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Facendo.
Diffida di chi afferma di avere qualifiche di project management, a meno che non abbia meno di 30 anni (nel qual caso potrebbe essere qualificato ma é certamente inesperto): il project management é stato standardizzato solo nel 2012.
Fino al 2015–2016 semplicemente non esistevano offerte formative per la 21500:2012. Eppure i project manager sono sempre esistiti. Ridevamo di questa buffa constatazione un paio d'anni fa, con uno dei project manager di una delle maggiori aziende italiane. Un geometra che amministrava grandi progetti sui quali poi metteva la firma l'ingegnere capo.
Perché é così che é sempre funzionato il project management: il project designer si attribuisce anche il management, anche se de facto il suo progetto é sviluppato e diretto da altri. É un mondo crudele. Mannaggia.
Io sono diventato project manager una decina scarsa di anni fa. Facevo tutt'altro: la mia qualifica é di esperto in cooperazione finanziaria internazionale. La mia esperienza é nel patronage di contratti transnazionali ed internazionali, in particolare in partenariato pubblico privato. Il mio lavoro consisteva principalmente negoziare contratti per la realizzazione di progetti, non certo quello di amministrarli o svilupparli. E cercare di risolvere problemi quando questi inevitabilmente si verificano.
Insomma nella celebre scena di Pulp Fiction dove Vincent Vega ed il suo compagno incasinano tutto, io sono Mr. wolf. Ma guardate la scena…
Ora immaginatevi di arrivare alla porta nel ruolo di Harvey Keitel e scoprire che il padrone di casa (Q. Tarantino) é non vedente e bloccato su una sedia a rotelle e che John Travolta e Samuel Jackson non ci siano. Chi pulirà la macchina? Chi sposterà entrambe le vetture? Chi penserà a lenzuola ed asciugamani e chi farà il caffè? "Ma che cazzo!" direbbe una persona di buone maniere.
Ecco cosa vuol dire diventare project manager: non mi hanno gettato in acqua dicendomi di nuotare. Mi hanno lanciato da una rupe dicendomi di muovere le braccia e volare. E ovviamente se continuo a farlo é perché ce la feci: 80% culo, 15% talento e 5% infarinata di nozioni base. Ecco cosa vuol dire diventare project manager.
E la gente mi voleva. Io lo spiegavo che era stata ampiamente fortuna, ma era anche peggio: "ragazzi! Questo porta fortuna!" La gente é matta.
Lo esponevo sempre: "presidente, mi perdoni, io non sono un project manager" facevano orecchie da mercante e mi mettevano il dossier in mano. Lo ribadivo: "Ciccio, io no project manager! Niet! Nein! Iie! No!" Annuivano e di dossier me ne mollavano due. E soldi, che sono come un mazzo di rose rosse per una fanciulla… non ci fai nulla, ma ti lusingano e alla fine che devi fare? Gliela dai e amen. Si, sono uno zoccolo.
Comunque gira che ti rigira, sono stato costretto a studiare, sperimentare, sbagliare e imparare. Per cui se vuoi diventare project manager…



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La domanda ha una risposta complessa a seconda che la si consideri dal punto di vista della produzione cinematografica italiana oppure statunitense. Le regole sono diverse come sono diversi gli organismi che sovraintendono alla correttezza dell’uso di tali definizioni (Ministero Beni Culturali e Turismo - MiBACT, in Italia, Producers Guild of America - PGA, negli Stati Uniti).
Premetto pertanto che la risposta sarà lunga, ma preferisco fare chiarezza in tanti fraintendimenti che spesso circolano nel settore.
Alcuni titoli infatti (produttore esecutivo, produttore associato, ecc.) assumono significati diversi a seconda dell’ambito in cui vengono utilizzati.

