Perché essendo la creatività una attività di nicchia e poco conosciuta, esiste purtroppo un divario di competenze 'assoluto' tra chi crea e chi non crea. E quindi, a volte è meglio tapparsi un pochettino la bocca, se non si vuole andare a mettere in discussione credenze cui l'altra persona crede… Da troppo tempo, per non restare scandalizzata.


E' un discorso lungo, e spero di non annoiarvi.
Io scrivo romanzi di genere da quando avevo 14 anni (adesso ne ho 42) e mi hanno fatto spesso questa domanda. Il più delle volte, mi hanno fatto la domanda quasi pretendendo una certo tipo di risposta, e restando poi delusi da quella che ricevevano.
Regnano infatti sovrani (e direi 'assolutamente sovrani') ben due luoghi comuni che QUASI NESSUNO accetta di mettere in discussione.
Metterli in discussione suona quasi come una offesa personale, a volte. E quindi, quando capisco di essere di fronte a una di queste persone… glisso anch'io abilmente sulla risposta dando risposte standard. Ad ogni modo, i luoghi comuni 'assolutamente universali' in materia di creatività sono i seguenti:
  1. creare (scrivere musica, romanzi, eccetera) sarebbe una una sorta di magia ai limiti del paranormale.
  2. siccome 'creare davvero' sarebbe in sostanza impossibile, l'ispirazione verrebbe SEMPRE e SOLO da quelli che io chiamo 'i caXXi propri'. In sostanza, l'ispirazione verrebbe sempre e soltanto dalla propria vita, dai propri desideri, dai propri interessi, eccetera.
In sostanza, chi NON è un artista vede in genere gli artisti come un gigantesco spot mediolanum dove 'ruota tutto intorno a te'. O peggio ancora, tutte e due le cose assieme: gli artisti sono degli stregoni e ruota tutto intorno a loro (!!!).
Ma perché regnano sovrani questi due luoghi comuni?
Bé… Io una teoria ce l'ho.
Secondo me, sarebbe a causa del Dunning Kruger effect, un fenomeno psicologico che si è trovato recentemente alla ribalta sui social e su internet perché… Perché se lo merita.
E se lo merita perché spiega davvero un sacco di cose meravigliose tra cui i terrapiattisti, i no vax eccetera. E nel nostro caso, torna utile senz'altro.
Supponiamo per un attimo che sei un giornalista.
Non hai mai inventato una sola trama in vita tua perché, notoriamente, il mestiere del giornalista è in realtà trovare notizie (che è tutt'altra cosa dal fare lo scrittore).
La tua conoscenza delle basi della scrittura creativa allora è probabilmente pari a zero, e in Italia in particolare è sotto zero. Nei paesi anglosassoni - per chi non lo sapesse - insegnano almeno le basi della scrittura creativa fin dalle scuole medie (introduzione dei personaggi, i tre atti della storia, scrittura dei dialoghi, gestione del ritmo della narrazione). Ma in Italia, sulla creatività letteraria regna una ignoranza pressoché assoluta proprio per questa visione 'mistica' della creatività.
Adesso prendiamo chessò… Gli indigeni dell'amazzonia. Che succede quando vedono un cellulare per la prima volta nella sua vita?
Pensano che sia una stregoneria.
Di fronte alle cose che per noi sono del tutto incomprensibili, noi tendiamo a pensare che dietro ci sia un miracolo, della magia, eccetera. Non sapendo cos'è la creatività perché non ci abbiamo mai avuto a che fare, tendiamo 'naturalmente' a pensare che sia di origine paranormale (cosa che non è). Oppure - peggio ancora - pensiamo che sia il frutto di un trucco: ovvero, rielaborare i cavoli nostri.
E siccome le persone che non sanno NULLA di un certo argomento tendono tutte ad avere la stessa opinione su quel determinato argomento, ecco che in genere i giornalisti vanno a fare sempre le stesse domande agli artisti, e quasi pretendono di avere una conferma di ciò che pensano da tanti anni.
Volete sentire la mia risposta a dove trovo l'ispirazione, quando scrivo?
Si trova in tantissimi modi, tutti diversi tra loro.
Leggendo tanti libri su un certo argomento (chessò, la guerra sul Vietnam, l'esplorazione spaziale, eccetera), presto o tardi ti verrà un'idea originale a sufficienza da scriverci un ottimo romanzo su. Per le notizie di attualità dal mondo, vale lo stesso principio.
Poi ci sono le idee 'dal nulla', quelle che partono da situazioni standard (una casa infestata, vendere l'anima al diavolo per avere successo, eccetera).
Poi c'è il fantasy (inventarsi un futuro palesemente diverso dal presente attuale, o una realtà alternativa, eccetera).
I veri fulmini a ciel sereno, però, mi vengono solo mentre sto scrivendo qualcos'altro, e quelli non si razionalizzano.
La scrittura è il mezzo di brainstorming più potente che esista, e le idee migliori della mia via mi sono sempre venute scrivendo robaccia per esercizio, destinata al cestino.
Detto questo, partire dalla mia vita personale per scrivere qualcosa…
Sinceramente non mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello. Ho un culto della creatività troppo marcato per romanzare cose che mi sono successe veramente. Sarebbe un 'trascrivere', non uno scrivere. Non sarebbe creare, ma rielaborare, remixare, edulcorare, eccetera.
Senza dimenticare la creatività assoluta, quella che consiste nell'abbandonare il punto di inizio della trama… Per andare OVUNQUE essa ti porti, fregandotene letteralmente delle conseguenze TRANNE portare a termine ciò che hai inziato.
In sostanza, si tratta di fingere che la tua storia sia una storia 'vera', e di riuscire a farlo anche se sai benissimo che non lo è. Si tratta di andare ovunque ti portino quei personaggi e quella storia, senza pensare nemmeno a scrivere un buon romanzo, ma focalizzandoti SOLO sulla fedeltà all'idea originale (e sul portarlo a TERMINE).
Questo si può (e si deve) fare anche col fantasy.
'Se quel mondo esistesse veramente, e se quei personaggi fossero persone vere che ci vivono veramente... Cosa succederebbe adesso? Come si comproterebbero adesso?'.
Questo è il mio modo di scrivere.
Ma se devo essere sincero, ho visto storcere il naso di fronte a queste mie uscite talmente tante di quelle volte, che spesso adesso glisso anch'io sulla domanda, quando me la fanno.



