con quest'ultima, definirà la struttura portante del pezzo. Un tappeto di warm pad (un avvolgente, corposo suono di synth), di archi o di organo costituiranno il supporto armonico su cui far poggiare il brano. L'armonia stessa verrà comunque rinforzata e sostenuta dal piano (o da altro strumento polifonico), ritmicamente affrancato.
Il brano difficilmente parte con il cantato; in genere si preferisce introdurlo con una breve frase musicale, che può essere libera o vincolata al successivo motivo strofa-refrain. Una chitarra acustica arpeggiante (o altro strumento solistico) intesseranno una ricorrente figurazione (o inciso) che si muoverà all'interno della frase musicale cantata con caratteristiche ritmiche o melodiche. I passaggi fra strofe e ritornelli saranno sottolineati da riff o fill di batteria; così come stop, stacchi, controtempi, pause, sincopi, accenti ritmico-armonici potranno caratterizzare l'andamento metrico delle battute. Dalla seconda strofa una chitarra elettrica distorta di arricchimento (o un altro opportuno strumento) si dispiegherà in contrappunto al canto principale, volando poi in un assolo strumentale (lanciato magari da un salto di tonalità). La canzone concluderà con la ripresa dal ponte (o bridge) e ripetizione del refrain a loop sfumato, rifinita con finalino rallentato o con una corona o cadenza strumentale di chiusura, simile all'introduzione.
Un arrangiamento standard come quello appena descritto comporta l'utilizzo di circa 12-14 tracce (di sequencer o di registratore) e due-tre giorni di lavoro pieno. Naturalmente, se viene richiesto di arrangiare il pezzo con una complessità strutturale ad esempio di taglio sinfonico, le difficoltà tecniche e i tempi di realizzazione (e relativi costi) aumentano considerevolmente.
L'arrangiatore, come si diceva, è un compositore a tutti gli effetti. Ma rispetto al normale compositore dev'essere anche un buon organizzatore e valorizzatore della materia musicale che da questi gli viene fornita. Se il secondo è baciato dall'ispirazione il primo deve avere l'intuizione per manipolare e forgiare il plasma sonoro attraverso il discorso musicale. Nessun dubbio, sono entrambi degli artisti, ma queste due doti una volta era normale trovarle nella stessa persona. Molti autori del passato, infatti, non ricorrevano all'arrangiatore – la cui figura proprio non esisteva – e quasi sempre eseguivano, orchestravano e dirigevano essi stessi le loro composizioni; oggi sono ben pochi quelli che lo fanno o che riescono a farlo.



Grandi arrangiatori

Dei leggendari musicisti arrangiatori si è detto all'inizio, possiamo aggiungere qualche altro grande mito come William "Count" Basie, Melvin James "Sy" Oliver, Joseph "Gerry" Mulligan, tutti dell'epoca d'oro (fra le due guerre mondiali) del jazz e dello swing.

In Italia

Ecco alcuni arrangiatori fra i più conosciuti in Italia.
Giampiero Boneschi. Già pianista/arrangiatore con Gorni Kramer, anch'egli arrangiatore e direttore d'orchestra di molte trasmissioni televisive. Ha arrangiato per Fonit Cetra, Polydor, Durium, Ricordi e per artisti come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Ornella Vanoni, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Luigi Tenco.
Michele Canova Iorfida. È tra i giovani che si sono messi più in luce negli ultimi anni. Arrangia per Tiziano Ferro, Eros Ramazzotti, Gianni Morandi, Francesca Michielin, Luca Carboni, Jovanotti, Adriano Celentano.
Lucio Fabbri. Tra i suoi numerosi arrangiamenti ricordiamo Perdere l'amore. Arrangia tutte le basi musicali del programma televisivo XFactor Italia.
Gianni Ferrio. Figura storica della musica italiana, compositore e arrangiatore per artisti come Mina, Jula de Palma, Caterina Valente, Johnny Dorelli e molti altri.
Angel 'Pocho' Gatti. Jazzista argentino che visse in Italia negli anni sessanta e settanta, arrangiando e dirigendo per varie trasmissioni Rai e Festival di Sanremo e per Gigliola Cinquetti, Fred Bongusto, Mia Martini, Bruno Lauzi, Ornella Vanoni, Johnny Dorelli e vari altri interpreti. Incise alcuni interessanti LP di production-music con la sua big band, con arrangiamenti oscillanti dal jazz classico alle nuove tendenze funky ed elettroniche dell'epoca.
Augusto Martelli. Uno dei più qualificati arrangiatori degli anni sessanta, collaboratore di Mina e autore/arrangiatore delle musiche del film Il dio serpente, tra cui il brano Djamballà.
Tony Mimms. Arrangiò dischi di artisti come Fabrizio De André (Volume VIII, Rimini), gli Alunni del Sole, Ivan Graziani, Mina (Ancora dolcemente, dall'album Singolare).
Giusto Pio. Ha arrangiato per Franco Battiato, Giorgio Gaber, Alice, Giuni Russo, Milva, Leonard Cohen e nei propri album come Legione straniera o Restoration.
Pino Presti. Realizzatore nel 1976 del primo album dance-funk italiano, 1st Round, è l'arrangiatore che più di ogni altro ha collaborato con Mina per gran parte degli anni settanta. Ha firmato tra gli altri successi come Grande, grande, grande, E poi..., L'importante è finire. Al fianco di Mina come bassista, arrangiatore, direttore d'orchestra in occasione dei suoi ultimi concerti a Bussoladomani nel 1978.
Gian Piero Reverberi. Molti famosi brani anni settanta recano la sua firma. Ha collaborato con New Trolls e Lucio Battisti. Ha curato gli arrangiamenti di La buona novella di Fabrizio De André. Ha fondato il gruppo Rondò Veneziano.
Bruno Santori. Capace arrangiatore, orchestratore e direttore d'orchestra del panorama italiano. Ha collaborato con alcuni tra i più importanti artisti pop italiani ed internazionali (tra cui: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Tiziano Ferro, Zucchero, Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Raf) per la realizzazione di alcuni tra gli eventi live più importanti degli ultimi anni come "Radio Italia Live: il concerto" tenutosi nel 2012 e 2013 in Piazza Duomo a Milano. È stato direttore musicale del Festival di Sanremo nel 2009.
Celso Valli. Con la disco-dance made in Italy è stato molto apprezzato all'estero negli anni settanta-ottanta. Lavora per i più affermati big nostrani: Mina, Patty Pravo, Claudio Baglioni, Laura Pausini, Giorgia, Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, Adriano Celentano, Andrea Bocelli, Raf.
Fio Zanotti. Un altro pezzo da novanta della musica leggera italiana. Arrangia praticamente per tutti: dai Pooh a Fiorella Mannoia, da Zucchero a Eros Ramazzotti, da Anna Oxa ad Adriano Celentano, da Renato Zero a Francesco De Gregori, da Marcella Bella a Vasco Rossi, ecc.

