Nella lunga storia del cinema ci sono figure che, pur avendo contribuito in modo decisivo alla creazione di icone culturali, restano ai margini della memoria collettiva. Il nome di Matthew DeMeritt, oggi quasi sconosciuto al grande pubblico, appartiene proprio a questa categoria: è lui, un bambino nato senza gambe, che nel 1981 diede vita ai movimenti più realistici di ET, l’extraterrestre del capolavoro di Steven Spielberg. La sua presenza sul set non fu soltanto un contributo tecnico, ma una lezione di ingegno, determinazione e creatività che ancora oggi illumina l’invisibile lavoro dietro la magia cinematografica.
La storia di DeMeritt inizia lontano dagli studi hollywoodiani. Nato senza arti inferiori, aveva imparato fin da piccolo a spostarsi con straordinaria agilità utilizzando le mani. Fu proprio questa abilità, affinata nella vita quotidiana, a proiettarlo in un mondo che non avrebbe mai immaginato di sfiorare: quello di una grande produzione cinematografica. Il suo incontro con il team di Spielberg fu del tutto casuale. Durante un normale casting per un programma di fisioterapia in California, il giovane Matthew venne notato da alcuni membri della produzione, che rimasero colpiti dalla sua capacità di camminare sulle mani con fluidità e sicurezza, caratteristiche perfette per riprodurre l’andatura volutamente goffa e straniante dell’alieno protagonista.
La produzione prese misure e girò alcune riprese di prova. Lo stesso Matthew raccontò in seguito il suo stupore: “Non avevo mai mostrato a nessuno come camminavo sulle mani… non capivo come potessero pensare che potessi entrare in un costume. E invece è successo.” L’occasione si trasformò in destino. Così, mentre i movimenti ravvicinati e le espressioni facciali dell’alieno erano affidati a sofisticati animatroni, burattinai e stuntman adulti, le sequenze a figura intera, quelle in cui ET cammina, cade o si muove goffamente in scena, furono interpretate proprio da Matthew DeMeritt.
L’esperienza sul set non fu semplice. Per interpretare ET, Matthew indossava una tuta di gomma lunga circa un metro e venti, dentro la quale doveva muoversi con precisione millimetrica nonostante la scarsa visibilità e il peso non indifferente del materiale. La testa dell’alieno veniva posizionata sopra la sua, mentre lui usciva con le braccia attraverso apposite fessure collocate nel torace del costume. Era un sistema ingegnoso, ma impegnativo. Inoltre, molte scene richiedevano cadute e movimenti bruschi: quella in cui ET, ubriacandosi accidentalmente, barcolla e cade scompostamente è una delle tante che furono realizzate da Matthew.
Spielberg seguiva tutto con grande attenzione. Nonostante gli impegni di un set gigantesco, trovava il tempo di assicurarsi che il giovane interprete fosse sempre al sicuro. Matthew ricordò chiaramente la cura del regista: “Spielberg venne da me e mi chiese se stavo bene. Poi disse: ‘C’è un modo per andare dritto verso quell’armadio… e cadere a faccia in giù?’” È un aneddoto che rivela la delicatezza del rapporto tra un regista visionario e un bambino chiamato a svolgere un compito fisicamente impegnativo ma determinante per la resa del film.
Nonostante il contributo fondamentale, il nome di Matthew DeMeritt rimase quasi invisibile per decenni. Nei titoli di coda non compariva un riconoscimento evidente, e solo gli appassionati più attenti conoscevano l’esistenza di un piccolo interprete nascosto dentro l’alieno più amato della storia del cinema. La sua figura emerse progressivamente solo grazie alle retrospettive, ai documentari per gli anniversari del film e alle testimonianze degli addetti ai lavori. È così che il pubblico ha cominciato a scoprire la storia di quel bambino che, camminando sulle mani, aveva donato ET quell’inconfondibile naturalezza che gli animatroni dell’epoca, pur avanzati, non erano ancora in grado di replicare.
Oggi, a distanza di oltre quarant’anni dall’uscita del film, Matthew DeMeritt è probabilmente l’unico attore vivente ad aver davvero indossato il costume di ET. Una sopravvivenza simbolica, certo, ma anche un segno della fragilità della memoria cinematografica: dietro a ogni leggenda ci sono mani che restano nell’ombra, contributi dimenticati, decisioni tecniche e artistiche che concorrono a plasmare un’immagine destinata a diventare universale.
La sua vicenda ricorda che il cinema non è soltanto l’opera di un regista o di un cast di star, ma il risultato di un mosaico complesso, dove ogni tessera, anche la più piccola, è indispensabile. E che spesso il cuore di un’icona batte proprio grazie a chi non si vede. In questo senso, Matthew incarna alla perfezione il ruolo dell’“eroe silenzioso”: un bambino che, pur senza mai apparire con il suo volto, ha dato corpo e movimento a una creatura che ancora oggi incanta generazioni.
La storia di Matthew DeMeritt è più di un semplice aneddoto da dietro le quinte. È un invito a riconoscere il valore di ciò che resta fuori dall’inquadratura, delle vite e delle abilità che fanno funzionare la macchina del cinema. ET non sarebbe stato ET senza quell’inconfondibile andatura, un misto di fragilità e curiosità infantile. Ed è grazie a un bambino che ha imparato a camminare con le mani — perché non aveva gambe, ma aveva una forza tutta sua — che quell’illusione è diventata reale.
In un’epoca in cui la tecnologia domina la produzione visiva e l’animazione digitale può generare qualsiasi movimento con precisione chirurgica, la storia di Matthew ci ricorda la magia irripetibile di un’epoca in cui il cinema era soprattutto ingegno umano, talento fisico, e quel tocco impercettibile ma insostituibile che solo una persona reale può dare. È la prova vivente — e camminante — che anche i gesti più umili possono creare icone immortali.
Una storia così meritava di emergere, e forse proprio perché è lontana dai riflettori, risuona ancora più forte: dietro ogni extraterrestre, dietro ogni sogno proiettato sullo schermo, ci sono mani, cuori e vite reali. E tra quelle mani invisibili, ce n’erano due che camminavano.