…E poi devi telefonare a un numero
e guidare fino alla stazione di rifornimento e aspettare comprando
delle Rizla per combattere il panico… E poi guidi lungo tutta la
M25 per diciassette volte… sempre esattamente diciassette volte…
E poi ci arrivi, tutti quei tamarri, a migliaia, come bufali, un
esercito di tute in acetato… Bè, le tute in acetato non erano
ancora state inventate, ma, cioè… naturalmente, a quei tempi tutte
le pasticche costavano 75 sterline, che valevano circa 8000 sterline
di oggi, ma erano incredibili, ti portavano letteralmente nello
spazio più profondo, mi ricordo che ero così stordito che sono
volato via come un razzo e non potevo in alcun modo smettere di
orbitare intorno alla Nebulosa del Granchio… Era anche molto più
intimo: tipo quando Oakenfold ha messo un disco di Lil Louis per la
prima volta e ci è sembrato che lo facesse girare direttamente sulla
schiena del mio amico…
Il 1990 è stato uno di quegli anni in
cui si pensa di poter rimanere giovani per sempre. I raver britannici
non se l’erano mai passata così bene. Quelli che ora consideriamo
cliché allora sembravano la cosa più fresca del momento. Tutti i
domani iniziavano oggi. Nel momento in cui il Muro di Berlino era
caduto e la polvere iniziava a posarsi sul Nuovo Ordine Mondiale, la
parole d’ordine era ottimismo, la droga felice era la nuova
religione e per un brevissimo istante gli hippie avevano smesso di
farsi pisciare in testa dai barboni di passaggio ed erano diventati i
veri fichi.
Sicuramente il Regno Unito era il
centro nevralgico di tutto questo. Aveva definito il sentimento
generale, il significato, di tutto. Ma, allo stesso tempo, non era
l’unica nazione con la fissa del neon, quell’anno. Seimila miglia
più a sud un gruppetto di ragazzini svalvolati, per una ragione o
per l’altra, erano scesi giù a Cape Town, in Sud Africa. Durante
gli anni successivi quei ragazzini sono riusciti a portare la cultura
dei beat ripetitivi nel Continente Nero, in una nazione che stava
riemergendo da un pantano culturale ben più profondo e denso di
quello fatto di cliché, trench e cardigan che rappresentavano gli
anni Ottanta della Thatcher.
“La nightlife sudafricana era una
merda in quegli anni,” si lamenta Jesse Stagg, co-proprietario
numero uno di Eden, “Era una combinazione di terribile pop anni
Ottanta: Kylie, Jason, Boy George… e robaccia goth. I goth andavano
alla grande qui. Oltretutto sembrava di essere rimasti incastrati
negli anni Settanta. Andavano tantissimo i Doors.”
“Tutti erano in fissa con Armani e La
Febbre del Sabato Sera. Davvero ‘cool’.” Carl Mason, l'altra
metà di Eden, interviene, “Ero depresso. Avevo lasciato la mia
vita fatta di feste in Inghilterra, per venire qui, e mi ricordo che
a volte rimanevo bloccato a pensare: ‘Gesù, che cazzo mi è
saltato in mente?’”
Diciamo che quel posto era un
tantinello indietro. Questa, dopotutto, era una nazione in cui la
televisione era arrivata soltanto nel 1978 perché il governo
nazionalista pensava che avrebbe avuto un’influenza corruttiva. Nel
Sud Africa del 1990, a causa del boicottaggio di Equity, per poter
guardare Fawlty Towers bisognava contrabbandare gli episodi su
videocassette registrate in casa. Quando non stavano ascoltando
bootleg di Rodriguez o non erano coscritti nell’esercito per
combattere guerre illegali in Angola, i giovani bianchi del Sud
Africa amavano rilassarsi spassandosela dai due ai cinque anni
indietro nel tempo rispetto al resto del pianeta.