Elvis in realtà era biondo! Iniziò a tingere i capelli di nero corvino perchè in quegli anni essere biondi significava essere frivoli e poco virili. Si dice che avesse una vera e propria mania per la cura dei capelli, tanto che, quando era ancora in vita, avrebbe lasciato disposizioni di essere esposto nella bara con i capelli curati e tinti alla perfezione.




Coppa Italia, Sylvestre sbaglia l'inno di Mameli e viene attaccato ...



Emozione e agitazione
A me una volta è successo di non ricordare in che anno siamo. Ho dovuto controllare sul telefono.
Ma la cosa più interessante secondo me, non è che abbia avuto un'esitazione durante una perfomance, ma quanto letame hanno tirato contro questo ragazzo alcune persone.
Ovviamente in Italia puoi dare degli inferiori ai meridionali, che fino a prova contaria sono italiani
Puoi dire che "Roma" capitale d'Italia è "ladrona"
Puoi dire che se non aiuti il Sud "questi esondano al Nord"
ma guai a confondere le strofe dell'Inno, perché altrimenti i patrioti improvvisati si risentono.
Ovviamente il povero Sergio Sylvestre ha anche l'aggravanete di essere nero e americano e quindi sia mai che si possa tollerare il fatto che sbagli il nostro inno.
Poi va beh
Poco conta che fino a pochi anni fa neanche i calciatori nati e cresciuti in Italia, bianchissimi di carnagione, si prendevano la briga di impararlo quando andavano a rappresentare l'Italia ai mondiali e che se non fosse stato per Benigni che lo ha spiegato a San Remo, tutti dicevano "stringiamoci a corte" e non "stringiamoci a coorte". Ovviamente molti neanche sanno cosa sia una coorte, ma si incavolano così tanto quando gli sbagli l'inno.
Ma poi che dirà mai questo inno?
Fratelli Italiani giusto?
No?!
Ah… dice "Fratelli d'Italia"
Un ragazzo che visita l'Italia a 22 anni, che decide di viverci e che accetta di mettere a disposizione il proprio talento artistico per cantare l'inno di una terra non sua, ma che l'ha accolto, può essere definito un fratello d'Italia?
Ah no
È nero





