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La tecnica del canto è quell'insieme di accorgimenti, appresi con l'allenamento e lo studio, necessari ai cantanti per evitare danni alla laringe e per ottenere al contempo una voce timbricamente gradevole, potente e con un'ampia gamma cantabile, cioè un'estensione vocale dalla nota più bassa alla più alta in cui il timbro sia omogeneo e l'intonazione corretta e stabile.
Tutti, più o meno, possono cantare una canzone. Molti di meno invece riescono a cantare più canzoni di seguito, anche semplici: dopo qualche minuto un cantante improvvisato comincerà a sentire mal di gola, e la sua voce inizierà a farsi rauca e sfiatata; se nonostante tutto continua a cantare, di lì a poco si ritrova afono, e corre il rischio di procurarsi un edema.
Questo accade perché, istintivamente, il cantore di cui sopra usa la sua voce come se parlasse. Ma l'uso della voce che si fa normalmente, sebbene sufficiente allo scopo di parlare, imporrebbe alla laringe delle sollecitazioni notevoli nel caso del canto: per poter cantare per ore senza danni, senza sforzo e con una voce sempre gradevole, il cantante deve adattare la sua voce in modo diverso, utilizzando particolari modalità di gestione della respirazione, dell'uso indiretto delle corde vocali, degli spazi presenti nella zona di risonanza posta tra laringe-faringe-labbra (vocal tract) che si apprendono attraverso lo studio, l'allenamento e l'auto-osservazione. Si parla quindi di un "accordo" di tipo "pneumofonico risonanziale" (pneumo=aria, fonico=corde vocali, risonanziale=vocal tract).
L'emissione sonora è basata sugli stessi organi, situati nella stessa zona del corpo umano, che funzionano nel medesimo modo in base agli stessi principi: ciò che varia è la modalità di gestione volontaria diretta o indiretta di tali organi.

La voce naturale
Il suono della voce nasce dalla vibrazione della corde vocali poste all'interno della laringe, provocata dal flusso d'aria emessa dai polmoni e la nota è stabilita dalla velocità di vibrazione determinata da proprietà fisiche delle corde vocali (lunghezza e spessore) variabili tramite l'azione di alcuni muscoli della gola. La regolazione è un fatto istintivo. Sempre istintivamente una persona usa, parlando, il minimo flusso d'aria necessario per far vibrare la propria laringe: la gestione della respirazione è quindi limitata a tale aspetto. Come studiato e dimostrato già da Giovan Battista de Lorenzi, i suoni umani sono generati dalle "corde vocali" ma trattare la voce esclusivamente come uno strumento a corda è un errore; qualunque di essa quando attraversata da un flusso d'aria non può emettere suoni del tipo umano. Si può quindi pensare alle corde vocali come uno strumento ad ancia "variabile" e vibrante come una corda.
Non è inoltre necessario porre alcun accorgimento al modo in cui il suono attraversa le zone del vocal tract poiché quanto appreso in prima infanzia per il parlato risulta sufficiente, se non sono presenti errori di fonazione che richiedono l'intervento di un logopedista.