In Italia:
In Italia, il produttore di un film ai sensi dell’art. 45 della L. 22 aprile 1941 n. 633 (Legge sul Diritto d’Autore) è colui che “ha organizzato la produzione stessa”. Si presume produttore chi sia indicato nei titoli della pellicola cinematografica o che sia registrato come tale al Pubblico Registro Cinematografico, il registro in cui vengono registrati tutti i film di produzione ufficiale italiana (la cui produzione sia stata comunicata al Ministero del Beni Culturali e del Turismo attraverso la c.d. “Denuncia di Inizio Lavorazione”, in gergo “D.I.L.”).
Organizzare la produzione” significa che il produttore debba:
  • occuparsi dell’acquisizione dei diritti d’autore appartenenti ai quattro autori dell’opera cinematografica (ai sensi dell’art. 44 della Legge sul Diritto d’Autore), ovvero autore/i del soggetto, autore/i della sceneggiatura, autore/i della regia (regista/i) e compositore/i della colonna sonora;
  • occuparsi del finanziamento del film, vale a dire:
    • determinare il budget (costo del film);
    • determinare il piano finanziario, ovvero identificando le fonti di finanziamento (risorse proprie, investitori, finanziamenti bancari, crediti d’imposta, contributi regionali, prevendite di diritti cinematografici all’estero ed in Italia, ecc.);
    • determinare il cash-flow, della produzione, ovvero come e quando le singole voci di finanziamento entreranno in cassa e come e quando verranno spese;
  • occuparsi della produzione del film: contrattualizzando il produttore esecutivo (v. oltre), il regista (per la sua prestazione, ulteriore rispetto all’acquisto diritti di cui sopra), il direttore della fotografia, il compositore delle musiche (come sopra per il regista), il capo costumista, il capo scenografo, gli attori principali, i capi reparto, prendendo accordi per l’accesso a determinate locations, ecc. In una parte di questa attività il produttore è coadiuvato dal produttore esecutivo (v. oltre);
  • occuparsi della distribuzione del film, quantomeno nella parte iniziale, consistente nell’identificare il distributore nazionale (che si occuperà poi della distribuzione del film in sala e della negoziazione con gli esercenti delle sale cinematografiche) e negoziare il relativo contratto di distribuzione, e negoziare i diritti del film per l’estero (direttamente con acquirenti stranieri o affidandosi a un agente di vendita o sales agent);
Al produttore spetta l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica del film, vale a dire lo sfruttamento cinematografico dell'opera prodotta (art. 46 Legge sul Diritto d’Autore).
Il produttore può produrre il film da solo oppure insieme ad altri produttori che possono partecipare sia al solo finanziamento del film, sia coadiuvare il produttore nelle sue attività. In tal caso di parla di produttori associati o co-produttori. Solitamente questo ultimo termine viene utilizzato nel caso di co-produzioni internazionali, ove due o più produttori appartengono a nazioni diverse. Trattati internazionali (trattati bilaterali sulle co-produzioni) o convenzioni (es: Convenzione Europea sulle Coproduzioni - Strasburgo 1992) consentono alle co-produzioni di ottenere particolari vantaggi finanziari (contributi da fondi nazionali e internazionali per le co-produzioni, fondi MEDIA, Eurimages, ecc.). Quando più co-produttori devono produrre insieme un film, nominano fra loro un produttore delegato, ovvero colui che fra i co-produttori porterà avanti effettivamente la produzione, incaricando un produttore esecutivo.
L’attività effettiva di produzione viene infatti solitamente affidata a un produttore esecutivo. Il produttore esecutivo segue (esegue, da qui il termine “esecutivo”) le indicazioni del produttore ed è specializzato nel gestire le riprese vere e proprie del film, contrattualizzare gli attori minori, le maestranze, i fornitori, ecc. A volte lo stesso produttore svolge anche il ruolo di produttore esecutivo, tuttavia, nelle produzioni più importanti, i due ruoli sono distinti.