All'estero

Per chiudere questa mini rassegna vanno ricordati ancora Luis Bacalov, negli anni sessanta l'arrangiatore per antonomasia della RCA, tuttora ottimo compositore, e all'estero, in anni più recenti, Quincy Jones, Sergio Mendes e Claus Ogerman.

Altri arrangiatori

Ci sono anche altri arrangiatori, ma che hanno contribuito ai brani dello Zecchino d'Oro: Sergio Parisini, Gianni Zilioli, Siro Merlo, Fabio Coppini, Sandro Comini, Marco Bertoni, Luca Scarpa, Michele Monestiroli, Massimo Varini, Alessandro Magri, Raniero Gaspari, Marco Guarnerio, Mario Natale, Luca Orioli, Alex Volpi, Chicco Santulli, Massimo Tagliata, Mario Zannini Quirini.

Organizzazione e tecnica dell'arrangiamento

Da diversi anni ormai è molto diffuso l'arrangiamento effettuato con il computer (o con tastiere workstation dotate di sequencers). Utilizzando software adeguati, collegati a expander (moduli di suoni campionati) e tastiere MIDI (o più correttamente M.I.D.I.: Musical Instrument Digital Interface) si è in grado, sempre con la necessaria preparazione, di allestire ottimi arrangiamenti, assemblando ed editando con relativa facilità parti sonore ed elementi strumentali di vario genere e provenienza. Tutto questo con costi e tempi piuttosto contenuti. Notevole anche la dinamica ottenibile. Naturalmente ogni vantaggio ha il suo rovescio. Per quanto si siano fatti progressi, l'umanizzazione delle apparecchiature (human feeling, pseudo-swingin', clonazioni di caratteristiche peculiari dei vari strumenti, algoritmi sempre più sofisticati, microvariazioni indotte, ecc.) segna il passo ormai da qualche anno: una macchina non potrà mai suonare come un essere umano. Con poche eccezioni come la disco-dance e certe canzonette leggere, la musica pop di un certo livello, ancor di più se classica, jazz ed etnica, viene infatti penalizzata in misura variabile, dal massiccio uso (e abuso) del computer.
All'opposto del tutto-MIDI, l'arrangiamento classico si realizza con turnisti di sala e strumenti veri (e non suoni campionati) come pianoforte, chitarre, archi, fiati, batteria, percussioni, o anche utilizzando direttamente vere e proprie orchestre. Naturalmente questi arrangiamenti vanno rapportati a progetti tali che possano giustificarne costi conseguentemente piuttosto elevati.
Tra i due modi di arrangiare è possibile comunque una via di mezzo. E cioè il ricorso a strumenti in parte reali in parte sintetici o campionati, in un mixing strumentale non necessariamente regolato da programmi specifici ma registrato più o meno convenzionalmente.
Ipotizziamo un arrangiamento realizzato da un musicista arrangiatore polistrumentista, magari anche versatile cantante (in grado quindi, se richiesto, di imbastire l'arrangiamento del brano anche vocalmente con cori, armonizzazioni vocali e controcanti). Nella sua orchestrazione le chitarre elettriche, distorte o pulite, acustiche o classiche che siano, sono sempre vere e suonate realmente, come reali sono molti altri strumenti utilizzati: congas, cajón, maracas, tamburello, campanelli, maranzano, mandolino, flauti, armoniche a bocca e così via. Riff, fill e break di batteria (accenti e sottolineature ritmiche dei vari passaggi, per esempio fra strofe e ritornelli), sia pur campionati, sono però inseriti e realizzati manualmente. Le stesse batterie elettroniche, campionate o sintetiche, quando non programmate, sono suonate e modificate a mano o integrate ad esempio con i piatti della batteria acustica. Contrappunti e armonizzazioni vocali sono rigorosamente veri e realizzati per intero in logica successione temporale; ad esempio, quando in una canzone viene ripetuta dal coro per molte volte un'identica frase (come accade in genere nella dance), non si ricorre al copia-incolla riutilizzando a loop sempre la stessa porzione registrata una sola volta (per risparmiare tempo), ma si ripete la frase tante volte quanto necessita, come d'altronde accade nelle esibizioni dal vivo. Naturalmente tutto ciò utilizzando se necessario anche suoni campionati o sintetici da expander o tastiere, in special modo se si tratta di "tappeti" (piani armonici su cui poggiano le costruzioni melodiche del brano).
Le registrazioni potranno essere effettuate affidandosi totalmente al computer o previo utilizzo di multitraccia digitali o di analogici a nastro, ricorrendo comunque sempre al computer per l'ottimizzazione finale e la masterizzazione.