Ma nel febbraio 1990 Nelson Mandela,
appena rilasciato, si è affacciato a un balcone durante la Grand
Parade di Cape Town e ha spiegato a tutti che stavano per diventare
liberi e vivere meglio. Il cambiamento era nell’aria. Anche se non
era ancora atterrato al suolo. Jesse e Carl si sono conosciuti in
quello che era il centro della vita notturna di Cape Town: Idols,
quello che voi chiamereste una "discoteca", piazzata in
fondo a Shortmaket Street, che soddisfava i bisogni della sua
clientela pseudo-sofisticata con paralumi pseudo-sofisticati,
pavimenti in legno pacchiani e piena di palle stroboscopiche.
Il papà di Stagg era uno sceneggiatore
che aveva ottenuto un grande successo. Era cresciuto a metà tra il
Sud Africa e Los Angeles. Si ricorda di come registrasse una quantità
industriale di hip-hop dalle radio americane per poi portarlo in Sud
Africa ogni volta che veniva rimandato a casa. Il padre di Carl, dal
canto suo, si era risposato ed era andato in Sud Africa per la luna
di miele. Annebbiato dall’erba, si era in qualche modo dimenticato
di tornare in Inghilterra e aveva iniziato a lavorare in un negozio
di abbigliamento trendy in città.
Nel 1990, però, ha iniziato a
rimpiangere amaramente la decisione. Era già stato un pezzo grosso
della scena inglese e sosteneva anche di aver ospitato il "primo
party di acid house all’aperto" nel suo grande prato inglese
alle porte di Romford. Will Hutton, il loro terzo socio, conferma la
storia: “Carl mi ha telefonato e mi ha chiesto se volessi mettere
un paio di dischi alla sua festa. Sapevo che frequentava una scuola
d’arte. Immaginavo che ci sarebbe stato solo qualche suo compagno
di corso. Invece aveva montato due grandi tendoni, c'erano duemila
persone lì sotto, e altre duemila che urlavano ai cancelli per poter
entrare. Gli agenti anti-sommossa era tutti all’esterno e poi sono
arrivati Boy George, Sade e Aswad. Stavano suonando Paul Oakenfold e
Danny Rampling. Mi ricordo che ero piuttosto eccitato–forse avevo
tirato giù un po’ troppe paste. Mi hanno presentato a Danny
Rampling e allora mi sono avvicinato per stringergli la mano, ma l’ho
mancato, e sono svenuto ai piedi di Boy George.”
Nonostante la bruttezza dell'Idols, tra
i due si era creato un legame: Jesse ha spiegato che stava cercando
un coinquilino e, in meno di una settimana, Carl ha traslocato da lui
tutti i suoi possessi: un letto, una TV e una tavola da surf. I due
hanno presto iniziato a promuovere feste fatte in casa usando il
marchio UFO, che stava per Unlimited Freak Out, iniziando poi una
serata settimanale al sabato sera chiamata Front, che si teneva in
uno spazio squallido su Long Street, suonando un mix di acid house e
hip-hop. “Erano questi i generi più comuni in quei giorni,” mi
ha spiegato Stagg. “Quello che la gente si dimentica è che a quei
tempi tutto si accavallava. Che ne fossero consapevoli o meno, la
maggior parte degli artisti hip-hop dell’epoca aveva almeno una
traccia house sui loro album.”
Mentre, etnicamente parlando, fino a
poco tempo prima sapevi sempre dov'eri collocato, la Acid House ha
rappresentato un punto di incontro fresco tra le tribù, nella terra
di mezzo tra The Doors e Grandmaster Flash. Nel contesto sudafricano,
con le leggi di segregazione ormai ignorate, tecnicamente ancora
valide ma inapplicate, l’Acid House ha creato un territorio dove i
ragazzini, divisi dai binari del treno che tenevano letteralmente
separate le diverse etnie in cui era spaccata la città, potevano
finalmente far balotta insieme.