Negli Stati Uniti:
La figura del producer anglosassone ricalca, più o meno, quella del produttore di stampo italiano, con la differenza che mentre in una società di produzione italiana vi è solitamente un produttore, nelle società di produzione anglosassoni (più grandi e strutturate) possono esserci più produttori, ciascuno responsabile di uno specifico progetto produttivo.
Inoltre, acquisiscono il titolo di producer (e la menzione “produced by”) anche quelli che in Italia vengono chiamati produttore associato e co-produttore (sono in effetti produttori di pari grado del producer).
Il produttore esecutivo italiano è invece - nella prassi e nel linguaggio anglosassone - definito come line producer, ovvero “produttore di [prima] linea”, nel senso che - con una terminologia quasi militare - il suo lavoro consiste, seguendo (eseguendo) le indicazioni del produttore, nell’occuparsi della prima linea di fuoco, della trincea, svolgendo dunque il ruolo del produttore esecutivo (italiano).
Viceversa, l’executive producer NON È un produttore esecutivo. L’ambiguità della traduzione è determinato da ciò che in linguistica viene definito un caso di “falsi amici” o “false friends”: termini che suonano nello stesso modo ma hanno significati diversi in due lingue diverse (si pensi al significato di “bravo” in italiano, diverso dal significato nella lingua spagnola, ove significa “selvaggio”).
Mentre infatti in italiano “esecutivo” ha il significato di “che ha la facoltà di eseguire (…) che attende all’esecuzione, che si limita ad eseguire” (Diz. Treccani), in inglese il termine ha un significato più ampio ed elevato di “a person with senior managerial responsibility in a business organization” (“una persona che ha responsabilità di gestione superiore in una struttura aziendale”). Per questo motivo, nel mondo anglosassone, l’Executive Vice President è superiore al Vice President, ecc.
L’executive producer (in breve: EP) è solitamente un soggetto diverso dal producer e si occupa di affiancare il producer occupandosi alcuni specifici aspetti della produzione: reperire, ottimizzare, strutturare i finanziamenti e/o la struttura legale della produzione (EP in charge of financing, EP in charge of legal) oppure alcuni aspetti creativi come il reperimento dei diritti o la gestione del talent pool (regista, attori, ecc.) tramite, solitamente, una grande attività di relazione (EP in charge of creative, anche definito come creative producer).
Alcune volte, il titolo viene dato a chi sia stato in qualche modo “determinante” per il film: ad es. a chi abbia assicurato l’acquisto dei diritti necessari a produrre il film (si pensi alle grandi “franchise” come Star Wars, James Bond, Harry Potter, ecc.), oppure a chi abbia fornito una parte rilevante del finanziamento (si pensi ai gestori di fondi, ecc.).
Secondo le regole della PGA (Producer’s Guild of America, il sindacato dei produttori), può essere infatti definito “executive producer” colui che:
“has made a significant contribution to the motion picture and who additionally qualifies under one of two categories:
  • Having secured an essential and proportionally significant part (no less than 25%) of the financing for the motion picture; and/or
  • Having made a significant contribution to the development of the literary property, typically including the securement of the underlying rights to the material on which the motion picture is based.
(“ha fornito un contributo significativo alla produzione del film e ulteriormente si qualifica in base ad una delle seguenti categorie:
  • ha assicurato alla produzione una parte essenziale e significativa (non inferiore al 25%) del finanziamento del film, oppure
  • ha fornito un contributo significativo allo sviluppo della proprietà letteraria, tipicamente assicurandosi i diritti [letterari o di altro tipo] sui quali il film si fonda.”)
In Italia non vi è alcuna figura che corrisponda all’executive producer, il che spesso crea problemi non solo nella traduzione dei titoli ma anche nell’attribuzione dei ruoli ufficiali in caso di co-produzioni internazionali (spesso viene erroneamente tradotto come produttore esecutivo o, viceversa, il produttore esecutivo viene tradotto come executive producer nei titoli inglesi).
A fianco del producer possono anche essere riconosciute altre posizioni, quale quella dell’associate producer (diverso dal produttore associato italiano che per gli anglosassoni è un producer).
Il titolo di associate producer è (PGA Code of Credits) concesso “solely on the decision of the individual receiving the Produced By credit, and is to be granted sparingly and only for those individuals who are delegated significant production functions.”
(“solo per decisione del soggetto che abbia ricevuto un credito di “prodotto da” e deve essere usato con parsimonia e solo a quei soggetti ai quali siano state delegate importanti funzioni di produzione”), mentre il titolo di co-producer, che nel sistema anglosassone spesso si identifica con il line producer, viene dato a “the individual who reports directly to the individual(s) receiving "Produced By" credit on the theatrical motion picture” (“il soggetto che riporti direttamente al soggetto che abbia ricevuto un credito di “prodotto da” nel film”, cioè il producer) e dunque co-producer è (PGA Code of Credits) “the single individual who has the primary responsibility for the logistics of the production, from pre-production through completion of production; all Department Heads report to the Co-Producer / Line Producer.” (“il soggetto che ha la responsabilità primaria della logistica della produzione dalla pre-produzione al completamento della produzione; tutti i capi-dipartimento riportano al co-producer/line producer”).
BONUS:
Mentre, come detto sopra, in Italia non vi è una figura paragonabile allexecutive producer anglosassone, in Francia il produttore di un film è definito producteur, il produttore esecutivo è definito producteur exécutif e l’executive producer è definito producteur délégué. In italiano però non possiamo tradurre il ruolo di producteur délégue (che sarebbe l’executive producer) come produttore delegato, in quanto quest’ultimo è quello, fra i co-produttori, che fa da capofila e incarica il produttore esecutivo.
Semplice no?


No, io direi invece tutto il contrario. Io direi che è un problema di aiuti economici che andrebbero tolti.


