Risultati immagini per Bebop musica



«A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l'America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.»
(Jack Kerouac, On the Road 1957)



Il bebop (spesso abbreviato in bop) è uno stile del jazz che si sviluppò soprattutto a New York negli anni quaranta. Caratterizzato da tempi molto veloci e da elaborazioni armoniche innovative, il bebop nacque in contrapposizione agli stili jazz utilizzati dalle formazioni contemporanee. Nei suoi primi anni di vita la parola "bebop" indicò, oltre allo stile musicale anche lo stile di vita e l'atteggiamento ribelle di coloro (che erano in maggioranza giovani) che si indicavano come "bopper". Anche per questo motivo il bebop divenne popolare tra i letterati che si riconoscevano nella cosiddetta Beat Generation e fu citato in alcune delle loro opere più famose (ad esempio nella poesia Urlo di Allen Ginsberg). Nel corso dei 15 anni successivi, il bebop e le sue ramificazioni si evolsero fino a diventare il principale idioma del jazz. Ancora nel primo decennio del XXI secolo, lo stile jazzistico indicato come "mainstream" si rifà essenzialmente alle elaborazioni stilistiche del bebop.
Il termine bebop (che nei primi tempi veniva spesso usato anche nella forma rebop) è un'onomatopea che imita una brevissima frase di due note usata talvolta come "segnale" per terminare un brano. Per questo uno dei padri del movimento, Dizzy Gillespie, intitolò "Bebop" uno dei suoi brani, brano che fu anche uno dei primi brani bop a raggiungere una certa notorietà.

La nascita del movimento

Premesse

In pieno periodo bellico, i locali e le case discografiche si sforzano di far dimenticare la guerra ed i problemi sociali (in primis l'apartheid nei confronti dei neri): le orchestre swing, come quelle celebri di Benny Goodman e Glenn Miller, sono le più adatte a questo scopo e vengono promosse attivamente. Nelle loro file militano soprattutto musicisti bianchi, che hanno assimilato perfettamente il linguaggio swing e si accaparrano le sempre più scarse occasioni di lavoro.
Per i musicisti neri si pongono due obiettivi: liberarsi dai rigidi arrangiamenti delle big band per esprimersi più liberamente e manifestare tangibilmente la loro ribellione a quel mondo ipocritamente sorridente.

La rivoluzione

Quella del Bebop è una rivoluzione che va al di là dell'aspetto strettamente musicale. È un movimento elitario, nero, tutto sommato di nicchia. Tra i locali di New York che ospitano i primi after hours Be bop i più celebri sono il Monroe's e il Minton's. Qui, di notte, dopo che i musicisti hanno suonato per far ballare i clienti e per guadagnarsi da vivere, si riuniscono Charlie Christian, il pianista Thelonious Monk e Dizzy Gillespie, il batterista Kenny Clarke e Charlie Parker, un giovane altosassofonista di Kansas City arrivato a New York da poco e destinato ad identificarsi con il nascente stile musicale, di cui sarà uno dei fondatori (per alcuni, il vero e proprio padre) e uno dei più importanti esponenti.
Molti dei musicisti del Minton's (Gillespie, Benny Harris, Benny Green e Parker per esempio) suonavano nella big band di Earl Hines, ma ci rimangono per pochi mesi. Con l'uscita dall'orchestra del cantante Billy Eckstine e la sua volontà di dare vita a una band squisitamente bop, i suddetti più altre decine di musicisti vi si daranno il cambio tra il 1943 e il 1947: chi vi rimarrà per tutto il periodo (Art Blakey), chi per alcuni mesi o settimane (Parker, Gillespie come direttore musicale, Dexter Gordon, Sarah Vaughan, Miles Davis...). Questa band che in tre anni e rotti girò in lungo e in largo gli USA, riuscendo pure a incidere due album, nonostante il lunghissimo braccio di ferro tra musicisti e discografici, ebbe un merito enorme: quello di far uscire il be-bop dai claustrofobici localini newyorkesi; il tutto, grazie alla fama - all'epoca superiore a qualsiasi altro cantante, bianco o nero che fosse - del bandleader Billy Eckstine.
Liberi dai vincoli del leader d'orchestra e del pubblico da compiacere, questi musicisti sperimentano nuove soluzioni musicali fino a codificare il bop. Cambia il jazz e cambia la musica. Il jazz matura, con scelte armoniche rivoluzionarie: nelle mani dei boppers c' è l'impegno a renderlo , deliberatamente, progressivo.
Essendo un movimento volutamente di nicchia (a volte quasi privato, sempre dopolavoristico), molte delle idee musicali scaturite a quel tempo non furono mai registrate né messe per iscritto.
«Si deve a Bird più che a chiunque altro il modo in cui fu suonata quella musica; ma è merito di Dizzy se fu messa per iscritto»
(J.E. Berendt, Il libro del jazz)

Caratteristiche musicali

Nel bop, tutto quello che è banale, scontato, ballabile o gradito al pubblico medio dell'epoca è sistematicamente bandito.

La forma e lo sviluppo melodico

La forma dei brani prevede l'esposizione di un tema (generalmente all'unisono), numerose improvvisazioni e la riproposizione del tema come finale. Le improvvisazioni sono però il fulcro dell'esibizione tanto che le melodie vengono spesso appena accennate mentre le improvvisazioni sono sempre molto estese; addirittura in alcune performance dal vivo il tema non viene nemmeno eseguito. Questa pratica permetteva di risparmiare sui diritti d'autore (che non si applicano alle progressioni armoniche ma alle melodie ed ai testi). Elaborare giri armonici preesistenti permetteva inoltre di semplificare il lavoro di composizione e di improvvisazione, fornendo ai musicisti un substrato a loro ben noto e familiare su cui creare.
Le melodie bop sono scattanti, spezzettate, nervose, spesso dissonanti. La velocità di esecuzione è molto elevata.

L'armonia

Il Bebop si caratterizza armonicamente per: utilizzo di giri armonici preesistenti con frequenti sostituzioni armoniche, utilizzo di accordi diminuiti o aumentati, frequente ricorso alle dissonanze, nuove scale su cui improvvisare (scala bebop).

Gli strumenti

La formazione tipica del bop è ridotta: da tre a sei/sette elementi (il cosiddetto combo). Gli strumenti tipici sono: tromba, sax tenore o contralto, a volte il trombone, e poi pianoforte, contrabbasso e batteria. Questa riduzione di organico permette di suonare senza arrangiamenti scritti, basandosi solo su un canovaccio armonico e sviluppando l'interplay, ovvero la capacità di interazione estemporanea tra musicisti. Inoltre, la scelta di una formazione piccola era dettata da motivi ideologici (in opposizione alle big bands dei bianchi) e pratici (la possibilità di suonare in locali piccoli e con cachet ridotti).
La figura carismatica di Charlie Parker contribuisce enormemente alla fortuna del sassofono contralto, spingendo sempre più appassionati verso questo strumento.

Risultati immagini per Acid jazz


L'acid jazz è uno stile musicale jazz che incorpora elementi funk, soul, unendoli alla musica elettronica e che, rielaborando il concetto di fusion, punta alla integrazione di numerosi elementi musicali contemporanei.
L'acid jazz si contrappone a quella tendenza del jazz rap che su basi di musica jazz gioca con le parole, ed al contrario focalizza maggiormente sulla componente musicale.

