Di tutte le arti la musica è quella
più capace di evocare emozioni. Che sia gioia, commozione, serenità,
eccitamento, malinconia, nessuna emozione è assente dalla tavolozza
della musica, e non vi è nessuno che non abbia provato uno speciale
sentimento all’ascolto di uno speciale brano. La musica può
arrivare a coinvolgere il corpo, a suscitare voglia di muoversi: il
ballo, le marce militari, le danze tribali non esistono a caso.
L’associazione di musica e poesia in una bella canzone può farci
piangere come bambini. Nessun’altra arte – pittura, scultura,
poesia o letteratura, per quanto apprezzata e seguita, s’avvicina
neanche lontanamente alle capacità emotive della musica. Perché?
Cos’ha di speciale questa arte? A quali parti di noi parla così
forte? E come fa?
Certi brani musicali suscitano emozione
in quanto legati a momenti significativi della nostra vita. Questo
caso è semplice da spiegare: la musica rievoca i ricordi, e questi a
loro volta evocano le emozioni. Sono i ricordi, più che la musica, a
suscitare l’emozione. Questo non è molto interessante, e non ne
parleremo ulteriormente.
Ma una musica può evocare emozioni
anche quando la sentiamo per la prima volta: le evoca “per come è”,
non perché già legata a nostre precedenti esperienze. Avviene anche
spesso che ascoltatori diversi senza background comune giudichino
nello stesso modo – allegra o triste, serena o angosciosa,
consonante o dissonante, ecc. – una medesima musica ascoltata per
la prima volta. Tutto ciò suggerisce che la musica “parla” a
parti di noi che abbiamo in comune semplicemente in quanto esseri
umani, indifferentemente da etnia, genere, esperienza, conoscenze,
scolarità, censo, educazione musicale, gusti, tendenze, ecc. È
questo il caso più interessante, e di cui parlerò in questa
risposta. Cominciamo da qualche premessa sulle emozioni.
Emozioni
Le emozioni sono risposte automatiche
del sistema nervoso a stimoli potenzialmente rilevanti per la
sopravvivenza o la riproduzione. Le emozioni più potenti sono
innate, universali, comuni a tutte le popolazioni umane, indipendenti
dalla cultura e dalla esperienza di vita individuale. Queste sono
comunemente dette emozioni primarie. Sono abbastanza poche: paura,
tristezza, gioia, rabbia, disgusto, sorpresa, e alcune altre ancora
non universalmente ammesse fra le emozioni primarie
(serenità/tranquillità, curiosità, attrazione sessuale, amore).
Altre emozioni sono acquisite, apprese, legate all’esperienza
individuale e alla cultura sociale. Di queste non ci occuperemo,
poiché la musica riguarda essenzialmente le emozioni primarie.
Comunicazione emotiva
Oltre al “compito” di produrre una
rapida risposta adatta in situazioni critiche, negli animali sociali
come l’uomo varie emozioni hanno anche lo scopo di suscitare negli
altri emozioni, e quindi azioni, di risposta vantaggiose per chi le
suscita. Ad esempio, l'espressione dell’emozione tristezza suscita
compassione e possibili azioni di accudimento; la rabbia suscita
attenzione e azioni di correzione; la paura suscita azioni di
protezione; la gioia rassicura sull’assenza di emozioni negative e
rinforza il legame sociale. Questa comunicazione interindividuale a
doppio senso avviene a un livello non verbale, non volontario e non
conscio, che “passa” attraverso la postura, la mimica, e i suoni
non verbali. Attraverso queste vie i sistemi limbici di due individui
comunicano direttamente e indipendentemente dalla coscienza,
evocandosi reciprocamente emozioni e relativi comportamenti. I
contenuti veicolabili da una tale comunicazione sono naturalmente
pochi e necessariamente importanti: essenzialmente cosa vorremmo
dall’altro, cosa possiamo aspettarci da lui, e cosa lui può
aspettarsi da noi. Pochi e importanti come le emozioni primarie.
Questo collegamento non verbale ha
rappresentato un mezzo di comunicazione essenziale per centinaia di
migliaia d’anni d’evoluzione umana, e per milioni d’anni
d’evoluzione animale che li ha preceduti. Gli effetti emotivi dei
suoi suoni, e di suoni della natura, sono quelli su cui si basa gran
parte degli effetti emotivi della musica.