Un film cupo, disturbante, allarmante, che usa una icona pop per parlare del problema della malattia mentale in un mondo iper-competitivo, ma lo fa con una morale volutamente ambigua. Il fatto che il mostro abbia delle ragioni per essere quello che è, non giustifica comunque le sue azioni. Ecco un film che non avrebbe mai e poi mai potuto essere prodotto in Italia, e che invece ha avuto un successo incredibile anche tra gli Italiani.
Joker a parte (caso estremo) ho una laurea in economia, e a me hanno insegnato che quando un settore è in crisi, le cose andrebbero fatte più commerciali, non più intellettuali.
Purtroppo invece la RAI aiuta i film 'ad alto valore culturale' invece che i film 'ad alto valore commerciale', quindi in sostanza, con le nostre tasse aiutiamo i film che non vanno. Il finanziamento premia i film che non funzionano.
Lo dimostra il fatto che PRIMA degli aiuti economici avevamo film polizieschi, western, erotici, musicali (i film con Nino D'angelo), commedie di alto e basso livello, film horror: avevamo di tutto e ANCHE i film di altissimo livello (Perché è quando un'industria va BENE che ti puoi permettere di rischiare un po' di più, non quando va MALE. Giusto?)
Ora come ora gli aiuti al cinema italiano andrebbero aboliti in toto.
Bisogna tornare ai produttori di una volta: quei miliardari che cacciavano un sacco di soldi di tasca loro, e la decisione se finanziare Cristian De Sica o Fellini era una loro sacrosanta decisione e di nessun altro, perché ne avrebbero pagato le conseguenze di tasca loro.
E poi, quando il film usciva, i produttori rischiavano un infarto nell'attesa di scoprire se tale film avrebbe guadagnato tanto o poco. Ovvero: se si sarebbero rifatti dell'investimento speso, o se avrebbero perso dei soldi, e soprattutto quanti.
Questo è il cinema come si fa in tutto il resto del mondo, altro che lavorare SOLO per convincere la commissione RAI a sganciare il dinero.
E non si capisce perché da noi invece debbano essere le tasse degli italiani a finanziare le solite storie banal-autobiografico-esitenziali con le solite vicende comuni di gente comune, e poi ci lamentiamo se la gente snobba il cinema italiano perché mentre noi parliamo di divorzi, corna e crisi di coppia, gli Americani ci sparano JOKER.
Basta.
Datemi un cavolo di thriller ambientato in Italia, che di gente cazzuta ce n'è anche qui in Italia e sarebbe bello raccontare anche le loro storie, qualche volta.
POST SCRIPTUM
Più di qualcuno nei commenti ha obbiettato che senza finanziamenti statali non è possibile scoprire ‘il nuovo Fellini’ / ‘il nuovo Antonioni’.
Ta-daaaa!!!!
Entrambi questi due nomi hanno esordito con fim commerciali nel senso stretto del termine, prima di passare ai loro progetti ‘personali’.






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Un conto è scrivere o leggere le note su un pentagramma. Un'altro è conoscere gli accordi di chitarra; anche i più semplici. D'altronde uno spartito non è così difficile da leggere. Non lo era neanche per loro, pur non avendo studiato musica.
Il problema più grande dei Beatles nei primi anni era che non avevano tempo per annotarsi le varie canzoni che componevano a orecchio o in bozze volanti, dato che erano praticamente in una tournée continua. A volte 2 spettacoli in un giorno! Molte canzoni dei Beatles andarono perse così. Quelle che potevano ricordare a memoria riuscirono a salvarle, altre no. Anche per questo nei primi anni scrivevano canzoni orecchiabili e non troppo difficili. Difatti, una volta dismesse le tournée, i film e i vari impegni mondani, dedicando più tempo allo studio di registrazione, il livello della loro musica si alzò enormemente, fino a vette inarrivabili.


I Kiss diventarono celebri perché fin dall'inizio quello è stato l'obbiettivo dei loro 2 frontman, Paul Stanley e Gene Simmons: fondamentalmente, Paul non aveva altro nella sua vita che la musica, attraverso la quale cercava un riscatto per la propria infanzia e adolescenza sfigata. Gene invece voleva semplicemente rimorchiare, ed è il motivo per cui ha iniziato a suonare, perché sapeva che all'epoca i musicisti piacevano a tutte le ragazze.


Le maschere, o meglio i make-up, e ovviamente i travestimenti, sono nate in maniera graduale: prima di tutto, Gene adorava i Beatles, e la sua idea era quella di crearne una versione "anabolizzata" I Beatles infatti puntavano molto sull'iniziale impatto visivo, erano tutti vestiti uguali, in bianco e nero, con la stessa pettinatura. Gene inoltre leggeva tantissimi fumetti di supereroi, così tutte queste cose sono confluite in una band che aveva la stessa formazione dei Beatles, che come loro aveva vestiti in bianco e nero e capelli identici.


Il look dei Kiss è stato inoltre una graduale evoluzione dello stile Glam Rock che si stava affermando in quel periodo a New York: principale fonte di ispirazione è stata la band dei New York Dolls, musicisti dal look estremamente androgino e impattante, ma non molto preparati a livello tecnico, infatti la loro carriera non è stata tra le più fortunate.


I primi Kiss infatti, avevano il viso truccato con fard bianco, matita e rossetto sugli occhi, e accessori colorati addosso: mano a mano, Paul sviluppò l'idea di eliminare progressivamente tutti i colori dal loro look, arrivando quindi gradualmente a degli outfit in cui le uniche tinte fossero bianco, nero e grigio.


Sempre a Paul, se non ricordo male, venne l'idea che ognuno dei componenti della band avesse un suo personaggio ben preciso e riconoscibile, un vero e proprio alter-ego supereroistico, come nei fumetti che piacevano a Gene. Così nacquero The Demon, lo Starchild, Catman e Spaceman, ovvero i Kiss che tutti oggi conoscono, e che grazie a dei concerti "circensi" pieni di effetti speciali e dall'enorme impatto e visivo e sonoro, ma soprattutto grazie ad un album dal vivo che pubblicarono nel 1975, riuscirono a diventare una delle band più famose al mondo.