Alla sua prima uscita nelle sale nel 2001 fece poco più di mezzo milione di dollari.
Complice il passaparola, tornò in sala nel 2004 con grande successo, divenendo un cult.


Personalmente non ho dubbi: l'editor.

Mi riferisco in particolare a quei professionisti dell'editoria che prendono un testo grezzo e lo trasformano nella sua versione definitiva e "vendibile". Non pensate infatti che un libro che esce dalla penna arrivi così automaticamente in tipografia. Manco per sogno. L'editor è un professionista che lavora sul testo, che conosce molto bene l'autore e che è in grado di modificare, armonizzare, integrare, sfoltire un testo per renderlo definitivo.

Io ho lavorato con tre editor e ciascuno di loro ha fatto lavori egregi, aiutandomi a ridefinire il testo come da solo non sarei stato in grado di fare. A seconda dell'autore e del tipo di intervento, l'editor può limitarsi a tagliare e modificare, oppure perfino scrivere delle parti integrative (che dovrebbero sempre essere sottoposte al vaglio finale dell'autore).

Quando l'editor scrive più dell'autore, iniziamo a sconfinare nel ghost writer di cui si avvalgono molti illustri personaggi per scrivere libri che da soli non sarebbero in grado di scrivere.

Ogni volta che andate in libreria e vedete un libro scritto da qualcuno che non è uno scrittore, sappiate che dietro c'è sempre la mano di un professionista. A volte la mano po' esse piuma, altre volte po' esse fero. A seconda dell'autore. Né Diletta, né Taylor, né altri VIP che non scrivono si svegliano la mattina con la vena di scrittore e fanno tutto da soli, ma hanno un team alle spalle che li supporta. Attenzione: non sto dicendo che questi libri non li abbiano scritti loro, ma che dietro ogni libro c'è una professione oscura e sconosciuta che raramente si conosce, ma che chiunque legge un libro, bene o male … incrocia!






La domanda ha una risposta complessa a seconda che la si consideri dal punto di vista della produzione cinematografica italiana oppure statunitense. Le regole sono diverse come sono diversi gli organismi che sovraintendono alla correttezza dell’uso di tali definizioni (Ministero Beni Culturali e Turismo - MiBACT, in Italia, Producers Guild of America - PGA, negli Stati Uniti).

Premetto pertanto che la risposta sarà lunga, ma preferisco fare chiarezza in tanti fraintendimenti che spesso circolano nel settore.

Alcuni titoli infatti (produttore esecutivo, produttore associato, ecc.) assumono significati diversi a seconda dell’ambito in cui vengono utilizzati.


In Italia:

In Italia, il produttore di un film ai sensi dell’art. 45 della L. 22 aprile 1941 n. 633 (Legge sul Diritto d’Autore) è colui che “ha organizzato la produzione stessa”. Si presume produttore chi sia indicato nei titoli della pellicola cinematografica o che sia registrato come tale al Pubblico Registro Cinematografico, il registro in cui vengono registrati tutti i film di produzione ufficiale italiana (la cui produzione sia stata comunicata al Ministero del Beni Culturali e del Turismo attraverso la c.d. “Denuncia di Inizio Lavorazione”, in gergo “D.I.L.”).