Quindi è successo che, per trovare un
DJ con un adeguato corredo di vinili super costosi e d’importazione,
Stagg ha attraversato i binari, recandosi nella parte hip-hop della
città. DJ Rozzano, "una delle prima persone a suonare house in
Sud Africa," stando a quanto dice lui, era resident nell’unico
club multi-razziale della città: The Base. “The Base era uno show
pomeridiano,” spiega. “Perché per il modo in cui era costruita
la città, la maggior parte dei non-bianchi viveva sul confine,
quindi per colpa della distanza e della mancanza di trasporti
pubblici doveva essere per forza al pomeriggio, per permettergli di
tornare a casa.”
“Noi persone di colore abbiamo
iniziato a entrare davvero in città solo in quel periodo.” Ricorda
Rozzano. “Prima era illegale. Lo era ancora, tecnicamente. Ho
incontrato Jesse lì. Mi ha sentito suonare e mi ha chiesto di
suonare a qualche festa clandestina. Penso che il rapporto tra
bianchi e neri fosse circa di 60 a 40. Il 40% erano neri e mulatti.
Principalmente mulatti. Era una cosa nuova. Era esotico. Era il 1990.
Mandela era appena uscito. È stata quella la prima ondata di club
misti. Per noi, che eravamo abituati a ballare solo tra persone nere,
era ancora piuttosto strano ballare insieme ai bianchi.”
Qualche mese più tardi, i ragazzi
hanno toccato il loro punto di non ritorno con il World Peace Party.
“Il volantino era il logo ‘peace’ degli hippy,” spiega Stagg,
“ma qualche organizzazione cristiana locale ha iniziato a strappare
i poster che avevamo appeso in giro per la città. Sostenevano che
fossero satanici. Ecco la reazione di Cape Town. Allora siamo andati
dalle stazioni radio e siamo stati al gioco. Abbiamo fatto delle
dichiarazioni dicendo che queste persone erano degli attivisti
anti-pace. Questa cosa ha iniziato a circolare come notizia. Ne
abbiamo tratto un sacco di pubblicità gratuita…”
Attraversando i binari che dividevano
la città per razze, quattromila persone si sono dirette in un
magazzino di Paarden Eiland, una mini-Woodstock per gli standard di
quel tempo. Alle dieci del mattino seguente, dopo che si erano tirati
un bell’areosol di popper e sudore marcio (e dopo essere giunti
all’amara conclusione che il loro terzo partner era scappato con
tutto l’incasso), il duo si è convinto che la scena avesse
raggiunto una massa critica. Hanno assunto una manciata dei loro
amici come collaboratori, Stagg si è licenziato dal suo lavoro come
pubblicitario, e in nemmeno 48 ore hanno messo insieme 100,000R
(circa 50,000 euro di oggi), per aprire Eden, con una capienza di
mille persone, costruito con l’obiettivo di essere un luogo
d’incontro ai confini del centro, nella cornice di quella che un
tempo doveva essere una fabbrica di gelati.
“Eravamo davvero–e vorrei questa
notizia si spargesse nell’etere per vedere se c’è qualcun altro
d’accordo–uno dei primi superclub di sempre,” dice Stagg,
“Questo è successo tre anni prima di Cream e tutto il resto. Tutti
organizzavano feste in ambienti poco originali. Ma Eden aveva un suo
brand, un logo ben caratterizato e un insieme di valori che andavano
oltre l’essere semplicemente uno spazio dove le persone potevano
ballare.” Hanno interpretato l’idea di essere una festa di arte
libera. Per esempio hanno appeso sopra la pista da ballo una balena
gonfiabile gigante in una rete. I loro buttafuori erano vestiti di
viola, e si comportavano bene con tutti, li chiamavano "Guardiani
dell’Eden". Hanno stampato decalcomanie di bambini sui muri e
hanno messo in loop video artistici su schermi giganteschi,
includendo “It” il film Feminazi di Kenneth Anger: un’ora ben
spesa di interviste a donne che parlano del pene dei loro mariti.
L’unica parte visuale era questa sequenza di vari peni alti tre
metri proiettati sulle pareti del club.
“Ci piaceva sederci dal lato opposto,
per guardare la reazione della gente,” ricorda Stagg. “Le
decorazioni omaggiavano l’Hacienda. Era una roba fruity-industrial.