(in questa foto, i pantaloni blu di Paul erano se non ricordo male stati confezionati da sua madre)







Risultato immagini per Cari aspiranti scrittori: è facile farsi pubblicare se sapete come farlo


Vita standard di un caporedattore alle prese con manoscritti illeggibili. Tra chi propone romanzi, racconti e poesie alligna la pazzia. Ma basterebbe seguire alcune sempllici regole per farsi prendere sul serio dagli editori. E finire, con la propria opera, in libreria

Ieri mattina ho avuto la malaugurata idea di mettermi a leggere tutti i manoscritti arretrati spediti a 1437 Network. Di solito li scremo man mano che arrivano in redazione, dividendoli tra Leggibili e Illeggibili. Gli illeggibili li cestino. I leggibili li raggruppo per condividerli con direttori e redattori: insieme si vota per pubblicarli o no. Nelle scorse settimane, per finire il lavoro sul nuovo numero prossimo ad andare in stampa, ne ho accumulato alcune decine, così ho dovuto rimettermi in pari velocemente.
Leggendo in fila i testi, le biografie degli autori, le lettere di accompagnamento, mi sono definitivamente convinto che quasi tutti quelli che stanno per premere INVIO a una mail con oggetto “proposta di pubblicazione”, o “alla cortese attenzione del direttore editoriale…” lo facciano con le peggiori intenzioni. E ne ottengano i peggiori risultati.
Ci sono passato anche io. Conosco per esperienza diretta tutta la rabbia di chi è in speranzosa attesa di pubblicare, il senso di esclusione, le aspettative e le delusioni che danno vita a questa sorta di “grillismo editoriale”, con annesse teorie del complotto stile Ordine Editoriale Mondiale. Raramente l’invio di un manoscritto andato a vuoto dà direttamente origine a una catena di omicidi-suicidi, quindi se ne parla fino a un certo punto. Eppure, sono convinto che se tutti gli aspiranti scrittori che ci sono in giro fossero un po’ meno frustrati e rancorosi, i tassi di violenza domestica, risse, incidenti d’auto, abuso di farmaci e sostanze psicotrope, diminuirebbero sensibilmente. I cinquestelle prenderebbero meno voti, il web sarebbe un posto meno inutilmente violento, il Paese intero ne gioverebbe.
Siccome da qualche tempo mi trovo dall’altra parte della barricata, cioè nei panni di quello che sta alla scrivania a leggere manoscritti inediti, ho iniziato a farmi un’idea meno autobiografica e più sociologica di cosa passi per la testa di chi trova il coraggio di premere INVIO.
Una caratteristica che unisce quasi tutti quelli che non riescono a farsi pubblicare con cui ho parlato negli anni è che, prima o poi, nel silenzio dei propri mugugni o in CAPS LOCK sui social network, trasformano in bandiera in nome della quale combattere l’elenco dei rifiuti editoriali eccellenti. Un ottimo modo per consolarsi alimentando la propria diffidenza nei confronti dell’agognato “mondo editoriale”: da Harry Potter a Proust, da Primo Levi a Moresco, da Moravia, che si autopubblicò “Gli indifferenti”, al caso di culto di Guido Morselli “che si è perfino ammazzato…”. Ci sono libri dedicati a questo argomento. E nutriti elenchi in rete. Ed è tutto vero: gli editori, gli agenti letterari, i critici, i lettori professionisti sbagliano eccome, e voi potreste essere esattamente quel caso su un milione di genio letterario che “non è stato capito”.
Però, pensateci un attimo: quanto è probabile? Quanto è probabile che siate proprio voi l’eccezione e non la regola? C’è un esempio molto banale, che quindi proprio per questo funziona, abusatissimo nei telefilm ospedalieri, da Dr. House, a Grey’s Anatomy, passando per Scrubs: se senti rumore di zoccoli, pensa al cavallo, non alla zebra. Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavalli=testi Illeggibili. Zebra=testi Leggibili (e/o bellissimi, interessanti, vendibili, etc, etc). Ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre.
Facciamo una passo indietro. Sul fatto che il mondo editoriale sia “tutto un magna magna”, parliamoci chiaro: una raccomandazione (che tra l’altro non è sempre una cosa negativa, anzi, spesso nasce da un sincero apprezzamento dell’autore o della sua opera da parte di qualcuno che gode della stima e della fiducia di un altro professionista altrettanto stimabile e affidabile e così via), fa naturalmente sempre comodo. Come dovunque. Non è cosa segreta a nessuno che, come ha detto il Ministro Poletti - rischiando il linciaggio per eccesso di leggerezza - si trovi più facilmente lavoro alle partite di calcetto che mandando i curriculum.
È pacifico che anche nell’editoria molti emergenti ottengano l’attenzione che desiderano proprio negli spogliatoi dei campetti a cinque più che con l’invio al buio di un inedito. Se scrivete e abitate a Roma e avete una buona idea per un romanzo non fareste poi tanto male a comprarvi un paio di scarpini da calcio e cominciare ad allenarvi.
Ma, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, le raccomandazioni servono più a farsi leggere che a farsi pubblicare. Se scrivete cose brutte, o che non funzionano, e non siete Lionel Messi, passare un sacco di serate in panchina, sperando che qualcuno si infortuni per poter entrare, non vi sarà molto d’aiuto.
Tanto vale recuperare l’indirizzo mail di editor di case editrici serie e mandare direttamente il vostro testo senza mediazioni. Le librerie sono piene di invii “alla cieca” andati a buon fine, di inediti acquisiti, amati e sostenuti da veri editori grandi e piccoli senza nessuna raccomandazione, con l’unico interesse di pubblicare il libro migliore con più possibilità sul mercato.
Per farne una rassegna approfondita, occorrerebbe una seria ricerca. Ma, per poterne citare qualche esempio e smontare all’impronta qualche pregiudizio basta un pessimo cronista come il sottoscritto, che essendo vergognosamente pigro, si affida a un rapido giro di telefonate fra conoscenti.
Faccio uno squillo a Leonardo Colombati, che mi racconta del suo esordio: “Non conoscevo nessuno. Mandai il romanzo in busta, e dopo un paio di mesi mi chiamò al telefono una persona, dicendomi: "Buongiorno, sono Giulio Mozzi, vorrei pubblicare il suo romanzo".