Cenni storici

L'acid jazz nasce verso la fine degli anni Ottanta in Inghilterra. La prima testimonianza discografica risale al 1987 con "Acid Jazz and other illicit grooves" dell'etichetta Urban Records, album nel quale vengono definiti gli stilemi del nuovo genere e dove sono presenti oltre a Jamie Principle (stile acid/soul), James Taylor Quartet (stile jazz-funk).
Il nuovo genere si sviluppa prendendo spunto dalle intuizioni di vari artisti già precursori della scena jazz-funk degli anni 60-70, come il trombettista Donald Byrd con Fancy Free (1969), Electric Byrd (1970) ed il pianista Herbie Hancock con Head Hunters (1973).
In seguito, a partire dalla fine degli anni '80, ma soprattutto negli anni '90, i due DJ produttori Gilles Peterson ed Eddie Piller saranno i principali promotori del genere acid jazz, attraverso le radio, le serate dj nei principali clubs londinesi, e attraverso la loro stessa casa discografica Acid Jazz records, da essi fondata. Gilles Peterson è un DJ radiofonico ed animatore del club Dingwalls a Londra e conia il termine "acid jazz" con una mitica frase finora avete ballato acid-house? E adesso ascoltate acid jazz! durante serate musicali in cui proponeva l'ascolto di vinili ispirati alle contaminazioni tra funk, jazz, soul e rare-groove degli anni settanta.
Sul finire degli anni Ottanta escono quattro raccolte della BGP che collezionano il meglio di quello stile musicale (tra gli altri Funk inc, Charles Earland, Brother Jack McDuff). Peterson fonda nel 1989 l'etichetta discografica Talkin' Loud distribuita da Polygram, della quale si ricordano tra gli altri: il gruppo Galliano che conta tra i suoi componenti due ex membri degli Style Council, White e Mick Talbot con la loro fusione di jazz, soul e hip hop; gli Incognito, gruppo che ruota attorno a Jean Paul 'Bluey' Maunick dei quali memorabile è "Jazz/Funk" (1981), con la collaborazione delle cantanti Maysa Leak e Jocelyn Brown; i Marxman con i loro hip hop politicamente impegnato, i The Brand New Heavies con la collaborazione della lead vocalist N'Deas Davenport, e gli Young Disciples; infine il soul di Omar con "There's Nothing Like This".
Eddie Piller, veterano della scena Northern soul e Mod, fonda invece l'Acid Jazz Records (agli inizi con Gilles Peterson). Questa etichetta divenne famosa per le compilation Totally Wired, in cui veniva illustrato e lanciato l'acid jazz. Questa etichetta lancerà il gruppo che diventerà più popolare nel genere: i Jamiroquai. La prima uscita del gruppo londinese è il singolo When You Gonna Learn (la cui introduzione è suonata con il singolare strumento australiano didgeridoo). Lo stile musicale dei Jamiroquai è fondamentalmente un mix tra disco music, soul, Jazz e Funk (l'influenza di Stevie Wonder sembra chiara in Emergency on Planet Earth del 1992) che si trasformano in sonorità garage house nelle versioni remix di alcuni suoi singoli. In seguito al successo del singolo d'esordio, il loro frontman Jay Kay riuscirà a strappare un contratto miliardario alla Sony.
Altri artisti prodotti dall'Acid Jazz Records sono i Brand New Heavies, i quali - anche per merito della bravissima cantante statunitense N'Dea Davenport - ottengono un discreto successo persino negli USA con l'album "Brother, Sister" (e lanciandosi anche in duetti con rappers americani come Guru, ad esempio nell'album Heavy rhyme). Alcune hit acid jazz sono venute dagli US3 come "Cantaloop" (una cover di Cantaloupe island di Herbie Hancock). Interessante anche l'album "Antidote" di Ronny Jordan.
In Italia grande successo hanno riscosso le performance dell'ex tastierista dei Prisoners James Taylor con il suo James Taylor Quartet, di cui citiamo l'album "Wait a minute" (su Urban) con una notissima cover del tema della seconda stagione della serie televisiva di Starsky & Hutch ("Gotcha", brano di Tom Scott).
Sul versante più funky, grandi attenzioni sono state riversate sui Freakpower gruppo creato da Norman Cook (già negli Housemartins e noto successivamente come Fatboy Slim) ed il cantante trombonista Ashley Slater. Da ricordare il loro album "Drive-thru booty" (Island, 1994) con i brani "Turn on, tune in, cop out" e "Get in touch".
Altra etichetta di frontiera è stata la Mo-Wax: grande impatto ebbe la versione di "For what it's worth" (originale dei Buffalo Springfield) da parte dei Love T.K.O., gruppo più trip hop che acid jazz.
Si citano anche il gruppo tedesco Die Toten Hosen con "Fancy You" e gli spagnoli Speak Low con "In The Fridge".

Risultati immagini per Cover



Nella terminologia della musica leggera (principalmente pop e rock), una cover è la reinterpretazione o il rifacimento di un brano musicale - da altri interpretato e pubblicato in precedenza - da parte di qualcuno che non ne è l'interprete originale.
La differenza tra interpretazione e cover non è ben definita: in genere quando un musicista interpreta un brano considerato un classico della musica eseguito innumerevoli volte si esita ad usare il termine cover (si parla in questo caso piuttosto di interpretazione). Il termine cover è invece maggiormente utilizzato per indicare la reinterpretazione di brani relativamente recenti (come nel caso delle "cover band" e delle tribute band, gruppi musicali che interpretano solo canzoni note scritte da altri) o una versione differentemente arrangiata.
In altri ambiti musicali (nella musica classica, ad esempio) l'esecuzione di una stessa composizione da parte di interpreti diversi è la regola, quindi non esiste un termine corrispondente. Nel jazz si definisce standard il tema di una canzone nota, che i musicisti usano come base per variazioni e improvvisazioni: queste, tuttavia, non sono semplici interpretazioni o arrangiamenti della canzone originale, quindi non sono assimilabili a "cover".

Aspetti economici

Fatta salva la remunerazione relativa all'interpretazione, i diritti economici e le rendite relative all'esecuzione o alla riproduzione di un brano sono dei suoi autori ed editori, i cui nomi devono solitamente essere pubblicati in calce alla riproduzione audio.
Talvolta la cover di una canzone è caratterizzata dalla modifica della parte letteraria, spesso perché adattata, tradotta o riscritta in un'altra lingua. In tal caso i diritti possono essere divisi percentualmente a seconda dell'entità delle modifiche tra gli autori ed editori originali e chi ha eseguito l'adattamento, a seconda di quanto stabilito dalla locale società che tutela il diritto di autore: in Italia, la Siae, che parla in questi casi di sub-autori e sub-editori.
Qualora invece uno o più autori vogliano far passare per propria un'opera, o anche solo parte di essa, scritta in realtà da altri, omettendo cioè di attribuire gli autori originali, non si può parlare di cover ma piuttosto di violazione del diritto d'autore o del copyright, a seconda della giurisdizione.