La voce impostata
I cantanti, viceversa, hanno bisogno di usare la voce a lungo e a volume molto alto, anche se mai forzato: il meccanismo istintivo di fonazione, per loro, non è più sufficiente. Il sistema di fonazione usato nel canto classico (ma in parte anche nel teatro di prosa) è la cosiddetta impostazione o voce impostata: si tratta di sfruttare al meglio una o più delle cavità orofaringee, come cassa di risonanza secondo il principio sfruttato in molti strumenti musicali. Va inoltre gestita diversamente la respirazione e va curato il risultato ottenuto in base alla lunghezza della "frase musicale" e della note che si devono eseguire.
Per fare tutto ciò sono necessari due requisiti basilari:
  • sostenere durante il suono, in espirazione dai polmoni, un flusso d'aria continuo e maggiore del normale: da qui l'importanza fondamentale del controllo della respirazione e dei muscoli coinvolti (diaframma e muscoli addominali) e di tenere la cassa toracica il più possibile aperta, per espandere al massimo i polmoni;
  • imparare, con l'autosservazione e l'aiuto di un maestro, a modellare gola, palato, lingua e labbra per mantenere la risonanza al variare della nota che si sta cantando.
Posizione e apnea sono due elementi fondamentali e simultanei dello stesso processo che è il canto cosiddetto "sul fiato" o "appoggiato", tramite il quale la voce risulta, a chi ascolta, raccolta "in maschera", vale a dire con una risonanza atta ad ottenere il massimo volume con il minimo sforzo, e il suono sembra letteralmente "galleggiare". La giusta "posizione" si ottiene tramite un controllo mentale costante della sorgente sonora sulle corde, al fine di mantenere larga la gola, senza mai spostare il suono ad esempio avanti nel volto o nel naso (falso concetto di canto nella maschera), cose che comportano in realtà una risalita immediata del diaframma, una chiusura della gola, una contrazione muscolare, e che si verifica ad esempio quando si grida o si canta male, anche la musica leggera, o quando si produce un suono muto forzato nel naso.
L'apnea consente invece nel trattenere il fiato grazie al gioco della cintura muscolare costale e addominale, frenando la risalita del diaframma: attraverso l'azione simultanea di queste due spinte contrastanti, si realizza il perfetto "appoggio" del suono (vale a dire un suono emesso col controllo dell'espirazione). Le corde vocali entrano allora in vibrazione senza dispersione di fiato (laringe abbassata ma non in modo forzato e muscoli del collo rilassati, labbra raccolte per consentire il rilassamento della mandibola), lo stesso suono dà al cantante la sensazione di essere decisamente "sganciato" dalla zona della gola e "agganciato" alla maschera (fra gli occhi) per tutta la lunghezza della frase da cantare. È un'operazione delicata e lunga, spesso frutto di anni, che si raggiunge più con esercizi sul "piano" che sul "forte" o sul "mezzoforte". La giusta posizione e l'aggancio sul fiato permettono di rinforzare o diminuire l'intensità del suono sulla stessa apnea, senza mai spostare né l'apertura della gola né la risonanza "in maschera" (che sarà molto alta nella testa): è la cosiddetta messa di voce, vera prova del nove della voce correttamente impostata.
Si parla, per indicare lo stesso metodo, anche di "gola aperta", ma si tratta anche in questo caso di una terminologia gergale, che non corrisponde affatto a una banale apertura della gola tramite il fiato né in inspirazione né tantomeno in espirazione. Per "gola aperta" si intende invece l'emissione di un suono che, tramite la tecnica dell'appoggio, risuoni subito "in maschera" creando nella zona posteriore una "cavità": essa può essere raggiunta più facilmente con suoni "chiusi", prime fra tutte la vocale U, o addirittura con una U a bocca chiusa. È in quella stessa posizione vibratoria che poi andranno messe tutte le altre vocali, fino alla I, che sarà la vocale più adatta a far percepire invece la cosiddetta "punta" del suono, emessa però con la gola nella stessa posizione di U. Analogamente per gli acuti, il loro corretto raggiungimento, al fine di emettere suoni ricchi di armonici, morbidi, e se necessario in piano o in pianissimo, si ottiene mantenendo la stessa posizione mentre si sale, e facendo stirare maggiormente le corde col solo aiuto del meccanismo respiratorio costale-diaframmatico, senza far intervenire muscoli del collo o facciali. L'apertura lievemente più ampia in verticale della bocca sarà solo una conseguenza della maggiore ampiezza di suono interno, che induce a mollare la mandibola, ma non è affatto con la bocca più aperta che si ottiene l'acuto, bensì con una maggiore pressione e allargamento interno del suono sul fiato e sulla gola aperta.
Cantando con la voce impostata si avverte sempre una sensazione di vibrazione, che può variare a seconda della particolare cavità che sta risuonando: normalmente è localizzata alla radice del naso, ma può anche essere nella fronte per i suoni più acuti, oppure nel petto per le note più gravi. Si può anche sentire il suono "correre" lungo il palato e premere contro gli incisivi superiori. Viceversa, le corde vocali "scompaiono" quasi, e se la tecnica è corretta non si hanno sensazioni particolari a livello delle stesse, che sono molto poco sollecitate: anzi, capita spesso che dopo aver cantato mezz'ora o più con voce impostata ci si senta la gola perfettamente riposata e fresca, pronta a ricominciare. È anche per questo che i grandi cantanti d'opera, prima di uno spettacolo, cantano buona parte dell'opera chiusi nei loro camerini.

I registri della voce
Si definisce registro vocale l'insieme delle azioni muscolari e tendinee della laringe che inducono una specifica modalità di vibrazione delle corde vocali eseguita per l'emissione di un suono, nel caso, una nota. Difatti le corde vocali vibrano in maniera diversa ed assumono posizioni differenti in relazione alla frequenza della nota emessa. L'educazione vocale intende perfezionare l'utilizzo dei registri senza alcuno sforzo. Lo studio della tecnica del canto la completa con lo scopo dell'ottimizzazione dei registri durante l'esecuzione di una "frase musicale" congiuntamente ai concetti di posizione ed appoggio descritti poco sopra.
È diffusa la suddivisione dei registri in base alla idea di risonanza della nota cantata: tuttavia questa peculiarità acustica è legata più ad un principio fisico e non ha nulla a che vedere con la modalità di vibrazione delle corde vocali. La denominazione dei registri è storicamente legata alla parte del corpo che entra in risonanza durante il canto. La vibrazione delle corde vocali sarebbe inavvertibile senza un elemento che la facesse risuonare. Se risuona la cassa toracica o almeno il mediastino, in particolare durante l'esecuzione di note di frequenza bassa, la voce si dice in registro di petto; se risuona, per note maggiormente acute, solo nella gola, si dice in registro di gola (e viene evitata assolutamente durante il canto perché produce un suono debole, stridulo e poco gradevole); se risuona in testa sfruttandone le cavità (compresi i seni nasali e frontali), durante l'esecuzione di note molto acute, si dice in registro di testa.
Poiché le azioni di muscoli e tendini sono congiunte e continue sull'estensione vocale, esiste anche una modalità intermedia tra il registro di petto ed il registro di testa detta registro misto. L'uso di un registro piuttosto che di un altro é peculiare della nota e del cantante, oltre ad essere non intenzionale ma bensì del tutto automatico e naturale.
Particolare abilità serve per passare da un registro all'altro in modo non avvertibile (possibilmente evitando il registro di gola); l'esecuzione dei vocalizzi permette di esercitarsi in questa particolarità esecutiva.
Un cantante completo è in grado di sfruttare più di una cavità per impostare la voce, ottenendo in questo modo una gamma di suoni cantabili molto maggiore. Generalmente ad essere maggiormente sfruttate sono le tre cavità principali (trachea, orofaringe e rinofaringe): ma esistono cantanti particolarmente dotati in grado di sfruttarle tutte, fino a quelle più alte, i seni frontali, ed ottenere estensioni straordinarie anche di quattro ottave cantabili.