Così sento Mozzi, che mi racconta di Diego De Silva: “Mi aveva mandato una busta con un racconto molto bello, avviammo una corrispondenza, all’epoca non lavoravo per nessuno in particolare, sentii Stile Libero, ma niente, allora feci da tramite con Pequod, per cui uscì il suo romanzo La donna di scorta”. Prima di salutarmi, mi suggerisce di sentire Mariolina Venezia, che chiamo: “Avevo scritto questo insieme di racconti nel ‘92 o nel ’93, e avevo selezionato alcune case editrici, una era Theoria, andai lì col motorino, c’erano pile di manoscritti dappertutto, ho pensato che non mi avrebbero mai letto. Poi, parecchio tempo dopo, forse anche un anno, ho ricevuto la chiamata di Giulio Mozzi, e il libro uscì”.
Paolo Di Paolo, a cui mando un sms, mi scrive: «ero ancora uno studente universitario residente fuori Roma, mandai un racconto alla rivista Nuovi Argomenti, e dopo poche settimane mi chiamò Enzo Siciliano, all’epoca direttore della rivista. Era in treno, stava andando a Firenze al Gabinetto Viesseux, c’era molto rumore, mi disse semplicemente “Ho letto il suo racconto, ha un tono dolente e ironico che mi piace, lo pubblichiamo”».
Gaia Manzini, interrogata in proposito, mi scrive su whatsapp che fu sua madre a convincerla a mandare un racconto a Nuovi Argomenti. Chiamò in redazione, rispose Carlo Carabba, all’epoca caporedattore, che dopo averla pubblicata in rivista girò il suo numero a Mario Desiati, che poco dopo la chiamò: “Non ti montare la testa ma i tuoi racconti sono piuttosto buoni, però io per Mondadori non ti posso fare esordire con dei racconti, mettimi giù un’idea di romanzo”. Quando poi ci siamo visti di persona, mi disse “guarda, mi sono appena licenziato da Mondadori e sono andato in Fandango, ti faccio esordire lì coi racconti”.
Mentre considero conclusa la mini rassegna, incerto se aggiungere la mia esperienza personale di invio alla cieca ad Antonio Franchini a questa carrellata, mi scrive su Facebook Matteo Strukul, che ho conosciuto alla presentazione dei finalisti del Premio Bancarella. È un’altra storia, ma insieme ad Alessandro Barbaglia siamo finiti in un’osteria novarese dove, dopo aver visto un video di Gianluca Grignani e Gian Paolo Serino, abbiamo iniziato a progettare il manifesto poetico di un gruppo artistico: I Neoromantici. Mentre faccio una chat collettiva su Facebook dal titolo I Neoromantici (per scoprire che il video da cui avevamo preso spunto per la nostra dichiarazione di poetica parlava in realtà di Neuroromantici: non c’è niente di più neoromantico che provare il desiderio di unirsi a un gruppo che non si chiama come si pensava si chiamasse!) approfitto per infilare i miei due compagni di bisboccia nell’articolo.
Strukul: “Ho mandato il mio manoscritto all'attenzione della nuova direttrice della collana Sabot/Age di Edizioni E/O, Colomba Rossi, e l'editore ha fatto avere il manoscritto a Massimo Carlotto che curava la collana appena nata e lui e Colomba hanno deciso di pubblicare La ballata di Mila come romanzo di apertura”.
Barbaglia: “Ero a Novara in un teatrino dove leggevo i miei “Testicoli”, che sono dei testi piccoli e un po’ comici, un po’ intimi, come i testicoli. A fine serata una ragazza molto alta mi si avvicina e dice: “Secondo me i tuoi Testicoli funzionano”. Non so che dire. E allora lei, che era una scrittrice, mi dice: “Dovresti pubblicarli, li giro al mio agente”. Pensavo scherzasse. Poi mi ha chiamato davvero la sua agenzia, che non ha voluto i testicoli ma mi ha chiesto di scrivere un romanzo, l’ho fatto ed è uscito”.
Questi esempi, per quanto estemporanei, possono essere molto istruttivi per chi desidera pubblicare ma ancora non è riuscito a farlo. Gli aspiranti scrittori sono tanti, è vero. Ma anche le case editrici, i loro lettori di fiducia e gli interlocutori che possono fare da mediatori non scherzano, numericamente. È forse il senso più profondo del torto di Tremonti al tempo in cui disse “Con la cultura non si mangia”. Mi pare che, poco e male, magari vivendo esistenze molto più simili a quelle di erasmus ventenni che a quelle di adulti responsabili (salvo quelli, non pochi, benestanti di famiglia), ma ci mangiamo in un po’, mi pare, con la cultura.
Per sincera passione verso il loro lavoro alcuni, per continuare a mangiucchiare qualcosa altri, il piccolo esercito composto da editori e lettori professionisti spera sempre di poter estrarre un capolavoro o un bestseller (meglio se tutti e due) dalle pile fisiche e virtuali di manoscritti che aspettano di essere letti. Cioè i vostri.
A dir la verità, tra queste enormi pile virtuali e analogiche, di capolavori e bestseller non se ne trovano quasi mai. I testi raccomandati, mediamente, sono molto meglio.
L’homo editorialicus, questo, lo sa bene.
E, ormai, visti i tantissimi forum in rete dedicati al tema, lo sa anche chi invia, che chi riceve i testi parte con un legittimo pregiudizio: troppi cavalli, per non dire ronzini, pochissime zebre. Come fare a farsi notare nella mandria?
State sereni: è facile pubblicare (se sapete come farlo).
Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello medio delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di TOTALE inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare. E non sto parlando, naturalmente, di editori a pagamento, o di autopubblicazione, nemmeno se con questo si intenda fondarsi una casa editrice e pubblicarsi da soli. Sto parlando di un vero piccolo, medio, o grande editore. Che vi pagherà tanto o poco (verosimilmente poco) e cercherà di vendere il vostro lavoro (generalmente non riuscendoci, ma questa è un’altra storia).
Qualche piccolo suggerimento perché, sapendo come farlo, pubblicare sia davvero facile:
1) Assicuratevi di conoscere i vostri interlocutori: sapere quello che pubblicano aiuta a non disperdere gli invii. Basta leggere i libri che un editore pubblica per capire se il vostro testo può interessargli o no. Potete leggerli anche in biblioteca se siete tirchi o poveri.