Cenni storici

Quando negli anni venti l'industria discografica era agli albori anche l'aspetto promozionale non era molto sviluppato, e l'acquirente-tipo spesso era una persona matura, interessata ad acquistare dischi contenenti determinate canzoni, senza particolari preferenze per chi ne fosse interprete. La casa discografica doveva perciò "coprire" o "includere" (to cover in inglese) la canzone.
Negli anni trenta, durante la swing era, artisti come Glenn Miller cominciarono ad avere enorme successo radiofonico e l'età del pubblico diminuì gradualmente. Le case discografiche continuavano comunque a concentrarsi più sul brano di successo che sull'interprete o autore.
Negli anni cinquanta, agli albori del rock and roll molti brani di successo delle prime star di colore furono reinterpretate in versioni più leggere, in modo da essere più vendibili e fare da ponte (to cross over) tra il pubblico giovanile e quello più conservatore dei genitori e delle emittenti radiofoniche. Molto spesso le versioni originali erano state realizzate da artisti di colore e non sarebbero state trasmesse da molte radio americane. Venivano quindi realizzate versioni edulcorate dei brani, cantate da cantanti bianchi, che spesso ottenevano grande successo, oscurando (e "coprendo") le versioni originali. Questi rifacimenti venivano chiamati cross cover version.
Da allora, particolarmente in ambito pop e rock, il termine cover si è diffuso ed ha assunto il suo attuale significato comune.

Le cover in Italia

Nel contesto Italia le cover più note sono state spesso una traduzione di brani già noti all'estero.
Ad esempio, negli anni sessanta, la beat generation italiana, ed in generale la musica pop italiana degli anni sessanta e settanta, ha attinto a piene mani dal repertorio inglese e americano traducendo decine di brani, spesso all'insaputa del pubblico che credeva che l'interprete fosse anche l'autore.
Nel compiere una traduzione l'adattamento della melodia è un compito non semplice, e può portare ad alcune incongruenze rispetto al testo originale. Ad esempio Una città per cantare di cui Ron è l'interprete italiano, è la traduzione, anche se non letterale, di The Road di Danny O'Keefe, incisa anche da Jackson Browne.
In altri casi ancora non vi è alcuna traduzione, ma uno stravolgimento totale dei testi. In questi casi, sebbene in Italia si usi il termine cover, forse sarebbe più corretto il termine remake o adattamento.
In molti altri casi, specialmente negli anni '60 e '70, vi furono invece brani italiani ripresi da interpreti stranieri, in particolare angloamericani, segnaliamo la versione di Dean Martin della celebre Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno (ma incisa da innumerevoli altri interpreti), Help Yourself che prima di essere un successo di Tom Jones era stato interpretato da Dino e Wilma Goich col titolo Gli occhi miei, You're my world, che è Il mio mondo di Umberto Bindi inciso da Cilla Black, Silent voices, cioè La voce del silenzio, e moltissime altre.
Anche in Giappone ed in America Latina le canzoni italiane hanno avuto innumerevoli reincisioni e cover.
Inoltre le cover italiane hanno avuto molto successo negli anni 60-70 ed 80 nei paesi del Blocco comunista come ad esempio la traduzione in Ceco di Felicità di Albano e Romina tradotta con il titolo stravolto di Dovolenà (Vacanze).
La più prolifica interprete di cover in Italia è senz'altro Mina che già negli anni sessanta reincideva canzoni di Sanremo a pochi giorni dalla loro presentazione al Festival da parte di altri artisti e per molti anni ha pubblicato ogni anno un doppio album con un disco di inediti e uno di cover.
Il fenomeno delle cover ancora oggi continua, un esempio è La primavera cantata da Marina Rei nel 1997, una traduzione della canzone You To Me Are Everything dei The Real Thing.
Tra 1999 e 2008 Franco Battiato è stato uno dei più prolifici interpreti di cover, con i suoi tre album Fleurs (1999), Fleurs 3 (2002), Fleurs 2 (2008), contenenti cover di artisti italiani e stranieri tutte riarrangiate e alcune tradotte.
Nel novembre del 2006 Laura Pausini ha pubblicato un album, Io canto, interamente composto da cover di celebri canzoni italiane. L'album è stato pubblicato con successo anche in versione spagnola con il titolo di Yo Canto.
Il 19 settembre 2008 il cantautore Mango pubblica l'album Acchiappanuvole, titolo tratto da un verso della canzone Ragazzo mio di Tenco, (1964), che contiene 14 cover. Il singolo che anticipa l'uscita del nuovo lavoro è La stagione dell'amore, cantata assieme al suo stesso autore Franco Battiato. Acchiappanuvole è disco di platino.
Produzioni per certi versi assimilabili alle cover, anche se in senso stretto non possono definirsi tali, sono quelle che vedono un brano di successo interpretato in altre lingue dallo stesso cantante che lo ha inciso nella versione originale. Molti cantanti italiani, fra i quali ad esempio Franco Battiato, Domenico Modugno, Mina, Lucio Battisti, Albano e Romina e molti altri, hanno inciso versioni in lingua straniera di alcuni loro successi italiani, ma anche diversi cantanti stranieri (ad esempio Charles Aznavour, Dalida, Paul Anka, Barbra Streisand, Demis Roussos, Sting e molti altri) hanno realizzato versioni italiane di alcuni loro brani.

Omaggi e cover

Negli anni sessanta esistevano fondamentalmente due approcci diversi alle cover.
Il primo consisteva nel presentare una versione italiana di un brano di un autore od un gruppo famoso già noto all'estero: questa era spesso la via per un successo sicuro.
Il secondo approccio era di proporre come nuovo qualche brano poco noto recuperato nel vasto repertorio anglosassone. Alcuni gruppi facevano largo uso di questo approccio (ad esempio i Corvi o i Dik Dik).
Con il passare degli anni l'approccio alle cover è cambiato; spesso artisti di successo eseguono una cover per onorare e omaggiare (in inglese to pay tribute to) un artista da loro apprezzato (ad esempio Sting ha reinterpretato con successo Little Wing di Jimi Hendrix).
Altri gruppi si specializzano nell'esecuzione di sole cover (cover band) o addirittura nei brani di un solo artista o gruppo (tribute band). Oggi la tendenza di questi gruppi è di concentrarsi sulla riproduzione fedele delle musiche, dei testi e a volte anche del look, con una casistica minore rispetto al passato (anche se sempre presente) di brani tradotti o adattati.
Vengono prodotti anche album interi di cover dedicate ad un unico artista (tribute album) anche da gruppi non pop; a titolo di esempio citiamo The Spirit of St. Louis dei Manhattan Transfer dedicato a Louis Armstrong, oppure The String Quartet Tribute to R.E.M. (e innumerevoli altri album) degli String Quartet. Nel 2006 Bruce Springsteen ha conquistato le classifiche con We Shall Overcome: The Seeger Sessions un tribute album, dedicato alle canzoni di Pete Seeger.
In Italia Lucio Battisti e Fabrizio De André hanno ricevuto numerosissimi tributi. Ad esempio nel 1993, nel 1994 e nel 2006 sono stati pubblicati 3 album tributo a Lucio Battisti intitolati Innocenti Evasioni (tra gli interpreti Fabio Concato, Nek, Giorgia, Samuele Bersani).