L'articolazione delle parole
Cambiando il sistema di emissione del suono, cambia anche il modo di articolare le parole. Come abbiamo visto, la voce impostata si basa sulla risonanza e su un flusso costante d'aria: perciò è semplice emettere le vocali (tranne la a, che essendo molto aperta rende difficile mantenere la risonanza) e relativamente semplice emettere le consonanti sonore (m, n, b, ...). Diventa invece problematica l'emissione delle consonanti sorde (t, f, p, ...): la pronuncia di queste consonanti implica infatti l'interruzione del flusso d'aria, che, se compiuta bruscamente come nella pronuncia normale, provoca un durissimo contraccolpo che rischia di danneggiare seriamente le corde vocali, le quali devono assorbire tutta l'energia accumulata nella cavità risonante (chiusa dall'altro lato dai denti e dalla lingua). Per questo la pronuncia delle consonanti sorde nel canto è in realtà una non pronuncia: per esempio la c si pronuncia alla toscana, come una specie di h; la t si elide, interrompendo l'emissione del suono per un attimo ma senza accostare la lingua ai denti; la r si pronuncia sempre all'italiana, mai alla francese. Una misura della bontà della tecnica di un cantante è quanto bene riesce a far capire il testo del pezzo mentre canta.

La tecnica del canto moderno
La tecnica fondamentale del canto è la stessa sia nel canto lirico che in quello moderno: essa insegna ad utilizzare correttamente ogni voce sfruttandone appieno le possibilità ma mantenendola sempre all'interno delle caratteristiche tipiche del suo registro, che ha particolari peculiarità timbriche, estensive e volumetriche, nonché di agilità. È molto importante quindi che il cantante scelga un repertorio adatto alla propria voce, e ciò al di là della possibilità di trasportare il brano nella tonalità più comoda o di variarne l'arrangiamento per adattarlo a sé. Ciò non deve generare confusione nella classificazione delle voci: la capacità di ciascuno di cantare facilmente le note gravi della sua estensione non deve affatto costringere la voce a muoversi solo nella zona grave e tanto meno indurre il cantante a scurirla forzatamente, perché questa pratica ne riduce progressivamente la capacità estensiva verso gli acuti (e nel tempo le corde vocali si ispessiscono, similmente a come avviene nei fumatori).
L'articolazione nello stile moderno risulta alquanto differente dalla lirica: l'amplificazione rende meno pressante l'esigenza di fornire potenza sonora, a tutto vantaggio dell'intelligibilità della parola affinché il messaggio arrivi più facilmente all'ascoltatore. Per questo la tecnica del canto moderno si differenzia da quella classica soprattutto nel passaggio di registro, perché si cerca di ritardare l'intervento del registro "di testa" e di sfruttare invece appieno il registro detto "di maschera": ciò avviene eliminando il meccanismo di copertura e sostituendolo da un'apertura, benché accompagnata dal corretto movimento laringo-faringeo (tecnica dello sbadiglio).
Uno dei punti più importanti riguarda l'attacco del suono, che, anche nello stile moderno, deve attuarsi dolcemente (anche se, in maniera sporadica e soprattutto non nella zona acuta — in cui le corde sono più sottili e quindi più vulnerabili —, sono accettati degli attacchi più incisivi), sempre nell'assoluto rispetto delle caratteristiche di robustezza di ogni laringe.
Il raclage (suono sporco) viene talvolta usato per questioni interpretative in alcuni passaggi delle canzoni di stile moderno, ma non bisogna mai dimenticare i rischi di un abuso di questa pratica (scorretta dal punto di vista tecnico) a livello delle corde vocali, per la possibile insorgenza di deformazioni del bordo cordale (noduli, polipi, ecc.); un aiuto per salvaguardarle è senz'altro quello di focalizzare l'attenzione sulla gola e sul suono durante e dopo questa pratica, perché il forte calore che si avverte è un segno tangibile del livello di attrito che stiamo producendo con lo sfregamento delle corde.
La tecnica vocale nel canto moderno quindi non intende spersonalizzare il cantante o stereotiparlo in uno stile vocale ricco di virtuosismi melodici di stampo afro-americano (gospel) o jazzistico, ma mira soprattutto a diffondere la cultura della voce e a salvaguardarla nel tempo, abbandonando modelli scorretti e andando alla ricerca di uno stile personale che rispetti e si adatti perfettamente allo strumento naturale con cui siamo nati.



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Il virelai è una forma di versi impiegata spesso nella poesia e musica medievale francese. È una delle tre forme fisse usate nel periodo; le altre erano la ballata e il rondeau. Era la forma più usata nel periodo che va dal XIII al XV secolo.
Il virelai è simile al rondeau. Ogni stanza ha due rime e la rima finale della prima stanza si lega alla prima rima della seconda. La struttura musicale risulta così AbbaA con la prima e l'ultima sezione che hanno le stesse liriche; questa è la stessa forma della ballata italiana.
Uno dei più famosi compositori di virelai è Guillaume de Machaut che scriveva sia la musica che i versi; 33 sue composizioni di virelai sono pervenute ai nostri giorni. Altri compositori di virelai sono stati Jehannot de l'Escurel uno dei primi e Guillaume Dufay uno degli ultimi.
Dalla metà del XV secolo questo tipo di composizione, assieme alla ballata e al rondeau, non fu più abbinato alla musica o le musiche di queste liriche non ci sono pervenute.

Esempio
Douce Dame Jolie di Guillaume de Machaut
Douce dame jolie,
Pour Dieu ne pensés mie
Que nulle ait signorie
Seur moy fors vous seulement.
Qu'adès sans tricherie
Chierie
Vous ay et humblement
Tous les jours de ma vie
Servie
Sans villain pensement.
Helas! et je mendie
D'esperance et d'aïe;
Dont ma joie est fenie,
Se pité ne vous en prent.
Douce dame jolie,
Pour Dieu ne pensés mie
Que nulle ait signorie
Seur moy fors vous seulement.