I costi dell'arrangiamento

Come si diceva all'inizio, nell'omologazione tipica della musica di consumo, quando un arrangiamento porta al grande successo una canzone, può accadere che venga emulato da altri. È così che si creano filoni pseudostilistici che vanificano la vera originalità e viziano l'ascolto del pubblico desensibilizzandolo nei confronti di ciò che non è allineato. Copiare un arrangiamento – ancorché con melodia, accordi e tempo diversi – per un musicista esperto e smaliziato è un gioco da ragazzi: ma se è così facile scopiazzare allora perché non si istituisce un copyright anche per gli arrangiamenti? Una certa, differenziata protezione giuridica dell'arrangiamento musicale esiste solo in alcune nazioni; in Italia non è ancora prevista specifica tutela da parte della legge sul diritto d'autore e delle opere dell'ingegno. Se nell'elaborazione del brano l'arrangiatore inserisce riff strumentali importanti, modificazioni strutturali quali tempo e velocità e in genere se l'intervento dell'arrangiatore determina una significativa mutazione nelle caratteristiche della canzone, è giusto che se ne tenga conto: o con uno specifico deposito del brano arrangiato, o con la firma della paternità del pezzo insieme all'autore. Ma un arrangiamento in fondo è una semplice commissione, e, in quanto tale, può anche venir remunerato con un acconto iniziale e un saldo a fine lavoro (entrambi a monte della pubblicazione del brano). In questo caso quanto viene a costare?
Considerata l'estrema differenza riscontrabile in questo campo fra richiesta e offerta, non è possibile determinare tariffe precise. Come riferimento orientativo e restando in un ambito di offerta professionale (ma non di domanda), possiamo dire che gli arrangiamenti MIDI realizzati esclusivamente con computer ed expander offrono in assoluto i prezzi più bassi, pur suonando un po' freddini (sono sviluppati e gestiti all'interno di una macchina) e risultando timbricamente simili: fra i 200 e i 500 euro. Possono rappresentare il tipo di arrangiamento adatto all'appassionato dilettante che dispone di un budget limitato.
L'arrangiamento in tecnica mista (la via di mezzo di cui sopra) è forse quello che offre il miglior rapporto qualità/prezzo. L'arricchimento con alcuni strumenti veri come chitarre e percussioni fa sembrare autentici anche gli altri strumenti campionati dando quella piacevole sensazione di realistico a tutto il brano. È ovvio però che se si decide di evitare i sequencers (da tastiera o da computer) va inevitabilmente effettuata una vera e propria registrazione con il sistema tradizionale (oltre ai multitraccia digitali si va riaffermando la registrazione in analogico), per cui i tempi di realizzazione aumentano. E conseguentemente anche il costo: da un minimo di 400 fino a 1000 euro, specie se il pur poliedrico arrangiatore deve ricorrere ad un collaboratore, per esempio una cantante o un sassofonista.
Vediamo, infine, la spesa necessaria per realizzare un arrangiamento ultraprofessionale. In questi casi spesso l'autore del brano ricorre preventivamente ad una bozza di orchestrazione realizzata al computer da sottoporre al produttore. Questo prearrangiamento resta aperto allo stato di prototipo per possibili modifiche. Una volta stabilito il tipo di arrangiamento definitivo, si affida il lavoro a un unico maestro arrangiatore che, dopo aver pianificato stesura, armonizzazione, partiture, orchestrazione, richiede al produttore l'ingaggio di un cast di turnisti (il turnista è un professionista che viene retribuito per turni o sedute di registrazione di tre ore), o di eventuali orchestre. È ovvio che i costi complessivi varieranno in base a quanti e quali strumentisti s'intendano contattare, o in quanti e quali studi si vogliano realizzare le registrazioni e i missaggi. Possiamo azzardare un budget minimo di 2.000-2.500 euro, che nel caso di un arrangiatore di grido, di importanti turnisti, di grandi orchestre o dell'utilizzo di più studi (ad alti livelli è normale registrare da una parte e mixare da un'altra, spostandosi anche da un continente all'altro) può impennare vertiginosamente fino a 20.000-30.000 euro e più. Stiamo però parlando dell'arrangiamento di un solo brano: legittimo chiedersi quanto deve incassare un album fatto di 10-12 canzoni così arrangiate. Quando si tratta di grandi star/produzioni (solo loro possono permettersi di spendere tanti soldi) si ragiona in termini di milioni di dollari, o di euro. Oltretutto, a questi livelli, è prassi consueta che i brani di un album siano affidati ad arrangiatori diversi, ognuno dei quali dispone di équipe di propri turnisti e fonici fiduciari. Con costi che salgono alle stelle.
I ricavi delle vendite del prodotto finito al netto delle spese (studio, arrangiamenti, turnisti, promozione, distribuzione, ecc.) andranno ripartiti essenzialmente fra casa discografica, produttore, distributore e artisti in percentuali variabili e con margini di guadagno che dovrebbero essere adeguati al budget investito. Adeguati però secondo discutibili parametri da qualche anno ritenuti sempre più anacronistici, prova ne è che le stesse major del disco – sullo sfondo di un ineludibile ridimensionamento economico mondiale – vanno adeguandosi (con qualche affanno) all'incessante trasformazione tecnologica subentrata negli audiovisivi, studiando e sperimentando sempre nuove formule commerciali per cercare di contrastare il calo delle vendite di dischi e il fenomeno della crescita tumultuosa del download online internazionale ormai inarrestabile.