Cover parodistiche

Esistono anche delle cover eseguite in maniera parodistica; a questo proposito in Italia sono note quelle effettuate dal Quartetto Cetra in vari programmi televisivi; negli anni seguenti si sono cimentati in questo stile anche altri interpreti come gli Squallor (Sono una donna, non sono una santa), Elio e le Storie Tese (Help me, Nella vecchia azienda agricola, Balla coi barlafus e altre), Stefano Nosei (Lasagne verdi), la Gnometto band, i Gem Boy e Leone di Lernia, negli Stati Uniti d'America Weird Al Yankovic, in Germania Otto Waalkes.



Le prime domande che ogni artista emergente si deve fare sono: Serve ancora il supporto di una major del disco nell'era dello streaming? Come è cambiato il mercato discografico?
Ora la 1437 United Artist, la società che permette agli artisti imprenditori di se stessi di distribuire i propri progetti "fai da te" senza casa discografica, cercherà per quanto possibile di dare delle risposte!
Nel mondo della musica ormai la consacrazione dello streaming è cosa già fatta da qualche anno a questa parte. Si tratta volendo andare a ben guardare dell'ennesima grande rivoluzione in poco più di 15 anni, un processo di trasformazione delle abitudini di chi la musica la ascolta, ma anche di chi la fa, che ha in definitiva rivoltato l’industria discografica come un calzino.
Quattro tappe fondamentali hanno portato al mondo che conosciamo oggi: 1999, apre Napster; 2003, Apple lancia l’iTunes Music Store; 2005, nasce YouTube; 2008, l’allora sconosciuta startup svedese Spotify, fa partire l’omonimo servizio di streaming “a volontà”. In mezzo ci sono state tante altre vicende, personaggi, innovazioni (l’arrivo dell'iPod prima e degli smartphone dopo su tutti), ma queste sono sicuramente le pietre miliari che più hanno scolpito la scena musicale odierna. Minimo comune denominatore: Internet.
Nel 2014, per la prima volta, seppure di misura, i ricavi della musica digitale smaterializzata, a livello globale, superarono quelli generati dalla vendita di supporti fisici. Una statistica dell'epoca rivelava come si comprassero sempre meno CD, ma anche come, dopo la mazzata che lo scambio in rete degli MP3 hanno inflitto alle case discografiche, i modelli di distribuzione digitale legali cominciassero finalmente a ingranare. L’altro dato di rilievo è appunto l’esplosione dello streaming, che in pochi anni ha cominciato velocemente a cannibalizzare le vendite di brani in download; per le major del disco era la luce in fondo al tunnel dopo anni di sofferenza, per gli artisti, si dice, un po’ meno. Perché, diciamocelo, diventare una star oggi è ancora più difficile di una volta e vivere di musica un traguardo per pochi. Una volta firmare con una casa discografica era il sogno che diventava realtà, il punto di arrivo, “l’avercela fatta”. Oggi, a meno di non essere super fortunati, è un modo se va bene per arrotondare e avere un po’ di persone in più ai concerti.
Anche per questo, il 28 dicembre 2017, Cesio Endrizzi istituisce una riunione a cui invita artisti legati ad un'etichetta e gli presenta la sua idea: quella di lanciare una società di intermediazione per mettere in contatto diretto gli artisti con la propria fanbase, realizzando e distribuendo sui canali di vendita - tradizionali e non - edizioni deluxe e vinili. È il nuovo modello del DIY ("do it yourself", fai da te) che sta conquistando tanti artisti, sia affermati che emergenti, che parte dalla premessa che la casa discografica classica, e in particolare la major, è diventata obsoleta in questo mercato. “C’è stato un tracollo totale del fatturato nella discografia, per varie cause, la pirateria da una parte, ma anche la flessione del CD e il mancato decollo della promessa del digitale”, mentre dal punto di vista della 1437 United Artist, tutto è cambiato nel mercato del disco e soprattutto siamo pronti a vivere il futuro nell’era dello streaming.
E partiamo proprio da qui, dalla promessa mancata del digitale: iTunes ha aperto i battenti nel 2003, ma ancora non basta per sopperire al calo di fatturato del fisico. Che cosa è andato storto?
Per quanto riguarda l’Italia, visto che all’estero e in particolare negli Stati Uniti le cose sono andate un po' diversamente, le ragioni di una disfatta annunciata siano state tantissime. Innanzitutto il consumatore si è sfiduciato nei confronti del mercato discografico a causa delle pubblicazioni. Si pensi all’ondata di “best of” degli ultimi anni. Perché per sopperire alla contrazione del mercato si rispose con la pubblicazione di tante raccolte inutili. E questo ha generato ancora più sfiducia, ancora più acredine da parte dei fan, non tanto nei confronti dell’artista, ma di chi nell’industria avallava operazioni improbabili che essenzialmente esistevano solo per fare cassa.
Poi c’è il fattore prezzi. Basti pensare che il crollo dei consumi è arrivato quando ancora si viveva di rendita che veniva dal boom del CD nel 1999/2000, e cioè che il prezzo della musica si riteneva ininfluente sulle vendite. Poi invece quando il mercato è crollato, il prezzo ha cominciato ad avere una leva rilevante, così si è avuto un abbassamento del prezzo e allo stesso tempo delle quantità vendute e quindi in definitiva del fatturato.
Quindi, la sfiducia dei consumatori, la contrazione del prezzo medio, e poi naturalmente il fatto che la gente scaricava. Questo d’altra parte è un paese in cui oltre il 61% della popolazione secondo un recente sondaggio non considera un reato quello di scaricare musica illegalmente. Oggi naturalmente tutto questo è superato dalla piattaforma streaming. Quando tu riesci ad accedere a una piattaforma legale come Spotify, in cui comunque gli artisti vengono renumerati, poco tanto non lo so, comunque è qualcosa. Quando invece scarichi illegalmente comunque danneggi, e ormai viviamo negli anni del boom della pirateria online. Non c’è un’alternativa legale ed il mercato discografico è un grande pozzo d’acqua pieno di falle che si svuota.
La 1437 United Artist, è nata perché in questa fase abbiamo visto l’opportunità, di una grande idea: quella di riuscire a carpire e prendere dalla coscienza dell’artista quella voglia sotterranea di farsi tutto da solo. Abbiamo visto Renato Zero che si staccava dalla Sony e decideva di farsi tutto da solo. I Pooh che hanno sempre fatto tutto da soli da una vita ed erano solo distribuiti da una major, i Nomadi e tanti altri fino agli Afterhours. E così in poche settimane abbiamo già raccolto 150 prodotti esclusivi, in virtù del fatto che c’è la coscienza di voler fare tutto da soli.