“Organizzare la produzione” significa che il produttore debba:

  • occuparsi dell’acquisizione dei diritti d’autore appartenenti ai quattro autori dell’opera cinematografica (ai sensi dell’art. 44 della Legge sul Diritto d’Autore), ovvero autore/i del soggetto, autore/i della sceneggiatura, autore/i della regia (regista/i) e compositore/i della colonna sonora;

  • occuparsi del finanziamento del film, vale a dire:

    • determinare il budget (costo del film);

    • determinare il piano finanziario, ovvero identificando le fonti di finanziamento (risorse proprie, investitori, finanziamenti bancari, crediti d’imposta, contributi regionali, prevendite di diritti cinematografici all’estero ed in Italia, ecc.);

    • determinare il cash-flow, della produzione, ovvero come e quando le singole voci di finanziamento entreranno in cassa e come e quando verranno spese;

  • occuparsi della produzione del film: contrattualizzando il produttore esecutivo (v. oltre), il regista (per la sua prestazione, ulteriore rispetto all’acquisto diritti di cui sopra), il direttore della fotografia, il compositore delle musiche (come sopra per il regista), il capo costumista, il capo scenografo, gli attori principali, i capi reparto, prendendo accordi per l’accesso a determinate locations, ecc. In una parte di questa attività il produttore è coadiuvato dal produttore esecutivo (v. oltre);

  • occuparsi della distribuzione del film, quantomeno nella parte iniziale, consistente nell’identificare il distributore nazionale (che si occuperà poi della distribuzione del film in sala e della negoziazione con gli esercenti delle sale cinematografiche) e negoziare il relativo contratto di distribuzione, e negoziare i diritti del film per l’estero (direttamente con acquirenti stranieri o affidandosi a un agente di vendita o sales agent);

Al produttore spetta l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica del film, vale a dire lo sfruttamento cinematografico dell'opera prodotta (art. 46 Legge sul Diritto d’Autore).

Il produttore può produrre il film da solo oppure insieme ad altri produttori che possono partecipare sia al solo finanziamento del film, sia coadiuvare il produttore nelle sue attività. In tal caso di parla di produttori associati o co-produttori. Solitamente questo ultimo termine viene utilizzato nel caso di co-produzioni internazionali, ove due o più produttori appartengono a nazioni diverse. Trattati internazionali (trattati bilaterali sulle co-produzioni) o convenzioni (es: Convenzione Europea sulle Coproduzioni - Strasburgo 1992) consentono alle co-produzioni di ottenere particolari vantaggi finanziari (contributi da fondi nazionali e internazionali per le co-produzioni, fondi MEDIA, Eurimages, ecc.). Quando più co-produttori devono produrre insieme un film, nominano fra loro un produttore delegato, ovvero colui che fra i co-produttori porterà avanti effettivamente la produzione, incaricando un produttore esecutivo.

L’attività effettiva di produzione viene infatti solitamente affidata a un produttore esecutivo. Il produttore esecutivo segue (esegue, da qui il termine “esecutivo”) le indicazioni del produttore ed è specializzato nel gestire le riprese vere e proprie del film, contrattualizzare gli attori minori, le maestranze, i fornitori, ecc. A volte lo stesso produttore svolge anche il ruolo di produttore esecutivo, tuttavia, nelle produzioni più importanti, i due ruoli sono distinti.


Negli Stati Uniti:

La figura del producer anglosassone ricalca, più o meno, quella del produttore di stampo italiano, con la differenza che mentre in una società di produzione italiana vi è solitamente un produttore, nelle società di produzione anglosassoni (più grandi e strutturate) possono esserci più produttori, ciascuno responsabile di uno specifico progetto produttivo.

Inoltre, acquisiscono il titolo di producer (e la menzione “produced by”) anche quelli che in Italia vengono chiamati produttore associato e co-produttore (sono in effetti produttori di pari grado del producer).

Il produttore esecutivo italiano è invece - nella prassi e nel linguaggio anglosassone - definito come line producer, ovvero produttore di [prima] linea”, nel senso che - con una terminologia quasi militare - il suo lavoro consiste, seguendo (eseguendo) le indicazioni del produttore, nell’occuparsi della prima linea di fuoco, della trincea, svolgendo dunque il ruolo del produttore esecutivo (italiano).