2) Siate consapevoli di quello che avete scritto: inutile mandare romanzi adolescenziali porno soft (o anche non soft) a editori che pubblicano solo saggi entomologici di autori finlandesi ottuagenari. Se non per ravvivare la giornata degli editor. O la mia.
3) Evitate di scrivere lettere d’accompagnamento lunghe quanto o più del manoscritto che inviate. Non è raro che l’ansia da prestazione vi faccia apparire scrittori peggiori e più prolissi di quanto non siate. E, viceversa, se la lettera dovesse risultare più brillante del manoscritto, forse dovreste farvi delle domande.
4) Curate il testo. Vuol dire “giustificate”, usate un carattere d’uso comune, un corpo leggibile e (per l’amor di Dio!) mettete i numeri di pagina. Se il testo sembra perlomeno riletto e un po’ curato graficamente chi lo legge vi prenderà più sul serio. Quindi non dico di farvi ossessionare dalla caccia al refuso (Dio ha inventato i redattori per questo!). Ma se un file word all’apertura appare sottolineato interamente dal correttore automatico, qualcosa che potrebbe far pensare al vostro lettore che siete dei mentecatti ignoranti e menefreghisti c’è. Ci sono eccezioni, certo, ma, di solito, la follia formale in cui si presenta visivamente un file ricevuto si rispecchia pienamente nella follia formale della scrittura in esso contenuta. Come vorreste si presentasse un testo indirizzato a voi? Ecco, siate cristologici, non fate leggere agli altri quello che non vorreste fosse fatto leggere a voi.
5) Non esagerate con le cure. Decine di epigrafi, dediche strappalacrime (“A mia nonna, che nonostante fosse una povera contadina, cieca ed ex partigiana ha risparmiato tutta la vita per comprarmi un volume della Recherche di Proust, volume che lessi avidamente ma che fui costretto a bruciare pagina a pagina nella stufa per riscaldare i miei fratellini rimasti orfani l’inverno in cui decisi di diventare uno scrittore…”) e ringraziamenti (“Grazie Papa Francesco, che con quella stretta di mano mi hai silenziosamente detto: Scrivi, vai avanti!”) non sono così necessari come credete. Tendenzialmente vi fanno apparire patetici. Dei poveri, patetici, boriosi. Dei poveri, patetici, boriosi che non verranno mai, mai, mai e poi mai pubblicati da chiunque abbia un briciolo di dignità.
Altra cosa: non mettete il vostro nome in sovraimpressione su ogni foglio di testo per paura che vi venga rubato il manoscritto. Vi fa apparire paranoici e fuori dal mondo: già i libri di scrittori affermati non si vendono, figuriamoci se si rubano i vostri. Trovare gente che scriva bene è così raro che se siete bravi davvero, e mandate il testo a una casa editrice vera, voi in carne e ossa varrete ai loro occhi molto più del vostro manoscritto. Chi non preferirebbe una gallina oggi a un uovo oggi? Perfino gli editori sono abbastanza furbi da farsi i loro conti, nonostante siano quel tipo di esseri umani che continua a pensare che potrà fare soldi coi libri nel 2020.
FONDAMENTALE: non mettete cornici per rendere più “carine” le vostre pagine. A meno che non sia un libro illustrato, un libro di grafica, o qualcosa per cui i ghirigori abbiano un senso, davvero, abbiate pietà: no cornicette come se foste ancora alle elementari. State invecchiando. E se non vi sbrigate non farete in tempo a dare alle stampe il vostro capolavoro prima di lasciare questa valle di lacrime.