Ma perché improvvisamente è nata nell’artista la voglia di farsi tutto da solo?
Perché fondamentalmente non c’è più bisogno della casa discografica. Perché con la contrazione del mercato, nelle case discografiche non c’è più quella propensione a investire. Quello che faceva la differenza una volta nelle major discografiche erano gli investimenti pubblicitari, la promozione, i videoclip. Ma con la nascita e il proliferare di YouTube, con le tecniche video a basso costo, tutto questo è cambiato. Pensiamo oggi a tanti giovani artisti: il loro primo video,se lo fanno da soli con i loro amici e sono forse video che poco più di vent’anni fa non sarebbero bastati 200 milioni delle vecchie lire per realizzarli.
Oggi le nuove tecnologie consentono di produrre dei video super, basta un’idea e non è più necessario spendere tantissimo. Quindi gli artisti hanno detto: “se le case discografiche non investono più in campagne, se non c’è più l’advertising che c’era prima, se non c’è più quell’opulenza che mi consentiva di essere un artista sostenuto dalla grande casa discografica, perché devo dare più della metà dei ricavi della vendita del mio lavoro o di quel che ne deriva a un altro soggetto? Faccio tutto da solo e cerco di guadagnare molto di più”. E quindi noi cavalchiamo questa esigenza, anche perché con una società come la nostra, noi comunque retrocediamo oltre l’80% dei ricavi all'artista.

C’è da dire che c’è sempre stata un po' la percezione, almeno da parte dei non addetti ai lavori, che le grandi major sfruttassero gli artisti. Pensiamo alle battaglie ormai negli scorsi decenni di personaggi come Prince. Ma è poi davvero così? La 1437 United Artist, afferma di dare all’artista una fetta di oltre l’80% dei ricavi, ma nel caso di una major qual è usualmente la proporzione?
Tendenzialmente, se parliamo di un artista “top” può prendere il 30% da una major senza gli abbattimenti. Oggi però anche un artista top non è più sostenuto dalla major come prima, per cui è una cifra anacronistica. Un tempo tu sapevi che loro si dovevano prendere il 70% perché c’erano gli investimenti e perché dovevano marginare tanto perché magari ci perdevano su altri progetti, ma questo sistema è andato completamente in tilt. Se fai il raffronto tra un artista che prende il 30% che con degli abbattimenti diventa il 23% e un’artista che ne prende l’80%, c’è una grande differenza. Ma lo dico non perché io sono quello che ti dà l’80% e quel sistema il 23%, è che quel sistema del faccio tutto io, ti pago tutto io e ti do una piccola quota è andato un po’ in esaurimento. Gli artisti che oggi sono sotto contratto con le case discografiche, naturalmente, o riescono a fargli spendere tanti soldi, ma ormai saranno rimasti in 5, oppure non ha più senso che rimangano lì.
E infatti, all’interno dei contratti, vedo che ci sono artisti come Ligabue che si fanno solo distribuire. Un motivo c’è: sono contenti di quello che fanno, riescono a farsi un contratto di rinnovo giusto, ma si fanno tutto da soli. Ligabue è un artista che fa tutto da solo. Ha la sua società, ha il suo ufficio, ha i suoi ragazzi. Il suo canale è uno dei più forti in Italia e l’ha fatto lui non una major. Vasco Rossi è lui, non c’è una major dietro. Jovanotti è lui. È un artista che dice “voglio fare questo progetto” e il progetto si fa. 30 anni fa c’era un discografico da coinvolgere, c’erano delle riunioni marketing in cui c’erano delle professionalità che potevano dare un suggerimento all’artista e guidarlo, ma ora sono cambiate anche le persone all’interno di quelle aziende.

Però fino ad ora abbiamo parlato di grossi nomi della musica: Vasco Rossi, Jovanotti, Renato Zero. L’obiezione che si fa verso un modello di questo tipo è “ok, ma prima devi essere famoso per poter stare in piedi da solo”. Un modello DIY come quello che propone una realtà come la 1437 United Artist, può davvero funzionare anche per i piccoli artisti o artisti emergenti?
Assolutamente sì. Noi abbiamo realtà piccole che funzionano per i loro fan. Stiamo lavorando su un progetto per esempio, con una band che ha una comunità molto radicata nel “clero”: è una rock band che suona anche nelle parrocchie e ha una fanbase pazzesca. Il cantante ha pubblicato un libro che è già in ristampa. Non importa quale sia il mercato, noi andiamo anche lì: la fanbase di 15.000 persone. Questi suonano nelle parrocchie e alle feste della gioventù, ma hanno fatto due tour mondiali, il cantante ha pubblicato il libro in 10 paesi, soprattutto in Sudamerica. Oggi ci sono delle realtà che grazie alla disintermediazione della comunicazione, possono arrivare direttamente ai fan, riescono a soddisfare i fan, riescono a vendere direttamente ai fan. E allora, perché non lavorare su quello? Quindi lavoriamo sull’ingaggio delle fanbase, qualunque esse siano. Quanti artisti ci sono che non hanno ancora pubblicato ufficialmente un disco - ne avranno prodotto forse solo uno stampandoselo da sé in modo diciamo pure carbonaro -, hanno un loro videoclip, hanno YouTube, potrebbero andare primi in classifica con noi. La differenza la fa la fanbase. Lavorare sulla fanbase è quello che noi abbiamo percepito fare oggi la differenza.


Ma un artista emergente come fa a crearsi e far crescere la propria fanbase? Una volta c’era il supporto di un’etichetta, ma oggi?
Oggi ci sono tre strade. O fai da solo, vai su YouTube, e se hai qualcosa da dire la gente prima o poi se ne accorgerà. Anche Emis Killa ha iniziato su YouTube, poi si è fatto notare e una casa discografica l’ha preso. Oppure si può provare la strada del Talent. Di fatto il Talent Show ormai è un laboratorio, ha sostituito quelli che erano gli uffici artistici delle case discografiche, dove si faceva lo scouting. Basti pensare che da Amici sono usciti Emma Marrone, Alessandra Amoroso. Da X-Factor è uscito Marco Mengoni.
L’altra alternativa è quella di andare dagli imprenditori; vai in una società indipendente, vai da un imprenditore. In Italia c’è stato Claudio Cecchetto che ora è dedito all’innovazione, ma c’è anche Lorenzo Suraci (presidente di RTL, n.d.r.) che è un talent scout; ha una grande forza alle sue spalle, fatta dalla sua radio.
Oppure appunto ci sono le etichette indipendenti. Quel tipo di imprenditoria, quel tipo di rischio, secondo Noi, è l’antitesi del portare soldi in cassa tramite le operazioni improbabili delle major di cui parlavamo prima”. 

Prendiamo allora il caso che io sia un artista “fai da te”, che si è registrato il suo disco con GarageBand e magari ha già il primo migliaio di mi piace su Facebook. Cosa può offrire una società di intermediazione come la 1437 United Artist all’artista DIY?
Innanzitutto se hai già una fanbase, con i social, se hai qualcosa di nuovo, la tua base già lo sa. Quello che facciamo noi, è andare a consegnargli il disco a casa con il tuo autografo. Possiamo realizzare delle confezioni esclusive intorno alla musica: intorno al CD, che è solo una scusa, possiamo costruire un libro, un gadget, delle chiavette USB. Ci possono essere tante confezioni speciali. Noi ci inventiamo dei progetti da questo punto di vista anche con un po’ di ironia. Perché se tu sei fan di un artista, vuoi anche possedere un oggetto; perché con la tiratura numerata limitata, che quando tu lo fai lo vendi per certo, puoi fare e costruire un oggetto. L’oggetto che costruisci contiene un po’ l’anima dell’artista. E sei un fan, sei anche disposto a pagare 50 o 60 euro per quest’oggetto.