Viceversa, l’ executive producer NON È un produttore esecutivo. L’ambiguità della traduzione è determinato da ciò che in linguistica viene definito un caso di “falsi amici” o “false friends”: termini che suonano nello stesso modo ma hanno significati diversi in due lingue diverse (si pensi al significato di “bravo” in italiano, diverso dal significato nella lingua spagnola, ove significa “selvaggio”).

Mentre infatti in italiano “esecutivo” ha il significato di “che ha la facoltà di eseguire (…) che attende all’esecuzione, che si limita ad eseguire” (Diz. Treccani), in inglese il termine ha un significato più ampio ed elevato di “a person with senior managerial responsibility in a business organization” (“una persona che ha responsabilità di gestione superiore in una struttura aziendale”). Per questo motivo, nel mondo anglosassone, l’Executive Vice President è superiore al Vice President, ecc.

L’executive producer (in breve: EP) è solitamente un soggetto diverso dal producer e si occupa di affiancare il producer occupandosi alcuni specifici aspetti della produzione: reperire, ottimizzare, strutturare i finanziamenti e/o la struttura legale della produzione (EP in charge of financing, EP in charge of legal) oppure alcuni aspetti creativi come il reperimento dei diritti o la gestione del talent pool (regista, attori, ecc.) tramite, solitamente, una grande attività di relazione (EP in charge of creative, anche definito come creative producer).

Alcune volte, il titolo viene dato a chi sia stato in qualche modo “determinante” per il film: ad es. a chi abbia assicurato l’acquisto dei diritti necessari a produrre il film (si pensi alle grandi “franchise” come Star Wars, James Bond, Harry Potter, ecc.), oppure a chi abbia fornito una parte rilevante del finanziamento (si pensi ai gestori di fondi, ecc.).

Secondo le regole della PGA (Producer’s Guild of America, il sindacato dei produttori), può essere infatti definito “executive producer” colui che:

has made a significant contribution to the motion picture and who additionally qualifies under one of two categories:

  • Having secured an essential and proportionally significant part (no less than 25%) of the financing for the motion picture; and/or

  • Having made a significant contribution to the development of the literary property, typically including the securement of the underlying rights to the material on which the motion picture is based.

(“ha fornito un contributo significativo alla produzione del film e ulteriormente si qualifica in base ad una delle seguenti categorie:

  • ha assicurato alla produzione una parte essenziale e significativa (non inferiore al 25%) del finanziamento del film, oppure

  • ha fornito un contributo significativo allo sviluppo della proprietà letteraria, tipicamente assicurandosi i diritti [letterari o di altro tipo] sui quali il film si fonda.”)

In Italia non vi è alcuna figura che corrisponda all’executive producer, il che spesso crea problemi non solo nella traduzione dei titoli ma anche nell’attribuzione dei ruoli ufficiali in caso di co-produzioni internazionali (spesso viene erroneamente tradotto come produttore esecutivo o, viceversa, il produttore esecutivo viene tradotto come executive producer nei titoli inglesi).

A fianco del producer possono anche essere riconosciute altre posizioni, quale quella dell’associate producer (diverso dal produttore associato italiano che per gli anglosassoni è un producer).

Il titolo di associate producer è (PGA Code of Credits) concesso “solely on the decision of the individual receiving the Produced By credit, and is to be granted sparingly and only for those individuals who are delegated significant production functions.”

(“solo per decisione del soggetto che abbia ricevuto un credito di “prodotto da” e deve essere usato con parsimonia e solo a quei soggetti ai quali siano state delegate importanti funzioni di produzione”), mentre il titolo di co-producer, che nel sistema anglosassone spesso si identifica con il line producer, viene dato a “the individual who reports directly to the individual(s) receiving "Produced By" credit on the theatrical motion picture” (“il soggetto che riporti direttamente al soggetto che abbia ricevuto un credito di “prodotto da” nel film”, cioè il producer) e dunque co-producer è (PGA Code of Credits) “the single individual who has the primary responsibility for the logistics of the production, from pre-production through completion of production; all Department Heads report to the Co-Producer / Line Producer.” (“il soggetto che ha la responsabilità primaria della logistica della produzione dalla pre-produzione al completamento della produzione; tutti i capi-dipartimento riportano al co-producer/line producer”).