Le pareti erano tutte dipinte con diversi colori. Avevamo grandi
colonne, dipinte d’argento. Grandi travi a croce al centro, c’erano
anche grandi palle al 50 percento di polistirene, dipinte d’argento
e incastrate nei muri così il locale sembrava si amalgamasse su se
stesso. C’erano grafiche gialle attorno al dancefloor. Ma l’entrata
era sul livello superiore, quindi per arrivare alla pista bisognava
scendere una lunga rampa. Creava un certo effetto scendere lungo
quella via. Era un’anticipazione, e potevi vedere le luci, annusare
l’odore del fumo, e iniziare a sentire scorrere l’energia che
veniva da là sotto. Una volta arrivati lì ci si sentiva al sicuro.
Sembrava di essere nella pancia della bestia.”
“Era molto sperimentale,” ricorda
Matthew Quinton. “Mi ricordo che, nel mezzo di “Little Fluffy
Clouds” di The Orb, la musica si è fermata e tutte le luci si sono
spente, e i colori sono cambiati in una singola e roteante luce
blu–come quelle della polizia, ed è partito un loop di schiamazzi
di delfini, di canti delle balene. Tutti stavano in silenzio. La
gente ha interrotto i suoi viaggi interiori e si è guardata intorno,
cercando gli occhi degli altri. Poi, gradualmente, uno alla volta,
abbiamo iniziato a provare a ballare su questo nuovo suono,
muovendoci l’uno con l’altro, finché si è creata quest’onda
che si contorceva di corpi dolcemente ondeggianti. Era, cliché a
parte, un posto di scoperta interiore. Era a metà tra un utero e un
rave. Si mescolavano sensazioni di sicurezza e di pericolo in egual
misura.”
Insomma, è in questo utero che i
fautori del gusto di domani hanno avuto la loro gestazione. A
quell’epoca era solo un sedicenne ma il futuro top dj e fondatore
di Mutha FM Nick E Louder si ricorda dell’Eden come di un posto
“piuttosto strano. Ha chiuso e poi riaperto, diventando ancora più
strano… Le persone provavano ad esprimere loro stesse–era un
delirio di colori chiari, arancioni fluorescenti–credo che
imitassero quello che potevano vedere sulle riviste. Le ragazze erano
solite fare body painting e a parte quello rimanere nude. Tu potevi
sederti lì e stare a guardarle…”
Chavda ha aiutato a tirar su la
successiva ondata di rave in Sud Africa, co-fondatore di Synergy, era
solo diciottenne quando è inciampato per la prima volta nel loro
utero arancione. “È stato davvero il più grande club che ci sia
mai stato a Cape Town. Suonavano tutto quanto a 124bpm, perché è
quella la velocità a cui batte il cuore di un bambino quando è nel
grembo della mamma. E i loro volantini venivano dal futuro. Li
facevano di qualsiasi cosa – perspex, mutandine, potevano rischiare
spendendo molto perché erano sicuri che almeno una persona su due
sarebbe andata alla festa.”
Naturalmente, dato che la scena a cui
si rivolgeva era comunque ridotta e isolata, Eden mancava di molte
delle amenità di corredo. I vestiti, per esempio. “Nulla che si
potesse dire appropriato era disponibile all’epoca,” dice
Quinton. “Quindi le persone erano solite farsi i loro vestiti.
Poteva capitarti di andare a casa di qualcuno un sabato sera, e
passare tre o quattro ore a creare il tuo outfit. Avevo una sarta di
fiducia in Greenmarket Square che faceva tutti i miei. Ogni tre mesi
circa mi dicevo ‘Bene, è tempo di un nuovo outfit…’ Non
c’erano uniformi, nulla che potesse assomigliare a un dress code.
Mi ricordo una volta che stavo andando in bagno e ho visto un tale
vestito come una rana gigante uscirne fuori. C’erano persone che
non ballavano nemmeno, andavano lì solo per indossare i loro abiti
sadomaso. Mi è capitato spesso di andare al club dopo la spiaggia,
con i miei short e una maglietta malconcia.”