A questo punto viene da chiedersi, ok il cofanetto, ma davvero il supporto fisico ha ancora qualcosa da dire?
In Italia intanto il supporto fisico costituisce comunque ancora una discreta fetta del mercato. Può dire assolutamente qualcosa se viene costruito intorno ad esso non un semplice CD, un pezzo di plastica, ma una storia, un concetto emotivo. Devi trasformarlo in qualcosa che la gente vuole possedere. Poi bisogna tenere presente fasce come, non so, ad esempio le donne dai 45 anni su che non scaricano: in questa fascia demografica, guarda caso, le vendite del fisico sono ancora molto superiori al digitale.

Ma se alla fine la soluzione è realizzare un oggetto del desiderio, non potrebbe benissimo proporla anche la major, che forse ha anche più risorse alle spalle? E invece non accade. Come mai?
La major ha delle griglie di costi che, per il prodotto fisico, non possono superare un tot in percentuale rispetto al prezzo di vendita. Quando ritengono l’operazione superflua rispetto ai margini che la caratterizzano, quel progetto non lo fanno.

Ma le major non dovrebbero avere più margini con prodotti di questo tipo?
No, non è così semplice. Deve essere anche un prodotto che ingaggi. L’interattività con la fanbase la puoi fare solo se metti l’artista al centro, e cerchi di sviscerare tutto. In una major non c’è più il tempo di fare questo, perché quel lavoro sta cambiando e loro non si sono resi conto che stanno lavorando su un mercato in cui hanno peccato di disattenzione, di qualità e soprattutto di passione. Per loro quel lavoro oggi è bene o male sempre una questione di soldi.
Sono persone che sono cambiate molto nel loro approccio, perché ora le senti parlare di quantità, ecc., mentre prima le sentivi parlare di musica, di concerti; oggi francamente parlano solo di numeri, gli interessano solo i risultati. Ma dico, tu sei in un’azienda in cui tu hai anche una responsabilità culturale sul mercato locale; va bene far quadrare i conti, ma perché oggi devono essere solo i produttori indipendenti a fare diversità culturale?

Qual è la risposta degli artisti che lasciano le case discografiche, iniziano a fare tutto da soli e si rivolgono ad un’azienda come la vostra? C’è qualcuno che alla fine dice “ma forse stavo meglio prima”?
Devo dire che noi abbiamo un tasso di soddisfazione di chi sceglie di lavorare con noi molto elevato. Diciamo che devi comunque avere la predisposizione a metterti in gioco, devi avere la voglia di lavorare, perché è un lavoro molto faticoso. Lo sto vedendo ora con giovani artisti con cui stiamo lavorando, dove loro si mettono in gioco in prima persona perché davvero vogliono fare tutto loro.

Ma la vostra sensazione è che gli artisti sono pronti a inseguire questa evoluzione del mercato? Spesso si ha questa percezione dell’artista che è perso nel suo flusso creativo e non ha molto i piedi per terra quando si parla di impresa… o sono più avanti invece delle major rispetto a questo discorso?
Partiamo dalla considerazione che per anni l’artista è stato sempre considerato un minus habens, il disadattato che ha sempre bisogno dell’esperto che lo segue. Certamente c’è sempre bisogno di servirsi di professionalità, promoters, manager con cui fare squadra, non è che uno può letteralmente fare tutto da solo.
In ogni caso sono gli artisti che ci chiamano per lavorare con loro, perché sanno quello che facciamo e hanno bisogno di professionalità. E sono tanti i professionisti che prima lavoravano all’interno delle case discografiche e che ora comunque ne sono usciti anche loro e lavorano direttamente con gli artisti.


Ma in questo mondo dove ormai sembra di capire che tutti sono diventati liberi professionisti, c’è ancora un motivo per scegliere di fare un contratto con una grande casa discografica?
Non c’è più motivo se non… tanto denaro, prendere tanti soldi. Quello è l’unico motivo oggi per firmare un contratto con una major: se prendi dei soldi, tanti. Con minimi garantiti elevati. Tutto il resto non ha senso. È anacronistico, è vecchio.


Ma visto che di “tanti soldi” non sembrano comunque essercene, secondo Voi, è ancora possibile vivere di musica oggi?
E' molto difficile oggi vivere di musica. Primo perché i locali preferiscono prenderti solo se porti come minimo 200 persone. E quindi è anche molto difficile iniziare, ci vuole tanto coraggio. Oggi puoi uscire solo se hai una bestia dentro. Però è difficile quanto oggi è difficile fare, non so, l’architetto, perché oggi ci sono pochi studi di architettura in cui lavorare. Ci vuole molto più tempo a diventare una star e devi avere dei risultati. Sicuramente è un cammino difficile e irto di ostacoli, però, dall’altra parte, sei molto più padrone della tua fanbase rispetto a prima.



Dal vostro punto di vista come giudicate questa polemica sulle royalties dello streaming? Lo streaming può davvero essere il futuro del mercato della musica?
In realtà questo è un problema che riguarda il contratto tra l’artista e chi ha intermediato la pubblicazione sulla piattaforma di streaming, non il servizio in sé. Io sono convinto che lo streaming sia sicuramente il futuro e credo che le cifre più cospicue arriveranno quando davvero sarà un fenomeno di massa, quando lo sarà la subscription premium a Spotify o altre piattaforme. È ovvio che per l’artista dipende dal contratto che hai con il proprietario del catalogo. Se sei il Tom Yorke della situazione che ha un contratto con l’etichetta per l’8 o il 10%, quei ricavi non potranno mai avere un impatto significativo. Gli artisti che si lamentano dovrebbero prendersela non con Spotify ma con gli intermediari, quelli con cui hanno fatto il contratto. In questo c’è la componente “disadattata” dell’artista: “ho firmato una roba, non so bene cosa ho firmato, ma voglio di più”.
Una cosa diversa e assolutamente scandalosa è YouTube, perché tu hai video e audio, un intrattenimento più invasivo e a fronte di che cosa? Cioè, per 100.000.000 di visualizzazioni prendi 80.000 euro, ma di cosa stiamo parlando? E sai per quale motivo abbiamo queste royalties? Perché all’estero le multinazionali hanno firmato quegli accordi, che a noi sono piovuti dal cielo, e oggi non puoi andare da YouTube e dirgli “tu mi devi dare di più di 8 millesimi”, quando tu non hai un catalogo di 50 milioni di brani. La cosa gravissima delle major è che abbiano accettato supinamente accordi ridicoli con YouTube. Se YouTube pagasse anche solo dieci volte quello che paga oggi, che poi sarebbe il minimo sindacale, sicuramente tanta gente potrebbe anche vivere solo di quello.