BONUS:

Mentre, come detto sopra, in Italia non vi è una figura paragonabile all’executive producer anglosassone, in Francia il produttore di un film è definito producteur, il produttore esecutivo è definito producteur exécutif e l’executive producer è definito producteur délégué. In italiano però non possiamo tradurre il ruolo di producteur délégue (che sarebbe l’executive producer) come produttore delegato, in quanto quest’ultimo è quello, fra i co-produttori, che fa da capofila e incarica il produttore esecutivo.

Semplice no?


 


Una sera bel 1785 Wolfgang Amadeus Mozart scommise una bottiglia di vino con Franz Joseph Haydn, altro celebre musicista, che egli non sarebbe stato in grado di eseguire sul pianoforte un pezzo di musica che aveva composto la mattina. Accettata la scommessa, Haydn cominciò a suonare. Ma a un tratto si fermò, era impossibile continuare. Le mani del pianista erano alle due estremità della tastiera, e nello spartito era segnata una nota che doveva essere eseguita al centro. Haydn si diede per vinto. Toccò a Mozart suonare: il quale si mise tranquillamente al piano e suonò anche la nota finale. Ma come? Con il naso. E vinse la scommessa.




Da sempre conosciuti come “muser”, dal nome della app Musical.ly (ora “Tik Tok”), i giovanissimi autori di video da 15 secondi sono personaggi pubblici a tutto tondo e sempre più spesso corteggiati dai brand.
Tremila dollari al mese per quattro minuti di pubblicità, non continuativi. È quanto Zoe LaVerne, una ragazza di 17 anni, guadagna per promuovere il brand Pigeon Pop di fronte ai suoi 3,4 milioni di follower, che ogni giorno guardano i suoi video in 15 secondi in lip sync.
Follia? No, è Musical.ly, la app del momento tra i giovanissimi che ha già raggiunto oltre 200 milioni di utenti in tutto il mondo con 13 milioni di nuovi video caricati ogni giorno, e che ha cambiato nome in “Tik Tok”.

Quanto guadagnano i muser tramite le donazioni dei fan
A metà tra Vine e Snapchat, fin dal 2016 Tik Tok prevede la possibilità di effettuare piccole donazioni al proprio artista, o “muser”, preferito: una delle tante modalità con cui giovani e giovanissimi possono guadagnare attraverso la propria attività online, in maniera tuttavia non sempre intuitiva nei confronti del proprio pubblico di follower.
Questi ultimi, infatti, sono soliti acquistare su Tik Tok delle “monete virtuali” (“Coins”) con cui comprare delle emoj personalizzate, da inviare al proprio “muser” preferito in occasione di una diretta in live streaming e vedere così il proprio nome apparire per qualche secondo, in grande, accanto al volto del proprio personaggio preferito. Nulla di diverso, a pensarci bene, dalla pratica ancora in uso di inviare sms durante un programma televisivo per vedere il proprio nome e messaggio apparire in sottofondo.
La curiosità? Al “muser” destinatario del dono arriva solo il 50% dei “coins” effettivamente acquistati dagli utenti, mentre il resto viene suddiviso tra la piattaforma e Apple Store. Più che una forma di guadagno, le “donazioni” dei follower sembrano essere quindi una sorta di rimborso spese, per l’attrezzatura e il tempo speso a realizzare video (a volte, per 15 secondi di lip sync possono volerci diverse ore di montaggio).