E, almeno per un po’, anche
qualcos’altro ha continuato a mancare. Will Hutton: “Sono venuto
fuori dalla gigantesca scena acid house di Londra. Ma quando sono
arrivato l’ecstasy non aveva ancora invaso Cape Town, e non l’ha
fatto fino all’ultima parte della prima stagione. Ma c’era la
stassa euforia che c’era a Londra. La gente si scatenava al massimo
senza che ci fosse una forza chimica dietro. Mi ha lasciato piuttosto
basito. Mi veniva sempre da chiedere ‘Bene, dov’è la droga?’ e
le persone mi diceva tipo: ‘Ecco, non ne abbiamo…’ e io
rispondevo, ‘Ok, che cazzo state facendo allora?’
Stagg: “Era molto difficile farsi di
qualcosa all’inizio. Spesso bisognava arrangiarsi in altri modi.
Gli acidi andavano un casino. E poi c’era qualcosa chiamato ‘Tonico
Dimagrante Del Dr. Baxter’, che si poteva comprare in farmacia giù
a Sea Point. Aveva scritto a chiare lettere: ‘ATTENZIONE: NON BERE
DOPO LE 4PM’. Mi ricordo di esserci passato davanti un pomeriggio e
aver visto una coda lunghissima di raver, già piuttosto magri a dire
il vero, tutti in fila per fare scorta del loro tonico dimagrante…”
“La prima stagione non ha avuto
niente a che vedere con l’Ecstasy,” spiega Quinton, “A quei
tempi qualche volta ti capitavano dei colpi di fortuna e avevi un
amico appena tornato da Londra che ne aveva nascosta un po’ nella
valigia. Ma nella maggior parte dei casi bisognava arrangiarsi per
gli acidi. Il consumo di droghe non avveniva così alla luce del
sole. C’era certamente pochissima coca. Ma la seconda stagione…”
“Perché l’abbiamo chiamato Eden?”
sogghigna Stagg, “perché volevamo che fosse un enorme paradiso
dell'E…”
Ed è effettivamente diventato presto
un gigantesco paradiso dell'Ecstasy. E quando le cose vanno così,
finiscono presto un po’ alla Tony Wilson. All’inizio del ’93 il
club era un’emorragia di soldi. Nella troppa fretta i due non si
erano preoccupati granché di fogli e contratti. In realtà non c’era
nessun contratto tra i vari partner. Alcuni erano sempre più ansiosi
di avere un ritorno economico. Alcuni non andavano d’accordo con
gli altri. Uno era stato rimpiazzato: a insaputa di tutti gli altri,
era stato sostituito da un uomo d’affari israeliano, che nel suo
bel vestito incarnava il perfetto gestore di club, ed è subentrato
attivamente a coprire la sua quota di passività nel bilancio. “Un
bel giorno siamo arrivati e ci hanno detto che avremmo avuto un nuovo
socio – Shirek, penso si chiamasse così,” ricorda Carl, “è
stato in quel momento che le cose hanno iniziato ad essere davvero
strane, in realtà…” Il bordello che stava al piano sopra il loro
edificio si era spostato, stanco per il continuo rumore. Quindi hanno
ereditato tutto un piano di nuovi uffici: con quattro docce e due
jacuzzi. La droga stava diventando sempre più facilmente
disponibile. La droga stava diventando un problema.
È una storia che si è ripetuta un
migliaio di volte, l’idealismo con cui era nato il progetto ha
lasciato il passo all’egoismo. Alla fine, i soci hanno
semplicemente staccato la spina. Se ne sono andati senza recuperare
un centesimo. “Ma non è mai stata una questione di soldi,
comunque,” considera Stagg, “si trattava di fare qualcosa di
originale. Proprio l’altra notte ho mostrato il logo di Eden a
questa ragazza, ed è letteralmente impazzita. Ci veniva sempre
quando era una teenager. Ho incontrato persone a Los Angeles, Londra,
ovunque, che erano clienti dell’Eden. Abbiamo aperto gli occhi a
migliaia di persone su quello che stava succedendo nel mondo. Questa
cosa è impagabile”