Musica
Gli effetti emotivi della musica sono
prodotti, con meccanismi diversi, dal ritmo e dalle note.
Gli effetti del ritmo sono semplici, e
dipendono essenzialmente dalla velocità (in termini musicali il
“tempo”) della musica. Questa si misura in battiti al minuto,
dove, per dirla nel modo più semplice e meno esatto possibile, i
battiti sono quelli con cui batteremmo le mani ascoltando la musica.
Tempi inferiori a 60 battiti al minuto hanno effetto
tranquillizzante, che sotto i 40 diventa addirittura
rattristante/deprimente, tanto da essere utilizzati per marce
funebri. Al contrario, da 80-90 battiti al minuto in su l’effetto è
attivante. La musica da discoteca si situa tipicamente da 120 in su,
con una “fascia bassa” da 107 a 120 per una disco dance
“tranquilla”.
Perché questi valori, e non altri?
Perché l’attività cardiaca umana normale, in veglia a riposo, si
aggira fra i 60 e gli 80 battiti per minuto, tipicamente 70-72. La
frequenza cardiaca di una mamma ha effetto sullo stato d’animo del
bambino che tiene abbracciato al petto, e che ode il cuore di lei. Il
bambino è tranquillizzato da frequenze normali, o lievemente più
lente, che gli comunicano che la mamma sta bene ed è tranquilla, o
addirittura dorme, e tutto va bene. Frequenze più alte indicano che
la mamma è all’erta, o in ansia, e il bambino risponde con analoga
attivazione. Questa risposta emotiva alla frequenza di suoni ritmati,
in particolare quando ricordano il suono dei battiti del cuore come i
tamburi, il contrabbasso e il basso elettrico, ce la portiamo
appresso per tutta la vita. Questa attivazione nasce nei piccoli come
un’attivazione “da paura”, ma con l’abitudine e la
persistente rassicurazione che in realtà poi non accade nulla di
grave perde i connotati paurosi e mantiene solo quelli di attivazione
(facilitata magari in questo da alcol, droghe o bevande tribali).
Gli effetti emotivi delle note sono più
complicati, e per cercare di comprenderli dobbiamo innanzitutto
chiederci perché certe note suonate insieme (armonia, “accordi”)
o una dopo l’altra (melodia) le troviamo gradevoli, o addirittura
allegre, e certe altre sgradevoli o tristi. Come vedremo meglio in
seguito, i cosiddetti accordi “maggiori” sono generalmente
percepiti come “allegri” e quelli “minori” come “tristi”.
Questo è di origine in parte culturale, ma in altra parte innata, e
quest’ultima è interessante nel rapporto fra musica ed emozioni.
Approcciare questi argomenti presume però qualche nozione di fisica
e fisiologia acustiche, oltre che di teoria musicale, che per chi non
le possiede già cercherò ora di fornire nel modo più indolore
possibile.
Ciò che sentiamo come suono consiste
in onde di compressione-rarefazione dell’aria (“onde sonore”)
prodotte dalla vibrazione dell’oggetto che produce il suono
(“sorgente sonora”). Le corde vocali e gli strumenti musicali
sono fatti per questo, ma praticamente ogni oggetto può vibrare e
produrre suono, come l’aria stessa nel vento e nel tuono, il suolo
e gli edifici che tremano per un terremoto, e persino il nostro
torace e addome quando il medico visitandoci li “bussa” con la
punta delle dita. La velocità di vibrazione (frequenza) determina
l’acutezza del suono: tanto più veloce la vibrazione, tanto
maggiore la frequenza ed acuto il suono. La forza della vibrazione
(ampiezza) determina il volume. Una nota musicale è un suono di
frequenza definita: ad es. un suono a 262 oscillazioni al secondo è
un Do, uno a 440 è un La. Una frequenza doppia dà la medesima nota,
ma più acuta; una frequenza dimezzata ancora la medesima nota, ma
più grave. L’intervallo di frequenze fra una nota e la stessa nota
a frequenza doppia è detto ottava, e contiene tutte le note
intermedie.