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Un artista di strada (in inglese, busker) è un artista che si esibisce in luoghi pubblici (piazze, zone pedonali, strade) gratuitamente o richiedendo un'offerta. Le esibizioni sono molto varie e l'unica costante è quello di offrire al pubblico uno spettacolo d'intrattenimento. A titolo esemplificativo, si possono individuare spettacoli di giocoleria, musicali, clown, mimo (con le statue viventi), arte circense, cantastorie, mangia-fuochi, trampolieri.
Oggigiorno, con l'industria dell'intrattenimento che indirizza verso forme più istituzionalizzate di svago, prodotte con grandi mezzi e tecnologie anche molto sofisticate, gli artisti di strada sono molto più rari di un tempo, quando non vi erano radio o televisione e gli spettacoli di strada costituivano un'attrattiva immancabile in ogni festività.

La normativa

La prima legge che regolasse gli artisti di strada la troviamo nell'antica Roma nel 462 a.C. Le leggi delle dodici tavole prevedevano, come forma di reato, eseguire (pubblicamente) delle parodie o canti diffamatori nei confronti di qualcuno. La sanzione era la morte.
Negli Stati Uniti e nell'Unione europea la tutela garantita alla libertà di parola è estesa alle forme artistiche proposte da tali artisti. Negli Stati Uniti i luoghi tipici per manifestazioni di tal genere sono i parchi, le piazze, i marciapiedi.
Nel Regno Unito alcune città regolano, attraverso una specifica normativa, l'attività degli artisti di strada. In alcuni casi vi è l'obbligo di prendere una licenza, dietro un'audizione. In altri casi è sufficiente la richiesta di un permesso unicamente nel caso di amplificatori o vi è il divieto di superare determinati limiti di volume. È generalmente riconosciuto il divieto di protrarre tali manifestazioni artistiche oltre una certa ora. Vi è un divieto di eseguire spettacoli che possano offendere la morale pubblica e che, in alcuni casi, possono comportare la consumazione di illeciti anche di natura penale.
Per quanto riguarda l'Italia, l'abrogazione nel 2001 dell'articolo 121 del TULPS, che disciplinava l'esercizio di tale attività attraverso l'iscrizione degli artisti di strada in appositi albi presso il loro comune di residenza, ha di fatto creato un vuoto legislativo. Ora ogni amministrazione comunale riempie come meglio crede tale vuoto legislativo: si va dall'assoluto divieto all'adozione di specifica delibera. Il panorama giuridico, pertanto, è variegato e frammentato.
In Italia, la prima delibera in una grande città venne approvata a Roma nel 2000, su impulso del consigliere Pino Galeota e degli artisti di strada riuniti nel Co.R.A.S. (Coordinamento Romano Artisti di Strada); nel corso della presentazione della delibera è intervenuto a prendere la parola anche Dario Fo, al tempo da poco insignito del premio Nobel. Nello stesso anno, il regista Wladimir Tcherkoff realizzò per la Televisione della Svizzera Italiana un film documentario sulla situazione dell'arte di strada romana dopo la delibera, dal titolo La strada come palcoscenico. Nel decennio successivo, a cusa della massiccia immigrazione, il quadro sociale degli artisti di strada a Roma mutò profondamente rendendo necessario un aggiornamento del regolamento; è stata quindi realizzata una nuova delibera nel 2012 per mano dell'Assessore alla Cultura Dino Gasperini, ma questa è stata contestata dal movimento "Strada Libera Tutti" formato dagli artisti di strada romani, che ha fatto ricorso al TAR ottenendo l'abrogazione dei due articoli in cui, indipendentemente dall'uso che ne veniva fatto, si vietava l'uso di amplificazioni di qualsiasi tipo e di strumenti a fiato e a percussioni di qualsiasi genere.
Milano, nel 2012, a prima firma Luca Gibillini (Sel) ha approvato il più avanzato regolamento ad ora esistente in Italia, attraverso il sistema delle turnazioni, una mappatura di oltre 250 luoghi dove esibirsi e soprattutto l'introduzione della prima piattaforma online dove è possibile registrarsi, iscriversi e monitorare tutte le esibizioni in tempo reale. Attraverso il regolamento e la piattaforma Milano è stata proclamata da una ricerca internazionale la terza miglior città al mondo per arte di strada. Questo sistema è stato però contestato, in quanto secondo alcuni il software che gestisce la prenotazione delle postazioni di spettacolo ha un funzionamento che penalizza fortemente la qualità della proposta artistica, incoraggiando l'esibizione di figure non professionali.
A livello regionale solo il Piemonte e la Puglia hanno redatto un'apposita legge regionale per promuovere e valorizzare l'arte di strada.