6) Se proprio sentite l’esigenza di aggiungere al testo una biografia, fatelo solo se è una biografia che aiuta il testo e non una di quelle che fa si che il testo venga direttamente cestinato, o leggiucchiato con pregiudizio. Ad esempio, se avete altre pubblicazioni alle spalle, siete sicuri sicuri di volerle segnalare proprio tutte? Anche l’aver pubblicato il “bestseller circondariale” Il torto del recensore con Kittesenculaselfpubliching? Io vi consiglierei di eliminare anche i “vive in un piccolo paese in provincia di Sassari”, “Dalla sua casa in collina osserva tutti i giorni il verde del territorio circostante”, “La mattina scruta il mare e ne trae ispirazione”, “Fruga spesso tra le cose vecchie e nascoste ma ha l’ansia da notifica per mail, social network, forum e quant’altro” che mi è toccato leggere ieri. Sembrate pazzi. Pazzi e noiosi. Pazzi, noiosi e impubblicabili.

7) Se inviate per posta, benissimo. Se volete aggiungere un omaggio al manoscritto, sentitevi liberi. Ma che il vostro tentativo di corruzione sia invogliante. Mettere foglie secche, fiori appassiti, immaginette sacre, ritagli di foto del destinatario (sembrano più una minaccia!), disegnetti dei vostri figli e indecifrabili lettere vergate a mano dentro buste chiuse non vi aiuterà a essere letti con maggior favore. Piuttosto, soldi. Se sapete già che la qualità del testo non basta, mettete soldi. Tanti soldi. Ma sono graditi anche salumi, vini, formaggi. Nessuna persona seria vi pubblicherà per questo. Ma brinderà a voi e troverà maggiori motivazioni per non insaponare una corda a fine giornata.

8) Mettere come prima cosa, prima del titolo, prima del vostro nome, prima di tutto, i vostri recapiti di casa, lavoro, cellulare, mail personale, mail ufficio, tutti i vostri profili sui social network, etc, etc, denota ANSIA. Non indurrà il vostro lettore a chiamarvi prima per chiedervi come state, che fate, se vi va di fare quattro chiacchiere al telefono, ognuno nella rispettiva vasca da bagno, per sparlare un po’ insieme del mondo editoriale brutto e cattivo. Vi troveranno, se quello che avete scritto è buono, vi troveranno facilmente, se non vi telefoneranno, non vi risponderanno alle mail, non lasceranno messaggi ai vostri genitori che avete obbligato a restare a casa “sia mai che chiami l’editore”, non è perché non vi riescono a rintracciare, ma perché non gli piacete abbastanza.

9) No, tendenzialmente, a meno che non siate particolarmente avvenenti, niente “allegata foto dell’autore”, grazie.

10) Quando scrivete direttamente a qualcuno, se sbagliate il suo nome, non è che sia grave, mediamente sarà un povero stronzo, come il sottoscritto. Però, diciamo che quando mi arrivano mail tipo: “Esimio Direttore della 1437 Network Dottor Endrizzi”, come faccio a non rispondere “Non sono direttore, sono caporedattore, praticamente un factotum, quindi capisce bene, un minimo ci tengo, in cosa posso esserle utile?” senza provare un certo senso di sconforto e quindi senza essere pienamente bendisposto verso l’interlocutore?
In generale, giuro, la cosa più importante per aumentare le possibilità di essere pubblicati è, non dico essere, ma perlomeno sembrare, sani di mente. Se ce la fate, e mandate un testo che possa rientrare nei gusti di chi dovrà leggerlo, permettendogli di leggerlo senza indisporlo con assurdità paratestuali che vi mettano in pessima luce, siete già a metà dell’opera.