Un punto cruciale per spiegare parte
degli effetti emotivi dei suoni è che, come osservato fin
dall’antichità, due o più note diverse suonate insieme o una dopo
l’altra ci piacciono tanto più (le troviamo più “consonanti”)
quanto più è semplice il rapporto fra le loro frequenze. Se
dividiamo l’intervallo di un’ottava in modo da avere sette note
che siano il più equidistanti possibile, ma le cui frequenze stiano
anche con la prima nel rapporto più semplice possibile, abbiamo,
dalla prima alla settima nota, i seguenti rapporti: 1/1, 9/8, 5/4,
4/3, 3/2, 5/3, 15/8 (e l’ottava è ovviamente a 2/1). Note così
disposte costituiscono la cosiddetta scala naturale. È facile
constatare che i rapporti più semplici corrispondono alle minori
somme numeratore + denominatore nelle dette frazioni. Il rapporto più
semplice di tutti è 3/2, cioè quello fra la nota fondamentale e la
quinta, pertanto detto intervallo “di quinta”. La fondamentale e
la quinta sono le due note che, se suonate insieme o una subito dopo
l’altra, sentiamo più consonanti (esempi: Do-Sol, Mi-Si, Sol-Re).
Il rapporto che si situa secondo nella scala delle consonanze è
quello di quarta, 4/3 (Do-Fa, Mi-La, Sol-Do). È interessante notare
che la maggioranza delle canzoni popolari di successo “facili” e
orecchiabili è costruita proprio sui tre accordi le cui fondamentali
stanno fra loro in rapporto di quinta e di quarta (es. Do, Sol e Fa;
Mi, Si e La; La, Mi e Re; ecc.).
Se passiamo a tre note suonate insieme
(“accordo”) il principio rimane lo stesso: le tre note stanno
tanto meglio insieme quanto più semplici sono i rapporti fra loro;
ma la faccenda si complica perché occorre considerare tre rapporti
anziché uno. Se suoniamo insieme le tre note più consonanti, la
fondamentale la quarta e la quinta, ci accorgiamo che il risultato
non è molto gradevole. Questo avviene perché la quinta è seconda
rispetto alla quarta, sicché il rapporto fra loro è 9/8. Un
risultato migliore, anzi il migliore possibile, l’abbiamo prendendo
come nota intermedia non la quarta, ma la terza (esempi: Do-Mi-Sol,
Fa-La-Do, Sol-Si-Re). In questo caso infatti la quinta è terza
rispetto alla terza, per cui i tre rapporti sono 5/4, 4/3 e ancora
5/4. Così l’accordo più gradevole di tre note è quello
“fondamentale + terza + quinta”, e questa triade rappresenta
l’accordo per antonomasia.
Fino a questo punto abbiamo considerato
un’ottava divisa in sette note. Ma per una maggiore ricchezza
espressiva della musica si può dividere in più note. La scala
naturale di cui abbiamo finora parlato, quella più “naturale” e
consonante per l’orecchio, utilizza in effetti 13 note, in rapporto
con la fondamentale rispettivamente 1/1, 16/15, 9/8, 6/5, 5/4, 4/3,
45/32, 64/45, 3/2, 8/5, 5/3, 9/5, 15/8. Negli ultimi due secoli la
musica occidentale utilizza invece prevalentemente una scala di 12
note ottenute suddividendo l’ottava in 12 parti logaritimicamente
uguali, detta scala equabile 12-TET, che presenta il vantaggio che
qualsiasi strumento può suonare in tonalità differenti (utilizzare
come nota fondamentale della scala una qualsiasi delle 12 note) senza
doverlo ri-accordare. Nessuna delle 12 note della scala 12-TET
coincide esattamente con una delle 13 note della scala naturale;
tuttavia per alcune (la seconda, la quarta e la quinta) la differenza
è talmente piccola che l’orecchio umano non è in grado di
avvertirla, e restano valide tutte le considerazioni che abbiamo
fatto circa la gradevolezza o meno degli intervalli nella scala
naturale. Per le altre note, quelle della scala 12-TET si situano
lievemente sopra (sono crescenti) o sotto (calanti) rispetto alle
corrispondenti note naturali. Queste differenze non sono tali da
invalidare quanto detto finora, ma sono tali da aggiungere invece un
ulteriore elemento importante rispetto agli effetti emotivi della
musica: infatti le note crescenti suonano allegre, ravvivanti; quelle
calanti suonano tristi, deprimenti. È questo il motivo per cui nella
musica a cui siamo oggi abituati certi accordi hanno effetto
rallegrante, attivante, e altri rattristante: la nota intermedia
dell’accordo, quella dell’intervallo di terza, è crescente
(“accordo maggiore”) o calante (“accordo minore”) rispetto
alla nota che il nostro orecchio inconsciamente sente come “naturale”
per quell’accordo, e questo ha effetti psicologici significativi.