Ma il vecchio mondo della discografia è tutto da buttare secondo Voi o c’è qualcosa da salvare?
Sicuramente i piccoli imprenditori, le piccole etichette indipendenti, gente che ci mette del suo, la sua passione per scoprire il ragazzino che ci vuole provare o il gruppo che sta li li per esplodere. Quelli sono eroi. Sono eroi perché pur di fare quello che gli piace sono disposti a fare sacrifici e a rimanere in una situazione sempre sul chi va là, per cercare di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per la passione a lavorare in questo settore. C’è tanta purezza in questo discorso.
Comunque, non è che Noi vogliamo demolire le major perché siamo la 1437 United Artist e loro sono le multinazionali. Io dico: “bene, mettetevi su un territorio diverso. Smettetela di pensare", e lo dico ai capi, ai country manager delle multinazionali, "smettetela di pensare solo ai numeri. Cioè, il vostro è un meccanismo che non potrà mai essere favorevole al fan, non può mai ingaggiare il fan, perché voi il fan lo avete disingaggiato, ed è stato solo l’artista a tenerselo. E gli artisti ve li siete tenuti soltanto con i soldi. Invece, trovate delle valide motivazioni. Attorno a quei tavoli, in quelle sale riunioni, inventatevi dei discorsi più logici, più in linea con il mercato, non pensate soltanto che se dite una cosa un pochino più avanti domani perdete il posto”. Non è che siano stupidi nelle major, è che c’è paura, paura di andare via di lì. Paura di essere cacciati. Quando si lavora in un’azienda di un imprenditore, il portafogli che tu stai gestendo è nella porta accanto. Ti fai venire senza dubbio delle idee diverse. Se i soldi non sono tuoi e non ce li metti tu, quello fa la differenza.
"Noi diciamo: aiutate chi in Italia ci mette i propri soldi. Le produzione italiane. Finanziate le aziende italiane. Oggi mancano i talent scout di una volta che andavano a vedere i ragazzi suonare. Non ci sono più quei momenti in cui magari due case discografiche volevano un artista e se lo contendevano. Manca questo, manca la passione, l’amore per quello che si faceva, la determinazione, il dire voglio prendermelo, voglio firmarlo. Ritrovate la passione".


Risultati immagini per accompagnamento è un disegno musicale



L'accompagnamento è un disegno musicale, spesso basato su accordi, che funge da sostegno armonico e ritmico della melodia.
Può spaziare dai semplici canti folcloristici con accordi di chitarra fino ai più elaborati accompagnamenti orchestrali di un'aria d'opera.
Molti brani musicali raggiungono il loro effetto grazie all'accompagnamento: il primo tema del movimento lento della settima sinfonia di Beethoven consiste per esempio in gran parte nella ripetizione della nota Mi che ottiene il suo senso grazie agli accordi d'accompagnamento.
Esistono due tipi di musica senza accompagnamento: la musica monofonica e la polifonia di voci equivalenti, come la si trova nei mottetti del Rinascimento.

Accompagnamento semplice da canzone
Sia con la chitarra all'aperto, col pianoforte sotto l'albero di natale o con la tastiera del coro scolastico: dove si canta, un accompagnamento è sempre il benvenuto; ma quando non ci sono spartiti o simboli degli accordi ciò non è facile ed è consigliabile un po' di conoscenza di teoria musicale.
La maggior parte delle canzoni folcloristiche e per bambini, ma anche molte canzoni della musica leggera, si possono accompagnare con i tre accordi basilari di tonica, dominante e sottodominante.

L'accompagnamento nel corso della storia della musica
Prima del 1600
Le prime forme d'accompagnamento erano probabilmente movimenti a percussione nel ritmo delle melodie cantate, che inizialmente erano battuti sul proprio corpo e più avanti su strumenti a percussione. L'estensione musicale si è manifestato quindi soltanto nel senso ritmico, fatto mantenuto anche quando si sono sviluppati strumenti melodici più evoluti. Nella musica antica e di altre culture (per esempio fino ad oggi nell'opera cinese) l'accompagnamento strumentale d'una canzone consisteva praticamente nel suonare la stessa melodia più o meno ornamentata.
Il termine accompagnamento nel senso odierno poteva quindi nascere solo grazie allo sviluppo della polifonia. Anche delle forme che la anticipavano come l'antifona, responsorio, canone non distinguevano ancora tra canto ed accompagnamento. Solo con la creazione dell'organum, in modo particolare della versione provenzale, nel quale il controcanto è enfatizzato da ornamenti melismatici si può parlare dell'emancipazione del canto principale e della sottomissione delle altre melodie nel accompagnamento.
Ma anche la musica del Rinascimento con la sua polifonia rigida non possiede univocamente un canto principale ed un accompagnamento. Più tardi con l'entrata nella musica barocca questa distinzione è possibile.

Basso continuo
Nella musica barocca si usava soprattutto il basso continuo per accompagnare strumenti solistici nelle sonata od aria. Il basso continuo aveva però anche nell'orchestra il suo posto fisso e serviva come base dell'armonia che naturalmente era supportata anche da altri strumenti. Nel tipico concerto barocco di tipo italiano (Vivaldi) i passaggi dello strumento solista sono accompagnati soltanto dal basso continuo mentre gli intermezzi (ritornelli) erano suonati da tutta l'orchestra (senza solisti).
Nella musica dei maestri barocchi si trovano varie forme e tecniche per l'accompagnamento del canto principale in parte anche senza il basso continuo come per esempio nella "Sonata per 4 violini senza b.c." di Telemann. Per Johann Sebastian Bach ci sono due forme tipiche:
Da un lato usa spesso Ostinati dei motivi musicali semplici sui quali si sviluppano lunghe melodie come nei movimenti centrali dei concerti per violino e del qui rappresentato Concerto Italiano.
Dall'altro lato ci sono strutture polifoniche raffinate dove accompagnamento e canto attraversano diverse melodie principali sostituendosi. Questo si trova spesso in arie con strumenti solistici obbligati nelle cantate e passioni. La rappresentazione mostra un ritaglio del Magnificat dove soprano e Oboe d'amore si dividono il canto principale.

Accompagnamento obbligato
Nella seconda metà del Settecento l'importanza del Basso continuo diminuiva ed i compositori iniziavano a strumentare ed annotare precisamente l'accompagnamento delle loro opere. Questo Accompagnamento obbligato era indirizzato contro la libertà della strumentazione del basso continuo e contro la libertà nell'esecuzione e negli ornamenti dell'accompagnamento. Nel periodo classico non c'era più spazio per improvvisazioni permesse o meglio richieste come nel barocco, che sono stati indispensabili per lo sviluppo dell'opera lirica o del Lied.
Spesso l'accompagnamento obbligato era stato migliorato a partire dalla tecnica barocca, ma qualche volta i maestri usavano regole semplici d'accompagnamento. Un esempio tipico sono gli accompagnamento in 4/4 negli archi che si trovano in molti concerti ed arie di Mozart: in battere sull'uno e tre i violoncelli e contrabbassi suonano la nota base mentre le crome successive erano suonate ad accordi dai violini e le viole.
Il basso albertino (dal nome di Domenico Alberti, che ne fece largo uso) nasce come uno dei presupposti della forma-sonata, nel periodo dell'età galante. Nato per accompagnamenti clavicembalistici, è caratterizzato dall'arpeggio del basso della mano sinistra e non dall'impronta dell'accordo, alleggerendo la forma armonica a beneficio della parte tematica.