Esibizioni di celebrità come artisti di strada

Si conoscono casi di artisti affermati che in varie occasioni hanno deciso di improvvisarsi artisti di strada, talvolta camuffandosi per non farsi riconoscere.
  • Lucio Dalla partecipò al Ferrara Buskers Festival nel 1989, duettando con Jimmy Villotti.
  • Sting si camuffò da busker e guadagnò 40 sterline in offerte. Si mise un cappello che gli nascondeva buona parte del viso. Fu riconosciuto da una signora che si fermò ad ascoltarlo, ma un'altra spettatrice le contestò il fatto che Sting era un multimiliardario e non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
  • Il violinista Joshua Bell suonò nella metropolitana di Washington, in incognito, nel gennaio del 2007. Guadagnò 32 dollari, di cui 20 donati da una coppia di passanti che lo riconobbe. Tale esibizione venne eseguita con un violino Stradivari.
  • Jon Bon Jovi si esibì come busker al Covent Garden di Londra.
  • Nel 1993 Biagio Antonacci si esibì in incognito nella stazione centrale di Milano. È stato sul punto di essere cacciato dai Carabinieri, poi convinti a desistere da un funzionario della metropolitana a conoscenza della vera identità dell'artista. In tale occasione, il cantautore guadagnò l'equivalente di circa dieci euro in mezz'ora, che donò alla fine a un ragazzo di colore che vendeva mimose vicino a lui. Intervistato su questa esperienza, Antonacci criticò il fatto che a Milano, al contrario di Londra, sia ancora proibito suonare per strada.
  • Bruce Springsteen il 23 luglio del 1988 si è esibito per le strade di Copenaghen improvvisando un concerto e suonando I'm on fire, The river e Dancing in the dark. Lo stesso artista, nel settembre del 2011, si è recato a Boston per vedere il figlio e, in attesa dell'appuntamento, ha suonato in una strada usando una chitarra acustica.
  • Il 6 maggio 2015, gli U2 hanno eseguito una loro canzone, camuffati da artisti di strada, alla Grand Central station di New York, per un programma televisivo statunitense.

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Con il termine Ménéstrandise (in francese, "menestrelleria") si intende una corporazione francese di musicisti, giullari e menestrelli, fondata a Parigi il 14 settembre 1321, confermata da statuti nel 1407 e 1659 ed esistita fino al 1776.

Storia

La Ménéstrandise, o corporazione dei menestrelli, venne creata nel 1321 allo scopo di contrastare i musicisti vagabondi, la cui attività era considerata degradante. L'organizzazione raggiunse il suo apogeo nel XVI secolo.
Il musicologo François Lesure evidenziò alcuni tratti importanti della corporazione:
  • La Ménéstrandise era strutturata con una ferrea gerarchia: un'assemblea ristretta di maestri, tre governatori e il direttore generale, che aveva il titolo di roi des ménétriers (re dei menestrelli) o roi des violons (re dei violini) ed era nominato personalmente dal re di Francia.
  • La Ménéstrandise possedeva diversi immobili a Parigi in rue des Petits-Champs, rue Saint Martin, rue des Croissants e aveva anche la propria chiesa, chiamata Saint-Julien-des-Ménétriers, distrutta durante la rivoluzione francese.
  • Istruiva e formava i musicisti secondo un percorso di studi di quattro anni, riconoscendoli ufficialmente dopo un esame sostenuto alla presenza del re o di un suo luogotenente.
Tutte queste caratteristiche dimostrano che la Ménéstrandise mirava a istituzionalizzare la professione del musicista dando loro uno status sociale borghese e fornendo loro rispettabilità, segnando così un confine fra i vecchi menestrelli medioevali e i suoi membri. È dunque normale che la ghironda, il classico strumento del musicista mendicante, non fosse inclusa nell'elenco degli strumenti musicali redatto dalla Ménéstrandise.
Philippe Beaussant, però, sostiene che nella Ménéstrandise ci fossero anche suonatori di ghironda. La contraddizione sembra essere spiegata dal fatto che, inizialmente, la Ménéstrandise respingeva i suonatori di ghironda, ma, nel momento in cui la sua autorità iniziò a declinare, vennero ammessi anche mendicanti e saltimbanchi, purché paganti.
La menestrelleria fiorì nel XVI secolo, sia con gli strumenti detti "alti" (come il violino, ad esempio) che con quelli detti "bassi" (la ghironda) ed era praticata da gruppi di musicisti professionisti o semi-professionisti. In pieno XVII secolo la corporazione, allontanatasi di molto dall'ideale originario di preservare l'arte giullaresca antica, cercava ancora di imporsi sui musicisti per far pagare loro tasse e quote associative. Quando venne formalmente riconosciuta dal re Luigi XIV, nel 1659, la corporazione cercò di estendere su tutti i musicisti la propria autorità, compresi organisti, clavicembalisti e strumentisti della corte reale. Solo chi pagava la quota d'iscrizione alla Ménéstrandise poteva suonare in pubblico. Secondo il regolamento della corporazione, infatti:
«Nessuna persona del Regno di Francia o straniera può insegnare musica, danzare, riunirsi di giorno o di notte per dare serenate o suonare strumenti in matrimoni o assemblee pubbliche, né altrove, o in generale non può fare nulla che concerne l'esercizio della musica se non è riconosciuto maestro o è approvato dal re e dai suoi luogotenenti, pena un'ammenda per la prima volta, con sequestro e vendita degli strumenti, e punizioni corporali per la seconda volta.»
La Ménéstrandise venne abolita nel febbraio 1776 a seguito della pubblicazione di un editto che sanciva la libertà delle arti e la soppressione delle vecchie corporazioni.