Abbiamo elencato le più importanti
relazioni fra le caratteristiche fisiche della musica e suoi effetti
sulle emozioni. Dobbiamo ora chiederci: perché? Perché le note che
sono in rapporti di frequenza semplici fra loro ci risultano più
gradevoli di quelle con rapporti complessi? E perché una nota
crescente rispetto a una nota “naturale” ha effetto rallegrante e
attivatore, e una nota calante effetto rattristante e deprimente?
Per la prima domanda dobbiamo
considerare le armoniche. In quasi tutte le vibrazioni naturali, alla
vibrazione fondamentale che definisce la nota si sovrappongono anche
vibrazioni a frequenze più alte, multiple della prima, dette
armoniche, di ampiezze relative diverse secondo l’oggetto che
produce il suono. In altri termini, la nota fondamentale è sempre
accompagnata da altre note più acute, in proporzioni differenti
secondo i differenti oggetti che producono i suoni. Sono queste –
insieme alla variazione d’ampiezza del suono nel tempo, anch’essa
caratteristica di ciascun oggetto e detta inviluppo – a dare ad
ogni diversa sorgente sonora il suo timbro (o colore) caratteristico,
a rendere diverso il suono di una chitarra da quello di un flauto.
I suoni che ci provocano istintivamente
paura sono rumori prodotti in natura da eventi potenzialmente
pericolosi come terremoti, frane, fulmini, esplosioni. Tutti questi
sono suoni che contenengono un gran numero di armoniche, note che
stanno fra loro in rapporti di frequenza qualsiasi, quindi anche in
rapporti molto complessi e disordinati. Viene naturale ipotizzare che
il nostro sistema nervoso sia predisposto a considerare allarmanti,
sgradevoli, da fuggire, i suoni di questo tipo; e che per contrasto
trovi gradevoli i suoni che stanno fra loro in rapporti semplici, e/o
le cui armoniche siano semplici o comunque ben caratterizzate, non
caotiche. È come se suoni di questo tipo dicessero “va tutto bene,
nessun pericolo”.
Per ipotizzare una risposta alla
seconda domanda dobbiamo ricordare quanto detto sopra circa i suoni
non verbali nella comunicazione primordiale. I suoni calanti sono
tipicamente emessi da animali sofferenti o moribondi; lo spegnersi
del lamento nel rantolo è tipico della situazione agonica. È
probabilmente su questo che il nostro sistema nervoso, prima
d’imparare a parlare, ha imparato a utilizzare i lamenti per
comunicare sofferenza, lamenti che tipicamente hanno una tonalità
calante. Per il solito meccanismo del contrario, fonazioni gioiose,
eccitate, attive, hanno tipicamente un andamento crescente. Anche nel
canto una stonatura “calante” è più avvertibile e meno
tollerata di quella “crescente”. È insomma probabile che gli
accordi maggiori e quelli minori abbiano effetti emotivamente opposti
in quanto rievocano a livello inconscio le emozioni connesse a questo
tipo di comunicazione non verbale, spontanea e involontaria.
Conclusioni
In tutti i casi che abbiamo esaminato
sono naturalmente i centri e circuiti “delle emozioni” nel
cervello, il cosiddetto sistema limbico, a reagire istintivamente ai
messaggi impliciti contenuti nella musica. I rapporti fra sistema
limbico ed emozioni, emozioni e musica, sistema limbico e musica,
sono ormai accertati e rappresentano un importante campo di ricerca
in neuroscienze. Tuttavia, pur accertati e diffusamente considerati,
restano ancora largamente oscuri nei loro meccanismi. In questa
risposta ho descritto conoscenze e proposto ipotesi d’interpretazione
di alcuni di questi meccanismi alla luce delle attuali conoscenze in
fisica acustica, neurofisiologia e psicologia.