Lied ed opera lirica
Già nelle prime opere liriche di Claudio Monteverdi si mostra che il contenuto emozionale d'una melodia ed il suo contenuto testuale può essere amplificato da un accompagnamento adatto. Con passaggi cromatici, accordi a fanfare o dei tremoli l'opera lirica del barocco esprime tristezza, trionfo o paura.
Mozart nelle sue opere liriche fa un passo avanti e svela anche i pensieri ed emozioni non detti dei suoi caratteri con sottili accompagnamenti: nella sua opera tragicomica Così fan tutte esiste a fianco al livello superficiale del testo anche un mondo di emozioni espresse dall'accompagnamento, che non sempre coincide con le affermazioni cantate delle persone. Nella scena della morte di Don Giovanni, nell'opera omonima, se di fronte alla presenza della statua del Commendatore ostenta sicurezza, è l'accompagnamento in sincope dei violini a rivelarci la sua agitazione.
Nel Lied l'"accompagnamento psicologico“, già accennato da Haydn e Mozart, è stato perfezionato da Schubert che riesce a portare l'ascoltatore nell'umore della poesia musicata con poche battute d'introduzione del pianoforte (Der Lindenbaum) oppure a sciogliere tensioni create dal testo con un postludio (Frühlingstraum). Schumann, Brahms e Wolf hanno proseguito questa tradizione.
Nell'opera italiana il canto è tradizionalmente accompagnato con la massima semplicità, da accordi ribattuti o, nei momenti più lirici, da arpeggi larghi di sestine, terzine o quartine, quasi a mo' di chitarra. Esso diviene allora, specie con Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, il supporto metrico, il respiro musicale di fondo su cui il canto si distende e si dipana in tutta la sua limpidezza.
Con lo sviluppo del Leitmotiv come elemento principale per la creazione del tessuto orchestrale nell'opera lirica compositori come Richard Wagner e Richard Strauss hanno avuto a disposizione uno strumento potente con cui non solo i personaggi sul palco esprimono le loro motivazioni ma anche personaggi assenti possono essere richiamati: Quando per esempio alla fine de Il Cavaliere della Rosa la Marescialla parla degli uomini, in generale, l'ascoltatore percepisce che intende specialmente Octavian perché risuona il suo Leitmotiv. A questo punto tuttavia la trama orchestrale guida il discorso musicale e il percorso melodico assai più della linea vocale, cosicché è difficile parlare ancora di accompagnamento in senso stretto.


Balli e musica leggera
I ballerini del barocco distinguevano le singole forme di ballo dal tempo, dai ritmi tipici nella melodia o semplicemente dalla sequenza nella suite. Anche il minuetto del periodo classico ha come caratteristica il ritmo a 3/4, il tempo adagio e la forma A-B-A, ma non ha l'accompagnamento tipico.
Solo nel valzer viennese l'accompagnamento caratteristico con la nota bassa all'inizio della battuta seguita da due gruppetti di chiusura di strumenti più alti diventa l'elemento formante del suono. Questa struttura letteralmente um-pa-pa è presente anche in alcune danze popolari ma ora diventa la caratteristica primaria di riconoscimento del ballo.
Come il valzer anche la polka si riconosce facilmente dal accompagnamento dove si alternano note basse con alti gruppetti di chiusura al ritmo di crome. Lo stesso vale per la maggior parte delle altre danze del XIX secolo.
Anche gli stili della musica leggera del XX secolo si possono distinguere in prima linea dal loro accompagnamento: ritmi tipici, armonie caratteristiche e gli strumenti permettono all'ascoltatore di associare anche un pezzo sconosciuto ad un genere. La musica Rock'n'Roll per esempio si riconosce dall'accordo in settima arpeggiato dal contrabbasso pizzicato e dallo swing negli altri strumenti.
Altri esempi sono i brevi colpi di chitarra "stoppati" del Reggae o i passaggi virtuosi del basso elettrico nel Funk. Nel Rap in cui cantilena parlata melodia ed armonia hanno un ruolo inferiore l'accompagnamento tipico è una figura puramente ritmica.
Nel Jazz l'accompagnamento normalmente è suonato dal gruppo ritmico che può consistere in batteria, contrabbasso, pianoforte od altri strumenti. Ma anche qui spesso singoli musicisti si staccano temporaneamente dal gruppo in modo solistico. Più raramente e principalmente in arrangiamenti di Big Band anche ad altri strumenti Jazz è affidato l'accompagnamento.

Accompagnatori e solisti
Attraverso le varie fasi della storia della musica si nota un certo distacco tra i musicisti degli strumenti di melodia ed i loro accompagnatori. Gli ultimi non sono mai esposti come i solisti anche se la loro funzione è indispensabile, e spesso i virtuosi solisti sorridono alle spalle degli accompagnatori. Musicisti di musica classica amano le barzellette sui violisti o sui contrabbassisti; nel Jazz si fanno dispetti ai chitarristi.
Molti musicisti e teorici hanno pensato a come dovrebbe essere un bravo accompagnatore. Johann Joachim Quantz nel Saggio sul metodo per imparare a suonare il flauto traverso dedicò un intero capitolo ai "doveri di tutti gli strumentisti accompagnatori", dove tra l'altro scrisse:
«Qualunque concertista, quando suona in orchestra (accompagnando), deve, per certi versi, rinunciare al virtuosismo del concertista solista e lasciare la libertà concessagli dai passaggi "a solo", per passare, nel momento in cui si trovi solamente ad accompagnare, ad una sorta di schiavitù. Non può pertanto aggiungere nulla che possa anche solo minimamente offuscare la melodia.»
Nel Metodo per imparare a suonare il violino, Leopold Mozart descrive le qualità che un accompagnatore deve avere:
«Un violinista solista in genere è in grado di suonare in concerto in modo accettabile, anche con successo, senza una profonda comprensione della musica, a patto che l'esecuzione sia pulita; invece un buon violinista che suoni in orchestra, per svolgere con onore il suo compito, deve capire molto bene il senso complessivo della musica e della composizione, nonché i suoi diversi caratteri.»
Oggi la responsabilità dell'esecuzione è affidata piuttosto al direttore che ai singoli musicisti e si può osservare che certi maestri accompagnano volentieri dei solisti mentre altri preferiscono suonare solo con l'orchestra.
Impegnativo è anche il compito dell'accompagnatore di Lied, che da un lato deve saper risolvere la scrittura pianistica elaborata di Schubert o Wolf ma dall'altro lato deve sempre saper ascoltare il cantante, limitarsi nel volume e seguire tempi adatti al canto. Maestri di questo genere sono stati per esempio Gerald Moore e Erik Werba.

Suggerimenti per l'ascolto
Può essere un'esperienza per ogni amante della musica concentrarsi sull'accompagnamento durante l'ascolto. Principalmente si presta naturalmente ogni pezzo, ma alcune opere dei generi e compositori si consigliano.
  • Barocco: I concerti di Antonio Vivaldi e di Johann Sebastian Bach
  • Opera lirica: Le Nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, Norma di Vincenzo Bellini, Rosenkavalier di Richard Strauss
  • Musica per pianoforte: Notturni e Mazurke di Fryderyk Chopin
  • Pop: The Beatles: The White Album