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La rapsodia è una composizione musicale a un solo movimento, di carattere molto libero e variegato. Il termine è di origine greca ed indicava la presentazione da parte di un rhapsoidos, cantore o narratore, della parte di un poema nel corso di una narrazione epica.


Forma stilistica
Non segue uno schema fisso, ma si presenta come un insieme di spunti melodici, anche molto diversi tra di loro per ritmo e armonia, che conferisce toni quasi improvvisativi alla composizione. Poiché si presenta come una sequenza di diversi episodi musicali, la rapsodia si presta facilmente ad avere un contesto tematico fisso, i cui molteplici aspetti sono presentati dai brani in essa contenuti. Da questo punto di vista la rapsodia si può considerare simile al poema musicale. Non è inusuale che la rapsodia abbia sfondo, o tema, patriottico.
Inventore di questa forma fu Franz Liszt, che diede ad essa un carattere perlopiù virtuosistico.


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L'air de cour era un tipo di musica profana vocale molto popolare in Francia fra il tardo rinascimento ed il primo barocco 1570-1650. Questo fu il principale stile di canto profano in Francia dal 1510 al 1535 durante il regno di Luigi XIII. L'espressione emotiva dell'air de cour, comparata con i madrigali italiani, risulta fredda, classica e riservata secondo il gusto francese di quel tempo. Il registro vocale è di solito limitato ad una ottava; dissonanze e cromatismi sono rari.
L'influenza dell'air de cour si espande anche al di fuori della Francia. Raccolte vengono pubblicate in Germania e in Inghilterra dove le traduzioni erano molto diffuse come attestato da diverse pubblicazioni e copie.
L'atmosfera di queste canzoni è molto diversa dalle lute song inglesi.

Storia
La prima volta che venne usata l'espressione air de cour fu in una raccolta di musiche di Adrian Le Roy Airs de cour miz sur le luth, pubblicata nel 1571. Le prime opere di questo tipo erano per voce solista accompagnata dal liuto. Più avanti, verso la fine del XVI secolo, quattro o cinque voci - accompagnate o meno da uno strumento - erano la regola in questo tipo di composizione. Poi, verso la metà del XVII secolo le composizioni erano tornate ad essere per una sola voce accompagnata da uno strumento. A cominciare dal 1608 le raccolte di air de cour iniziarono a includere alcuni brani dei ballet de cour, una forma di ballo tipica della corte di Francia.
Dal punto di vista musicale avevano una struttura strofica ovvero sulla stessa linea di canto venivano cambiati i versi del testo. Mentre i primi lavori erano polifonici mentre dopo il 1610 la musica era prevalentemente omofonica cantata sillabando e senza seguire alcuna metrica. Esistono comunque delle raccolte che si discostano sensibilmente da questa consuetudine; molti editori nel corso del XVII secolo hanno pubblicato air de cour monofoniche accompagnate da uno strumento. Fra queste si ricorda una raccolta in otto volumi dell'editore Le Roy & Ballard.
L'air de cour, sorprendentemente, fu scarsissimamente influenzata dalla musica italiana del primo barocco impostata sulla monodia e sul madrigale oltre che sulla polifonia e il concertato. Ed è tanto più sorprendente in quanto molti musicisti italiani lavoravano in Francia e la forma polifonica e di concertato usata nei madrigali italiani aveva influenzato molto la musica in Germania.

Compositori
  • Adrian le Roy (c.1520 – 1598)
  • Nicolas de la Grotte (1530 – c.1600)
  • Jacques Mauduit (1557 – 1627)
  • Pierre Guédron (c.1570 – c.1620)
  • Antoine Boësset (1586 – 1643)
  • Étienne Moulinié (c.1600 – c.1669)
  • Jean de Cambefort (c.1605 – 1661)
  • Gabriel Bataille (c.1575 – 1630)




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La bergamasca è una danza tradizionale originaria della città di Bergamo. La sua esistenza è attestata dall'inizio del XVI secolo. Aveva un tempo di 2/4 e veniva eseguita a coppia e a tondo.