Re dei menestrelli

Come accennato precedentemente, la Ménéstrandise era presieduta da un direttore, il quale prendeva il nome di roi des ménétriers o roi des violons.
Il più antico documento dove è possibile trovare un riferimento a tale ufficio è uno Stato degli ufficiali di Filippo il Bello, in cui figura, nel 1288, un non meglio identificato roi de joueurs de flûte (re dei suonatori di flauto). Sempre sotto il regno di Filippo il Bello un giocoliere di nome Jehan Charmillon, nato verso la metà del XIII secolo, nel 1295 venne nominato Roi des ménestrels de la ville de Troyes. Durante il regno di Luigi X un certo Robert ricevette il titolo di Roi des Ménestrels con un'ordinanza del 1315, quando ancora la corporazione non esisteva ufficialmente. Dopo la fondazione della Ménéstrandise, nel 1321, venne nominato direttore Robert Caveron, nel 1338, con il titolo di Roy des ménestrels du Royaume de France. A Caveron seguì Coppin de Brequin, menzionato con diversi titoli nel 1357, 1362 e 1367.
Due atti risalenti alla fine del XIV secolo indicano il titolo di Roy des Ménestriers du Royaume de France in capo a Jehan Pontevin. Jehan Boisard, detto Verdelet, succedette a Pontevin con il titolo di Roi des Ménétriers. Egli è citato in un documento del 19 febbraio 1420 per aver ricevuto un premio dal futuro Carlo VII. Boisard non restò a lungo a capo della corporazione, in quanto, pochi anni dopo, troviamo Jehan Fascien (o Facion) nominato Roy des Ménestrels. Dopo Facien, l'elenco dei direttori della corporazione si interrompe per un secolo fino a François Roussel, superiore della corporazione nel 1572, al quale succedette Claude de Bouchandon, oboista di Enrico III. A Bouchardon venne accordato, il 13 ottobre 1575, il titolo di Roy et maistre des ménestriers et de tous les joueurs d'instrumens du royaume.
Durante il regno di Enrico IV, nel 1590, Claude Nyon, violinista della camera del re, ricevette la nomina a Roy des Ménestriers, che cederà dieci anni più tardi a suo figlio Guillame Claude Nyon, detto Lafont, anch'egli violinista della camera del re. In un documento dell'8 febbraio 1600 è menzionato come Roy des joueurs d'instrumens par tout le royaume. Non si sa nulla dei suoi figli, ma certamente non gli succedettero nella carica di direttore della Ménestrandise in quanto, il 7 marzo 1620, viene menzionato con il titolo di Roy des joueurs d'instrumens François Rishomme, violinista reale. Quattro anni dopo, il 12 dicembre 1624, Luigi XIII nominò Louis Costantin, violinista di corte, come Roy et maître des ménétriers et de tous les joueurs d'instrumens, tant haut que bas du royaume. Costantin, autore di numerosi brani a cinque e sei voci per violini, viole e basso continuo, fu uno dei musicisti più famosi ai suoi tempi. Suo figlio Jean Costantin, nel 1657, figurò come uno dei ventiquattro violinisti della camera del re.
A Costantin succedette, nel 1641, Claude Dumanoir. Quest'ultimo, il 21 novembre 1657, cedette l'incarico al proprio nipote, Guillame Dumanoir, uno dei ventiquattro violinisti della camera del re, che ricevette da Luigi XIV il titolo di Roi des violons, maître à danser et joueurs d'instrumens tant haut qua bas. Quando Guillame Dumanoir si dimise, il 15 agosto 1668, il titolo passò a suo figlio omonimo, Guillame II Dumanoir. Dopo le dimissioni di quest'ultimo, nel 1695, Luigi XIV non nominò un suo successore, lasciando il titolo vacante. In seguito, nel 1741, Luigi XV nominò Jean Pierre Guignon a capo della corporazione.
Dimettendosi, nel 1773, Guignon chiese la soppressione della Ménéstrandise, ormai considerata anacronistica. Luigi XV, con un editto del marzo 1773, accettò le dimissioni di Guignon e soppresse l'ufficio di re dei menestrelli. La corporazione venne poi abolita nel febbraio 1776.