Quanto potrebbero guadagnare
Come avvenuto sulle altre piattaforme social, anche per i “muser” i veri guadagni arrivano tramite canali spesso molto diversi tra loro. Al primo posto, ovviamente, ci sono le collaborazioni con le aziende: da diverse decine di migliaia di dollari per singolo video nel caso dei “muser” più famosi (come la “trasformista” Lauren Goldwin, cinque milioni di fan), a quello che serve per “togliersi qualche sfizio”, come dichiara Virginia Montemaggi, 17 anni e due milioni di follower, a Vanity Fair.
La collaborazione con i brand può avvenire nelle modalità tipiche dell’endorsement di un prodotto o servizio a fini pubblicitari, ma può anche assumere le forme di un “endorsement” dei canali stessi del brand: è il caso, ad esempio di Elisa Maino, la prima “muser” italiana a superare il milione di follower, che per una settimana ha gestito gli account di Patrizia Pepe su Musical.ly, come si legge sul Corriere.
Il paradosso? Per giovani artisti nati e cresciuti online, la prova del nove è offline: con la pubblicazione del primo libro cartaceo (si veda il caso dei successi editoriali della quindicenne Iris Ferrari e della già citata Elisa Maino, editi da Mondadori e Rizzoli), oppure con il passaggio al piccolo schermo in un programma o uno show televisivo. Per alcuni c’è anche il salto alla carriera artistica vera e propria: come nel caso di Jacob Sartorius, non ancora sedicenne, 14 milioni di follower e autore del singolo di successo “Sweatshirt”.
Monetizzare” la popolarità non è mai stato un passaggio semplice e indolore per gli artisti e i creatori di contenuti: avere milioni di follower non garantisce, di per sé, un ritorno economico. A far la differenza, spesso, è la capacità di sperimentare stili e canali diversi, rimanendo fedeli al proprio personaggio: quello che è difficile per gli adulti, per bambini e adolescenti ancora in formazione potrebbe invece essere semplicemente troppo presto.








Recitare. E no, non è una cosa ovvia.
Molti attori non vengono scelti per le loro doti recitative, ma solo per via di accordi e soldi.
Ma c’è un motivo se un attore poi viene premiato agli Oscar per la propria performance.
Prendiamo come esempio Rami Malek:


Ha 39 anni, che a mio parere porta anche bene, ed è un attore formidabile.
È stato premiato nel 2019 con l’Oscar come migliore attore protagonista. Per quale film?
Bohemian Rhapsody.
Chiunque abbia vissuto negli anni 70’ e 80’ non può non avere mai sentito questa famosissima canzone dei Queen. Ed è proprio di loro che parla il film, in particolare del loro frontman: Freddie Mercury.
Ora, io non ho mai fatto parte di un cast cinematografico o televisivo, ma ho esperienza con il teatro. E sapete qual’è il lavoro principale di un attore?
Interpretare. Regalare emozioni. Dare vita ad un personaggio.
Be’, io non ho avuto il piacere di andare ad un concerto dei Queen. Ma cavolo, cavolo, dopo aver visto delle interviste con i membri della band e loro concerti online sono rimasto meravigliato da quanto tutto il cast abbia rappresentato così bene tutti e quattro. E la persona più importante è naturalmente Rami Malek, che ha avuto il difficile compito di interpretare Freddie Mercury.
Se ricordate Freddie, ricordate anche il suo modo di atteggiarsi, in positivo, sul palco, sia con i suoi compagni che con il pubblico.
Bene. Io direi che se Freddie fosse stato lì agli Oscar insieme ai suoi amici Roger Taylor e Brian May sarebbe stato fiero di Rami, e gli avrebbe sorriso come solo lui sa fare.
Certo, magari non si assomigliano così tanto fisicamente. Ma vi basta guardare uno dei tanti video su YouTube che comparano le scene dei film ai vari concerti. Il più importante naturalmente è il Live Aid.


Ricapitoliamo.
Qual’è la dote che deve possedere un attore?
La capacità di portare in vita i personaggi.
Nel caso di Rami Malek, direi che il suo compito l’ha svolto alla grande.





Lost in Translation aveva un budget di $4 milioni. Eppure c'è una scena girata in mezzo alla folla, a circa metà del film - quando Scarlett Johansson attraversa l'Incrocio di Shibuya a Tokyo nell'ora di punta - che è stata girata come un film indipendente senza un soldo.