Storia
Di impiego frequente nella musica di carattere popolare, come ne Il terzo libro de intabolatura di liuto di Giacomo Gorzanis (1564) o nel terzo libro de Le Villotte del Fiore di Filippo Azzaiolo (1569), si diffuse in seguito nella composizione strumentale del XVII secolo. Se un tempo si ritenne, secondo l'affermazione di Hugo Riemann, che la prima bergamasca attestata nella musica colta fosse quella inserita nel terzo libro delle Sonate di Marco Uccellini (1642), successivamente Paul Nettl precisò che una bergamasca era già presente nel quarto libro delle Sonate di Salamone Rossi (1622). Il Nettl contestò anche l'ipotesi del Riemann secondo la quale la bergamasca derivasse dalle forme di danza su "basso ostinato".
Tra i compositori di bergamasche del XVII secolo, oltre ai già citati Rossi e Uccellini, figurano tra gli altri: gli italiani Biagio Marini, Lodovico Grossi da Viadana, Gasparo Zanetti, Bernardo Gianoncelli, Giovanni Battista Vitali, Bernardo Pasquini e Giovanni Salvatore; l'italo-austriaco Giovanni Girolamo Kapsberger; i tedeschi Samuel Scheidt che ne compose delle variazioni sul tema (1621), Dietrich Buxtehude autore di 30 variazioni per clavicembalo dal titolo La Capricciosa, e Valentin Rathgeber; e il francese Jean-Baptiste Besard che inserì una bergamasca nel suo Thesaurus harmonicus (1603). Compositori come Girolamo Frescobaldi (1635) o Giovanni Battista Fasolo (1645) abbandonarono il modello della danza semplice e crearono delle bergamasche utilizzando un contrappunto complesso. Essa fu a volte associata alla ciaccona ed alla passacaglia nella "suite di danze" barocca, come nelle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach.
Per il suo carattere vivace e saltellante, la sua abbondanza di salti e di capriole, l'attitudine del suo tema a molteplici variazioni e al suo possibile uso come "basso ostinato", la bergamasca fu spesso utilizzata nella commedia dell'arte. Con questa danza William Shakespeare concluse la commedia Sogno di una notte di mezza estate; per la quale Felix Mendelssohn comporrà in seguito eccellenti musiche di scena (Sogno di una notte di mezza estate, 1843). Molto impiegata nella composizione liutistica, tra i secoli XVII e XVIII incontrò notevole successo in Germania e in Inghilterra, fino ad influenzare la musica sia colta che popolare dei rispettivi Paesi; tanto da ritrovarla, in forma modificata, in una canzone popolare tedesca (Kraut und Rüben haben mich vertrieben) e in una canzone popolare svedese (Skära, skära havre).
Uscita di moda, nel XIX secolo la parola "bergamasca" passò ad indicare una danza diversa, di tempo 6/8, molto vivace ed abbastanza simile alla tarantella.
Ottorino Respighi trascrisse liberamente una bergamasca di Bernardo Gianoncelli e la inserì nelle Antiche arie e danze per liuto (seconda suite) del 1923. L'ultima bergamasca composta da un musicista classico risulta essere il secondo movimento di Two Pieces for Piano (1925) dell'inglese John Ireland.
Nelle composizioni di Claude Debussy (Suite bergamasque, 1905) e di Gabriel Fauré (Masques et bergamasques, 1919) la parola non indica il tipo di composizione rappresentato; è invece una citazione dalla poesia Clair de lune del poeta francese Paul Verlaine, nella quale il nome dell'antica danza serve ad evocare un'immagine poetica ed onirica. Nella composizione di Alfredo Piatti (La Bergamasca) la parola non si riferisce alla danza ma alla città di Bergamo.



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Il balletto è un particolare tipo di rappresentazione coreografica che nasce a partire dal primo Rinascimento dalle composizioni dei maestri di ballo presso le corti signorili italiane e francesi.
Con le successive evoluzioni, il termine balletto oggi comprende un'ampia varietà di rappresentazioni sceniche di un dramma visivo svolto per mezzo di danza e pantomima, spesso accompagnato da musica e interpretato da danzatori secondo una coreografia predeterminata. Comunemente con il generico termine balletto o balletto classico ci si riferisce anche al balletto moderno evolutosi dalla scuola di San Pietroburgo in particolare attraverso l'esperienza dei Ballet Russes fino alla spinta in senso più "formale" di George Balanchine, e comunque a forme di danza teatrale che utilizzano movimenti del corpo riconducibili alla tecnica accademica della danza classica.

Storia del balletto
Il Rinascimento: la nascita del balletto
Il fiorire dei commerci, l'affinarsi delle tecniche, il nuovo interesse per la cultura scaturito dall'Umanesimo provocarono nell'Italia di inizio 1400 un fiorire delle arti presso le corti nobiliari. Mentre presso le corti medioevali il prestigio era dettato dal potere militare e dai possedimenti, diventò ora importante per la classe dominante dimostrare la propria eccellenza e trasformare la corte nel teatro dove mettere in scena il proprio splendore.
In particolare le feste di corte diventarono sempre più sfarzose e fantasiose, includendo spesso anche rappresentazioni danzate nelle quali però i danzatori non erano professionisti ma nobili di corte che danzavano per piacere e dovere sociale.
In questi anni, caratterizzati da una massiccia codificazione di tutte le arti, comparve nelle corti italiane un nuovo personaggio: il maestro e teorico di danza. Alcuni nomi sono giunti a noi grazie agli scritti conservati presso le biblioteche, come Domenico da Piacenza, e i suoi allievi Antonio Cornazano (pure attivo fra Piacenza e Ferrara) e Guglielmo Ebreo da Pesaro (conosciuto anche come Giovanni Ambrogio), accomunati da una stessa visione teorica e da una stessa terminologia, tanto da poter parlare di una primitiva scuola italiana (la "scuola lombarda") che stabilisce per prima le regole tecniche, l'estetica, l'etica del danzatore:
«Il bel danzar che con virtù s'acquista
per dar piacer all'anima gentile
conforta il cuore e fal più signorile
e porge con dolcezza allegra vista.»
(Guglielmo Ebreo da Pesaro, De pratica seu arte tripudii)
Siamo di fronte a trattati sicuramente troppo complessi per un pubblico aristocratico, e presumibilmente destinati alla formazione di maestri di danza, una professione quindi già fortemente richiesta dalle corti del primo Rinascimento.