Controversie


L'alta considerazione di cui godevano i musicisti della cappella reale, i quali non facevano parte della Ménéstrandise, l'istituzione della Reale Accademia della Danza (1661), dell'Accademia francese d'opera in versi e in musica (1669) e della Regia Accademia Musicale (1672) causarono il declino della Ménéstrandise e il conflitto fra i suoi membri e gli altri musicisti.
Nel 1693 un gruppo di compositori, fra i quali François Couperin, presentarono a Luigi XIV una protesta contro la corporazione, accusandola di essere troppo restrittiva nei riguardi della libertà dei musicisti. Una protesta simile venne presentata anche nel 1707, e, in entrambi i casi, lo strapotere della corporazione venne ridimensionato. Couperin, per l'occasione, scrisse una suite per clavicembalo intitolata Les Fastes de la grande et ancienne Mxnxstrxndxsx (il titolo, in caratteri enigmatici, era per evitare di essere citato in giudizio dalla corporazione), appositamente composta come satira per mettere alla berlina i membri della corporazione stessa. Secondo i musicisti colti, infatti, i membri della Ménéstrandise non erano altro che giocolieri, ghirondai e buffoni con scimmie ammaestrate, ignoranti di musica, che pretendevano il pagamento di tributi assurdi.
Nella Raccolta di editti, decreti del consiglio del Re, lettere patenti, memorie e decisioni del Parlamento per i musicisti del regno, pubblicato da Christophe Pierre Robert Ballard nel 1774 a cura del Corpo della Musica di Sua Maestà, si trova una cronaca del conflitto fra corporazione e musicisti di altri enti:
«I ripetuti tentativi della Ménéstrandise di forzare musicisti a entrare nella comunità e a pagare le relative tasse di iscrizione, gli innumerevoli processi che ha generato, sia nella capitale che nello stato e la poca osservanza dimostrata nell'assicurare la libertà musicale sono i motivi che hanno portato alla stampa del presente codice.»
Effettivamente, la libertà musicale fu alla base di diversi problemi. La prima denuncia fu quella fatta da Guillaume Dumanoir, direttore generale della Ménéstrandise, che, nell'aprile 1662, si oppose alla creazione dell'Accademia della Danza. Le sue petizioni suscitarono una risposta dettagliata degli accademici parigini, con un discorso per dimostrare che la danza, nella sua parte più nobile, non aveva bisogno di strumenti musicali. Guillaume Dumanoir perse il processo il 30 agosto 1662, ma si vendicò scrivendo il libello Le mariage de la musique avec la dance, contenant la réponce au livre des treize prétendus Académistes, touchant ces deux arts, pubblicato nel 1664.
Quando, dieci anni dopo, venne istituita la Regia Accademia Musicale e si esentarono i maestri di danza dell'accademia dal presentare le loro credenziali alla Ménéstrandise, Guillame II Dumanoir, figlio omonimo di Guillaume Dumanoir e nuovo direttore della Ménéstrandise, tentò di obbligare i docenti a presentare le loro credenziali e a pagare le tasse di iscrizione alla corporazione per quanto riguardava le loro attività al di fuori della Regia Accademia Musicale, come balli, matrimoni e concerti. Un decreto del consiglio reale, però, diede torto a Dumanoir. La Ménéstrandise, dunque, non aveva più il monopolio sulle attività dei musicisti. Forti di questo decreto, il 28 aprile 1682 i maestri di danza ottennero il monopolio sull'insegnamento della danza, potendola insegnare senza essere iscritti alla corporazione. Dumanoir, il quale non poteva sopportare che questi maestri lasciassero la Ménéstrandise, denunciò l'Accademia Reale della Danza e ottenne, il 2 novembre 1691, dopo dieci anni di contenzioso, che i membri della Ménéstrandise potessero, in concorrenza con i membri dell'Accademia, riconoscere titoli di maestro e dare lezioni di danza.
Nella Dichiarazione del Re sulle regole per le funzioni dei giurati ufficiali per la comunità dei maestri di danza, dei suonatori di strumenti, sia alti che bassi, e degli oboisti della città e dei sobborghi di Parigi, al fine di porre fine alle lamentele, si stabilì che nessuno potesse danzare o tenere spettacoli senza essere in possesso del titolo riconosciuto di maestro, a eccezione dei tredici membri della Reale Accademia della Danza, i quali avrebbero potuto continuare a esercitare la loro arte in completa libertà. Dopo questa decisione, Dumanoir, accusato di continui litigi, si dimise e venne sostituito da quattro giurati.
Questi giurati fecero una nuova denuncia, questa volta contro gli insegnanti di clavicembalo, i compositori e gli organisti della cappella reale che rifiutavano di iscriversi alla Ménéstrandise. Il 10 luglio 1693 gli insegnanti di clavicembalo, guidati da Nicolas Lebègue, Guillaume Gabriel Nivers, Jean Buterne e François Couperin, risposero duramente. La lite continuò per altri due anni. Nel maggio del 1695 una decisione definitiva della corte si espresse in favore dei compositori, degli organisti e degli insegnanti di clavicembalo contro i giurati della Ménéstrandise.