Sofia Coppola ha mandato Scarlett Johansson nella folla con una telecamera e il primo assistente operatore alle calcagna.
A quel punto la troupe ha attraversato la strada, ha preso un ascensore per il secondo piano di uno Starbucks, ha finto di ordinare da bere e ha puntato le telecamere fuori dalla vetrata.
Qui potete vedere il leggendario direttore della fotografia, Lance Accord, che fa finta di niente:


A scuola di cinema vi diranno di non filmare mai in un luogo pubblico senza i vari permessi. E a volte i permessi sono necessari. Molte produzioni sono inflessibili riguardo a questo tipo di rischi evitabili e vengono spesi un sacco di soldi per simulare delle folle realistiche.
Ma questo spirito - mischiare la finzione alla realtà, rubare inquadrature nel bel mezzo della vita di tutti i giorni - può produrre un tipo di magia che i soldi non potranno mai comprare.


La routine by Wallace Lee, l'autore di Rambo Year One (ma impostata 'di base' su quella suggerita da Stephen King, sul suo saggio 'On Writing' - se volete fare veramente gli scrittori, leggetelo!!).

  1. scrivere. Ovvero: andare avanti col vostro lavoro attuale (romanzo o racconto che sia). Fatelo sempre, ogni giorno, dall'inizio fino alla fine e senza pause, con l'accento sullo scrivere il FINALE, perché è la parte più importante di qualunque storia. Il valore di uno scrittore si conta infatti su quante trame ha portato a termine, non sul numero di pagine che ha scritto. Viceversa, i lavori lasciati a metà non contano. Anzi. Sono solo tempo perso. L'importante - specialmente all'inzio - è scrivere anche male, ma portare comunque sempre tutto a termine. Fidatevi di me. Ogni cosa lasciata a metà è tempo perso. Viceversa, un racconto o un romanzo scritto male, invece… Rappresentano un errore che COMUNQUE non farete mai più. Ed è già un grosso passo in avanti, rispetto al perdere tempo.

  2. correggere. Ovvero: prendere il vecchio lavoro (non quello attuale) e correggerlo frase per frase. Significa valorizzare la storia aggiungendo dettagli visivi, emotivi, eccetera (revisione creativa). E poi correggere o riscrivere frase per frase, in modo da renderlo più scorrevole, incisivo, eccetera (revisione stilistica). Io revisiono ogni mio singolo testo (romanzo o racconto che sia) almeno 5–6 volte frase per frase. 'Buona la prima' è infatti una frase che non esiste, nel mio vocabolario.

  3. leggere. Ovvero: non leggere a caso. Se io non so fare descrizioni visive, cercherò un autore che è un mago delle descrizioni visive. Se sono troppo complicato, cercherò un autore che è un mago della semplicità. Se il mio punto debole è dare un ritmo alla narrazione, cercherò un mago della scansione dei tempi. Leggere significa rubare le soluzioni agli altri autori, e non vergognarsi poi di sarle per risolvere i nostri problemi narrativi, mentre stiamo raccontando le nostre storie. L'importante per uno scrittore è leggere qualcosa che migliori la tua scrittura (e non che 'confermi' i tuoi difetti). La mia saga sul Vietnam per esempio ha rubato tutta la sua impostazione narrativa da quella del Trono di Spade. Ma siccome parla di Vietnam, non se nè mai accorto nessuno dei 10.000 lettori e passa che l'hanno ormai letta (a settembre 2020).

Fine.

Più farete queste cose OGNI GIORNO, meglio scriverete sia da un punto di vista stilistico che creativo.

Per il resto, si tratta soltanto di non perdere 'l'amore per le cose che non ci riguardano'. Uno scrittore vero - per definizione - è una persona infatti che si innamora di cose che non esistono. Ed esserlo non è facile per nulla, nella vita di tutti i giorni.

Anzi.

Può renderti la vita un inferno.

Wallace Lee, l'autore di Rambo Year One.