Dal ballo nobile alla danza teatrale
Domenico nel suo trattato De arte saltandi et choreas ducendi operava una prima distinzione fra bassa danza e ballo, la prima (distinguibile in bassadanza propriamente detta e quaternaria) eseguita con una tecnica che evita i salti, a contatto con il suolo e caratterizzata da un incedere grave e dal portamento nobile, il secondo (rapido e identificato da saltarello e piva) con salti e variazioni più dinamiche. Tale distinzione sarà poi ripresa, sottolineata e chiarita dal Cornazano:
«Vegnirò mo' a quelli balli et bassedançe che son fora dal vulgo fabricati per sale signorile, e da esser sol dançati per degnissime Madonne et non plebeie»
(Antonio Cornazano, Libro sull'arte del danzare)
Eseguita a partire dal XIII secolo e rimasta in voga fino alla metà del Cinquecento in Francia, la bassadanza è considerata dai trattatisti quattrocenteschi come termine di paragone per ogni altra danza. Ed è probabilmente da un passo derivato dalla bassadanza, il brando, congiuntamente alla moresca – danza guerresca di derivazione spagnola –, entrambe citate da Baldassarre Castiglione nel suo Il Cortegiano a proposito degli intermezzi di uno spettacolo rappresentato alla corte di Urbino nel 1513, che la danza cominciò ad affrancarsi dall'ambito del ballo nobiliare per divenire arte spettacolare.
Il termine balletto si comincia a usare in Italia al posto di ballo agli inizi del Cinquecento. Una prima testimonianza di messa in scena di uno spettacolo danzato legato ad un tema unitario si trova poi sempre in Italia, messo in scena durante il banchetto di nozze fra Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona nel 1489 a Tortona. La rappresentazione allegorica, realizzata a cura di Bergonzio Botta e dedicata alla esaltazione dell'amore coniugale, prende il nome di balletto conviviale e verrà imitata in molte altre corti negli anni successivi.
Le origini del balletto in Francia sono legate alla nascita del ballet de cour ad opera dell'italiano Baldassarre Baltazarini da Belgioioso. I maggiori balli in uso nel XVI secolo in Francia e in altri paesi europei sono stati accuratamente descritti nel 1589 da Thoinot Arbeau (pseudonimo di Jean Tabourot) nel suo trattato Orchésographie. Appartiene al genere delle mascherate il Bal des ardents organizzato da Carlo VI nel 1393, un particolare tipo di corteo messo in scena da nobili travestiti da personaggi storici o mitologici. Le cronache riportano che in occasione del matrimonio del duca di Vermandois il re stesso aveva messo in scena un ballo, assieme a quattro amici tutti travestiti da «uomini selvaggi», indossando costumi ricoperti di fiocchi di lino cardato; essendosi avvicinati troppo al fuoco di una torcia, i danzatori si erano trasformati all'istante in torce umane, e solo il re fu salvato dal rogo grazie al pronto intervento di una dama che con la propria gonna spense le fiamme.
In Inghilterra lo sviluppo della danza teatrale pare essere invece legato alle Masque, danze mascherate che si svolgevano durante i balli reali con la partecipazione degli stessi sovrani e che comprendevano danze, canti e recite di poesie secondo programmi e testi predefiniti (Ben Johnson all'inizio del Seicento fu autore di alcune Masque).
Parallelamente in campo musicale si assiste ad un graduale affrancamento della musica strumentale dal canto, e questa trasformazione influenza non poco anche i modi della danza che non più guidata dalle parole può divenire ritmica e sviluppare una poetica indipendente e una espressività nuova con il corpo in primo piano.
Un segno evidente della grande trasformazione che avviene nelle rappresentazioni danzate in questo periodo è la nascita delle prime "scuole di ballo nobile", scaturita anche dalla ampia diffusione dei primi trattati sulla tecnica di cui abbiamo detto sopra e dalla richiesta proveniente inizialmente dagli stessi principi e gentiluomini per non sfigurare a corte. La prima grande scuola per ballerini, venne fondata all'inizio del Cinquecento da Pompeo Diobono: da qui usciranno Ludovico Paluello, Bernardo Tetoni, Baldassarre Baltazarini da Belgioioso, Cesare Negri. Dalle scuole italiane cominciarono poi a diffondersi in tutta Europa maestri di Ballo nobile che si stabilirono presso le principali corti europee, dando inizio ad un irraggiamento delle conoscenze tecniche e teoriche di danza che non si arresterà per i successivi quattro secoli.
Nel 1602 Cesare Negri, ormai anziano, pubblicherà nel suo Le Gratie d'amore (poi ripubblicato nel 1604 col titolo Nuove inventioni di Balli) le prime norme stilistiche che si ritrovano tuttora ripetute nella tecnica accademica, fra cui la base delle cinque posizioni e l'impostazione con i piedi in fuori.