Risponderò a questa domanda nell'unico modo possibile, e cioè mostrandovi la mappa turistica della città di Milano. Fico, eh?



Qui vediamo la città vista dall'alto con tutte le sue attrazioni turistiche principali in bella vista, in modo che il turista possa individuarle facilmente e capire come raggiungerle.

Ecco un'altra mappa di Milano, questa volta però si tratta della metropolitana:



Si tratta sempre di Milano vista dall'alto, ma questa volta è come se vedessimo in trasparenza le sue viscere: le lineette colorate sono diverse linee della metro, con le rispettive fermate e le varie coincidenze con stazioni del treno e dell'autobus.



Questa è sempre Milano, ma è la mappa "della Resistenza": qui trovi "l'elenco delle lapidi individuali e collettive e delle Pietre d'inciampo del centro storico, e con la sintesi delle drammatiche storie dei caduti".



Questa è la mappa di Milano, ma dei contagi Covid di maggio 2020.

Quattro mappe della stessa città, quattro storie diverse. Ogni mappa è una selezione di informazioni: qualcosa viene incluso e qualcosa viene escluso. Nella mappa turistica vengono indicati i luoghi di interesse della città, in modo che il turista sappia quali sono, dove sono e come raggiungerli; anche la mappa contagi ne conta qualcuno, per dare a chi non conosce la città un punto di riferimento per leggere la dimensione della mappa. Nessuno dei due però include la posizione dei ristoranti migliori di Milano, anche se, insomma, a qualche utente della mappa turistica avrebbero potuto anche interessare. E così la mappa della metro non ci dice dove sono le farmacie o dove si trova il Municipio, anche se magari qualcuno sta prendendo la metro proprio per andare lì. E la mappa della Resistenza non ci mostra i luoghi descritti dal Manzoni nel capitolo della peste o quelli delle Cinque Giornate di Milano, anche se a un appassionato di storia avrebbe pure fatto piacere visitarli.

Se volessimo creare una mappa che contiene tutte le informazioni possibili (vie, ristoranti, punti di interesse, tabaccai, fognature, lampioni, parcheggi, piste ciclabili, parchi, ospedali, sottopassaggi, supermercati che offrono tessere di raccolta punti…) ci troveremmo come nel paradosso del racconto di Borges: "una Mappa dell'Impero che aveva l’Immensità dell'Impero e coincideva perfettamente con esso". Una mappa impossibile da consultare, "inutile", come la definirono le generazioni successive nel racconto di Borges, inservibile, da buttare.

In un romanzo, vale lo stesso principio: per quanto ci sforziamo di registrare ogni singolo dettaglio, ogni romanzo avrà le sue "assenze". Non è possibile descrivere tutto, bisognerà sempre scegliere cosa descrivere e perciò scegliere che cosa escludere dalla pagina. La domanda "Che cosa devo includere?" può essere risposta solo sapendo cosa, precisamente, si intende creare. Un romanzo non ha uno scopo utilitaristico come una mappa delle linee della metropolitana o dei percorsi delle piste ciclabili di Milano, ma, come una mappa, il romanzo è definito dal suo scopo.

È "molto importante", quindi, descrivere minuziosamente un ambiente, in un romanzo?

Io credo che sia necessario descriverlo bene. Per descriverlo bene, devi renderlo reale. Per renderlo reale, non è importante la quantità, dei dettagli, ma la qualità. Cosa sta per succedere, in questo ambiente? Che atmosfera deve percepire il lettore? Chi sta raccontando/vivendo questo ambiente? Se, ad esempio, il tuo protagonista sta venendo inseguito da un assassino assetato di sangue, ha senso che si fermi a contemplare l'arredamento della stanza in cui si è nascosto? Lo sta facendo con lo scopo di cercare, freneticamente, un'arma con cui difendersi? Allora quali dettagli potrà notare una persona che cerca qualcosa da usare per colpire? Il colore delle tendine? Non credo. Stai cercando di ottenere un senso di dilatazione temporale? Il tuo personaggio è in attesa che succeda qualcosa o sta cercando di distrarsi da un'emozione molto intensa? Magari gli hanno appena comunicato che il figlio è morto in un incidente e il protagonista non riesce a sentire niente, è come se fosse ipnotizzato dall'intricato disegno floreale che si arrampica sulla carta da parati del salotto; non sa che fiori siano, sono grandi e hanno l'aspetto di qualcosa che puzza di dolce.

Non possiamo sapere che cosa sia necessario includere e, quindi, escludere finché non sappiamo cos'è che stiamo creando, dov'è che vogliamo andare. E dobbiamo essere consapevoli di come funzionano i nostri strumenti per ottenere il risultato che desideriamo.