Nel mondo del cinema c’è un paradosso curioso: alcuni dei
momenti più iconici della storia hollywoodiana sono stati girati da
attori che inizialmente non sapevano ballare. Per il pubblico tutto
sembra naturale, fluido, inevitabile. Ma dietro quelle scene, spesso
perfette e immortali, si nasconde una quantità enorme di sudore,
frustrazione, fatica e disciplina.
E tra tutti gli esempi celebri,
quello di Debbie Reynolds in Singin’ in the
Rain rimane probabilmente il più emblematico — e il più
toccante. Ma la sua non è l’unica storia di determinazione
testarda che ha trasformato interpreti “normali” in danzatori
credibili, a volte persino straordinari.
Di seguito esploriamo proprio questo: il lato nascosto della danza cinematografica, quegli attori che hanno sofferto, pianto, sanguinato e lottato, ma che alla fine hanno trasformato un limite in un trionfo artistico.
Debbie Reynolds aveva solo 18 anni quando venne
scelta per uno dei musical più leggendari della storia del cinema.
La MGM la voleva come coprotagonista accanto a Gene Kelly
e Donald O’Connor, due titani della danza e del
musical classico.
C’era un microscopico problema: Debbie
non era una ballerina.
Era una cantante, una performer brillante, ma priva del training tecnico necessario per stare al passo con due geni coreografici. Gene Kelly, perfezionista rigoroso e spesso severo, non la risparmiò: la criticava in continuazione, la spingeva oltre il limite, e a volte si dice che divenisse addirittura duro nelle sue osservazioni. Debbie voleva farcela, ma si scontrava con una montagna.
Il momento più drammatico avvenne quando la giovane attrice,
consumata dalla pressione, si nascose dietro un pianoforte sul set e
scoppiò a piangere disperata.
Ed è qui che entra in scena una
figura quasi mitologica: Fred Astaire. Passò
davanti a lei, la vide in quello stato, capì immediatamente cosa
stava vivendo e le dedicò del tempo. Le spiegò che perfino lui, il
più elegante ballerino della storia del cinema, a volte faticava a
imparare i passi.
Quell’incoraggiamento fu la scintilla: Debbie si rimise al lavoro. Lavorava fino a sanguinare dai piedi — letteralmente — e Gene Kelly, pur duro, non poté ignorare che non mollava mai. Alla fine girò le sue scene, comprese quelle più tecniche come i numeri di gruppo e la famosissima Good Morning, in cui doveva reggere il ritmo di due fuoriclasse.
Anni dopo dichiarò:
“Le due cose più difficili che abbia mai fatto nella mia vita? Partorire… e Singin’ in the Rain.”
Il risultato: una performance impeccabile, oggi considerata una gemma del cinema musicale.
A differenza di Debbie Reynolds, Patrick Swayze era già un danzatore di formazione classica, ma ciò non significa che girare Dirty Dancing sia stato semplice. Anzi.
Swayze soffriva da anni per un grave infortunio al ginocchio, e i movimenti richiesti dalle coreografie erano spesso devastanti per lui. La scena del celebre lift in acqua, ad esempio, fu girata in condizioni climatiche difficili, con acqua gelida che peggiorava l'infiammazione alle articolazioni.
Eppure Swayze non mollò.
Pare che insistesse per ripetere
alcune scene anche quando tutti gli altri erano pronti a passare
oltre, semplicemente perché “non erano perfette”.
A complicare le cose, c’erano le tensioni sul set con Jennifer Grey: chimica sullo schermo, antipatie fuori. Eppure proprio quelle frizioni contribuirono a creare uno dei duetti più iconici del cinema moderno.
Il famoso combattimento con centinaia di Agent Smith nel secondo film della trilogia Matrix è spesso considerato un balletto di arti marziali. E non è un caso: la logica delle coreografie era vicinissima a quella della danza classica, con movimenti codificati, fluidità necessaria, e un’attenzione millimetrica al ritmo.
Il problema? Keanu Reeves aveva subito un intervento alla
schiena poco prima delle riprese. Molti dei movimenti —
calci alti, torsioni, salti — gli erano praticamente proibiti dai
medici.
Ma Keanu non è tipo da arrendersi.
Allenamento quotidiano, fisioterapia, stretching continuo.
E
alla fine realizzò ciò che doveva fare, seppure con enormi
difficoltà.
Il risultato è una sequenza incredibile, ancora oggi analizzata nei corsi di regia e coreografia.
Quando Damien Chazelle iniziò La La Land, aveva un’idea chiara: voleva due attori emozionanti, capaci di recitare con sincerità e stile retrò. La soluzione era semplice… o forse no: Ryan Gosling e Emma Stone non erano ballerini professionisti.
Il loro percorso di preparazione fu molto più simile all’allenamento di due principianti che a quello di due star hollywoodiane.
Ryan Gosling dovette imparare ore e ore di routine coreografiche
e, parallelamente, studiare pianoforte per ottenere la credibilità
necessaria nel ruolo di Sebastian.
Emma Stone faticava nella
coordinazione e all’inizio era convinta di “non essere portata”.
Ma entrambi avevano una cosa che i coreografi amano:
determinazione e spirito collaborativo.
Non
volevano sembrare ballerini perfetti, ma persone reali che danzano
per entusiasmo e passione.
Ed è proprio questa imperfezione controllata che ha dato al film quell’atmosfera magica, sospesa tra nostalgia e romanticismo moderno.
Natalie Portman vinse l’Oscar per Black Swan, ma ciò che il pubblico vide sullo schermo era solo la punta di un iceberg fatto di sacrifici.
Portman iniziò un programma di allenamento ossessivo:
5 ore al giorno di danza
dieta ferrea
studio continuo dei movimenti delle ballerine professioniste
mesi di preparazione prima ancora di iniziare le riprese
Il suo corpo cambiò, la postura cambiò, perfino il modo in cui camminava cambiò.
Molti passi più complessi furono realizzati da una controfigura professionista, come è normale in questi casi, ma la trasformazione personale e fisica di Natalie fu così radicale da rendere il personaggio assolutamente credibile.
Richard Gere aveva zero esperienza nella danza jazz e nelle
coreografie teatrali di Bob Fosse.
Quando lo scritturarono per
Chicago, la produzione era preparata all’idea che avrebbe
fatto più fatica degli altri.
E avevano ragione.
Gere raccontò che i primi giorni erano un disastro: si confondeva, perdeva i tempi, inciampava in se stesso. Ma non mollò.
Si esercitò come un ossesso e alla fine la sua performance in Razzle Dazzle è diventata una delle più iconiche di tutto il film. Quel mix di ironia, sprezzatura, ritmo e teatralità sembra naturale… ma lo è soltanto perché Gere ci ha lavorato fino allo sfinimento.
Quando guardiamo un musical, o una coreografia perfetta sul grande
schermo, è facile dimenticare quanto lavoro ci sia dietro. La danza
è un’arte brutale, complessa, spesso crudele. Non perdona la
stanchezza, non ammette scorciatoie.
Eppure è proprio per questo
che le storie degli attori che hanno lottato — e vinto — ci
affascinano così tanto.
Debbie Reynolds, con i piedi sanguinanti e il cuore spezzato, è forse l’immagine più potente: una ragazza che non era nata ballerina, ma che ha conquistato un posto nella storia della danza cinematografica con nient’altro che determinazione.
Lei, come Patrick Swayze, Natalie Portman, Keanu Reeves e tanti
altri, dimostra una verità semplice:
non sempre vincono i
più talentuosi. Spesso vincono i più ostinati.
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