Il balletto di corte (Ballet de cour)
Caterina de' Medici, un membro della signoria di Firenze, divenne regina di Francia nel 1547 sposando il re Enrico II, ed introdusse in Francia gli stessi spettacoli che aveva conosciuto in Italia. Questi spettacoli erano allestiti da Baldassarre Baltazarini da Belgioioso ((FR) Baltasar de Beaujoyeulx) un musicista molto dotato. Egli era stato chiamato dall'Italia per diventare maestro di musica dei figli del re in Francia.
Gli storici del balletto considerano uno degli spettacoli di Belgioioso, il Ballet Comique de la Reine (orig. Balet comique de la Royne), come primo vero balletto. Era uno spettacolo sontuoso che durava circa cinque ore e mezza, rappresentato la prima volta il 15 ottobre 1581 in onore del matrimonio fra il Duca di Joyeuse[3] e Marguerite de Vaudemont, sorella della regina. Il balletto raccontava del mito antico di Circe che aveva il potere di trasformare gli uomini in bestie e includeva musica strumentale, canto, lettura di versi, danza e in cui gli stessi nobili di corte presero parte alla rappresentazione. Poiché la tecnica di danza era estremamente limitata, Baltazarini dovette ripiegare su costumi spettacolari e grandi scenografie per impressionare il pubblico. Per essere sicuro che la gente capisse la storia, egli fece distribuire copie dei versi usati nel balletto. Il balletto fu un successo enorme e fu molto imitato nelle altre corti d'Europa.
Spettacoli coreografici vennero poi rappresentati di frequente anche alla corte di Enrico III di Francia, che era stato fra gli spettatori delle messe in scena di Baltazarini, ma al tema mitologico o allegorico veniva spesso preferita una forma più leggera, il ballet mascarade, in genere parodia mimata di fatti di attualità. Pare che alcune creazioni siano poi state realizzate a scopi di propaganda dallo stesso cardinale Richelieu, come ad esempio il Ballet de quatre monarchies chrétiennes (1635) e il Ballet de la prosperité des armes de France (1641), il che testimonia la popolarità già raggiunta allora dal balletto.
In Italia la Corte dei Medici risultava ai tempi piuttosto attiva, sotto la guida del coreografo Angelo Ricci. Fra gli spettacoli, ispirati in genere a quei temi propri dell'Umanesimo che era stato fonte ispiratrice delle origini, si cominciarono a trovare sempre più spesso balletti con cavalli in scena, probabile eredità dei tornei medievali. Questo genere equestre verso la fine del Cinquecento trovò sempre più larga fortuna specie in Francia e a Vienna, oltreché Firenze. L'esempio più eclatante fu la messa in scena a Vienna nel 1667 di La contesa dell'aria e dell'acqua, a cura dell'italiano Alessandro Carducci.
A fianco di Firenze, anche Torino è particolarmente attiva attorno alla metà del Seicento, sotto la guida del conte Filippo d'Agliè di San Martino, autore di balletti e caroselli molto apprezzati anche in Francia.

Il Seicento: lo sfarzo e lo splendore
La scena del balletto barocca
Agli splendori paesaggistici che architetti come Bernini e Borromini allestivano per la scenografia della Roma papale corrispondeva un gusto dominante per lo spettacolare anche nelle rappresentazioni teatrali. Ancora Firenze era uno dei principali centri creativi e di sperimentazione, e qui a metà del Cinquecento si sperimentavano le prime scenografie mobili, che vennero ben presto migliorate e usate con grande successo determinando una esaltazione della scena a discapito della rappresentazione. Gli scenografi teatrali italiani trionfarono in tutta Europa: Ferdinando Bibiena incantava Vienna, Giacomo Torelli prima e Gaspare Vigarani poi guidavano il gusto parigino, ma prima di loro Ludovico Burnacini con le fantastiche macchine teatrali allestite per le opere monteverdiane e gli sfarzosi costumi evocativi di terre lontane e di inferni ammonitori aveva inaugurato l'era barocca a teatro. La danza in Italia restava quindi confinata al suo ruolo di intermezzo, in particolare all'interno del melodramma, non riuscendo a imporsi autonomamente.
La Francia parve invece preferire una sua strada ancora legata ad una danza lenta e solenne. I maestri italiani, dopo che Milano, il centro italiano della danza, venne conquistato nel 1515 dalle truppe di Francesco I, cominciarono a trasferirsi nel nord Europa. Su richiesta del re lo stesso Pompeo Diobono lasciò Milano nel 1554 per recarsi in Francia presso la corte di Enrico II prima, Carlo IX e Enrico III poi.


Luigi XIV: Il balletto reale
Il Ballet Comique de la Reine sancì Parigi come capitale del mondo del balletto. Fu così quindi che il balletto, benché nato in Italia, divenne poi un'arte squisitamente francese.
Il grande sostenitore di quest'arte fu re Luigi XIV (1638-1715) detto Re Sole. Egli amava molto danzare e prendeva parte ai balletti dati dalla sua corte ma si fermò quando il fisico gli impedì di continuare a danzare. Ancora oggi nella tecnica accademica esiste un passo da lui eseguito chiamato in suo onore Entrechat Royal.
Nel 1661 Luigi XIV fondò l'Accademia Reale di Danza con lo scopo di preparare ballerini che si esibissero per lui e la sua corte, dando così inizio alla prima accademia di danza dedicata alla formazione professionale dei ballerini. Seguendo l'esempio di Luigi XIV, in tutta Europa iniziarono a svilupparsi simili compagnie. Una di queste fu l'Accademia Imperiale del Balletto di San Pietroburgo, la cui scuola fu fondata nel 1738 e che diventerà nell'Ottocento la capitale mondiale del balletto classico grazie a maestri come Enrico Cecchetti e Marius Petipa. I ballerini francesi diventarono così bravi che iniziarono ad esibirsi pubblicamente nei teatri. All'inizio tutti i danzatori erano uomini e le parti da donna venivano eseguite en trevesti. I danzatori del XVIII secolo erano coperti da maschere, indossavano grosse parrucche e scarpe col tacco. Le donne indossavano gonne larghe e lunghe, strette nei loro corpetti. Le due migliori ballerine francesi dell'epoca, Marie Camargo e Marie Sallé rivoluzionarono il mondo della danza, introducendo scarpe senza tacco, accorciando le gonne rendendole meno ingrombranti e abbandonando le maschere.

La riforma del balletto: il "ballet d'action"
Nella seconda metà del Settecento, il francese Jean-Georges Noverre e l'italiano Gasparo Angiolini elaborarono e teorizzarono una profonda riforma del balletto, diretta a emancipare la danza dalle altre forme sceniche (canto e declamazione), alle quali era sempre collegata (e subordinata) negli spettacoli teatrali, e ad affidare ai balletti il compito di narrare autonomamente delle vicende drammatiche, con l'espressività dei gesti danzati e il ricorso alla pantomima.

Il balletto romantico
Il Romanticismo fu una corrente artistico-letteraria che si diffuse in tutta l'Europa in maniera uniforme a partire da Regno Unito e Germania. Chi si riconosceva nel movimento romantico dichiarava una ribellione alle regole del classicismo antico, in particolare come reazione al manierismo caratteristico del Settecento, dichiarando l'intenzione di indagare più profondamente nell'animo umano. Da qui una grande attenzione per l'occulto, la magia, il soprannaturale, l'esotico, il distante nel tempo e nello spazio. La Francia, e in particolare il Teatro de l'Opéra di Parigi, divenne il luogo d'eccellenza del balletto, fungendo da esempio per il resto dell'Europa. Fu in Francia infatti che venne creato il balletto considerato punto di partenza del romanticismo nella danza: La Sylphide danzato da Maria Taglioni su coreografie del padre Filippo Taglioni (1832). La trama rifletteva in pieno i temi cari al romanticismo: l'amore impossibile tra un uomo e uno spirito, l'ambientazione in Scozia, magie e spiriti danzanti (le silfidi appunto). La Sylphide diventò il prototipo di molti altri balletti basati sullo stesso tema tra i quali il più celebrato fu Giselle (1841), che immortalò un'altra grande ballerina, Carlotta Grisi, e si distinse per il libretto creato da Théophile Gautier e le musiche composte da Adolphe Adam.
Il pubblico accorreva a questi balletti grazie anche alla curiosità generata dai nuovi costumi teatrali e dalle nuove tecniche di danza.
Le gonne diventavano più leggere e più corte, si usavano le scarpe da punta per sottolineare il distacco della ballerina dal mondo terreno e apparve il tutù (inventato da Eugéne Lamy proprio per La Sylphide).
La danza maschile perse gradualmente la sua supremazia. Vennero creati ruoli incentrati sulla ballerina eterea e romantica, le donne dominavano la scena, gli uomini furono messi in ombra e relegati al ruolo di partner, diventando semplici porteur. Spesso i ruoli maschili venivano interpretati da danzatrici en travesti, come ad esempio accadde per il ruolo di Franz nella prima rappresentazione di Coppélia (1870).
Alla fine dell'Ottocento, il ruolo de l'Opéra di Parigi perse il predominio e il balletto romantico rinacque a nuova vita e in tutto il suo fasto nelle creazioni dei grandi balletti narrativi di Marius Petipa, coreografo dei Balletti Imperiali presso la corte russa. Questi balletti, capisaldi della danza arrivati fino ai giorni nostri, trattano di racconti fiabeschi, fantastici o esotici, come Il lago dei cigni, La bella addormentata, Lo schiaccianoci (tutti con la musica di Pëtr Il'ič Čajkovskij), o come La Bayadère (musica di Ludwig Minkus).

Il balletto imperiale russo
La nascita del balletto russo coincide con la fondazione dell'Accademia di Danza presso il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo nel 1738, diretta dal Maestro francese Jean-Baptiste Landé durante il regno della zarina Anna di Russia (1693-1740). Quando, nel 1762, Caterina la Grande salì al trono, la sua festa per l'incoronazione fu un imponente spettacolo di danza per il quale furono impiegate circa 4000 persone. Vennero invitati dall'Italia e dalla Francia maestri di balletto per organizzare l'evento. Caterina II contribuì in maniera determinante allo sviluppo della danza in Russia. Chiamò i migliori coreografi dall'Europa ad insegnare nell'accademia. Il primo di questi fu Charles Didelot, nato in Svezia ma educato in Francia. Insegnò a San Pietroburgo dal 1801 al 1811 e dal 1816 al 1837. Poi fu la volta di Jules Perrot da Parigi che restò in Russia dal 1851 al 1858. A lui succedette Arthur Saint-Léon dal 1859 al 1869. Fu poi la volta del maestro dei maestri, il francese Marius Petipa che diresse i balletti imperiali per circa un trentennio creando i più grandi capolavori della storia del balletto tra cui: La bella addormentata (1890), Il lago dei cigni (1895, in collaborazione con Lev Ivanov) e Lo Schiaccianoci (1892), la cui coreografia si deve però a Lev Ivanov. Figlia di tutto ciò è anche una tra le più prestigiose scuole di balletto della Russia: la scuola del Teatro Bol'šoj di Mosca.

Il balletto nel XX secolo
Petipa creò più di 50 coreografie per i Balletti Imperiali. Alla fine la sua formula rischiava di esaurirsi e di diventare un vuoto contenitore per dimostrare la bravura della ballerina o del ballerino. Nel 1909, un impresario russo che non sapeva nulla di danza ma molto di come si produceva uno spettacolo di successo, Sergej Djagilev, fondò i Ballets Russes nei quali l'unione di pittura, musica e danza costituiva l'elemento portante.
I Ballets Russes spopolarono in Europa e misero in luce personalità della danza importantissime quali: Anna Pavlova (ballerina), Vaslav Nijinsky (ballerino e coreografo), Michel Fokine (primo coreografo della compagnia), George Balanchine che influenzerà in modo determinante la danza classica americana.
La compagnia si sciolse alla morte di Djagilev nel 1929. I danzatori e i coreografi si unirono ad altre compagnie in molte parti del mondo influenzando il balletto in modo determinante ovunque essi andassero.

Terminologia
Passo d'addio
Nella tradizione italiana del balletto passo di addio è detto il saggio finale degli allievi che lasciano la scuola di danza, oppure per i ballerini che vengono licenziati da un grande teatro.