C’è stato un tempo in cui il nome di Steven Seagal risuonava
con lo stesso peso di Jean-Claude Van Damme o Chuck Norris. Parliamo
dei primi anni ’90, l’epoca d’oro del cinema marziale
hollywoodiano, quando ogni bambino, adolescente e adulto appassionato
di botte al rallentatore poteva snocciolare un dibattito serrato su
chi avrebbe vinto in un ipotetico scontro tra le tre icone. Seagal
era lì, al centro della conversazione. E per un attimo, sembrava
davvero destinato a diventare uno dei grandi del genere.
Ma qualcosa si è spezzato. O forse più di qualcosa.
Steven Seagal fece il suo debutto cinematografico nel 1988 con
Above the Law (Nico), presentandosi come un eroe d’azione
diverso: più freddo, più imperturbabile, più “letale”,
per usare la terminologia da VHS dell’epoca. Con il suo fisico
longilineo, lo sguardo glaciale e lo stile di combattimento
minimalista, sembrava un samurai piovuto sulle strade di Chicago. Non
faceva piroette, non gridava, non sanguinava: colpiva con precisione
chirurgica, spesso senza sporcarsi il giubbotto.
Il suo background in Aikido, allora poco
conosciuto in Occidente, dava al pubblico l’illusione di trovarsi
davanti a un vero maestro zen. L’atteggiamento misterioso, il tono
di voce sommesso, la promessa di un passato da agente sotto
copertura: tutto contribuiva a costruire un mito che funzionava sul
grande schermo. Film come Hard to Kill (Duro da uccidere),
Marked for Death (Programmed to Kill) e soprattutto Under
Siege (Trappola in alto mare) consolidarono la sua fama. Under
Siege, in particolare, fu un vero successo commerciale e di
critica, e sembrava segnare il punto di non ritorno: da lì in
avanti, Steven Seagal era una star.
Poi accadde qualcosa. O meglio: iniziarono ad accumularsi i
limiti del personaggio e dell’uomo. I film successivi non
solo diventavano sempre più simili tra loro, ma Seagal sembrava aver
raggiunto il picco troppo presto e senza
reinventarsi. Mentre Van Damme si spingeva verso ruoli più emotivi e
Chuck Norris coltivava una solida fanbase televisiva con Walker
Texas Ranger, Seagal continuava a interpretare versioni appena
sfumate dello stesso personaggio invincibile, infallibile e
noiosamente distaccato.
C’era un problema fondamentale nei suoi ruoli: non
perdeva mai. Non si faceva mai davvero male, non mostrava
vulnerabilità. Anche in mezzo a sparatorie, combattimenti e
imboscate, Seagal sembrava una divinità intoccabile, cosa che, in
un’epoca in cui il pubblico cercava sempre più eroi con difetti,
lo rese prevedibile. Mentre Van Damme finiva
massacrato in In Hell o si scontrava con i demoni interiori
in JCVD, Seagal sembrava voler restare imprigionato in
un’immagine monolitica, senza alcuna evoluzione.

Poi ci fu il corpo. Con il passare degli anni, il fisico
longilineo lasciò il posto a una figura più pesante, più statica,
meno credibile in ruoli d’azione. Ma non era solo una questione
estetica: il problema era che Seagal, anziché adattarsi, cercava
ancora di vendere la stessa figura ipercompetente e sovrumana di
vent’anni prima, risultando ridicolo.
Se fosse stato solo una questione di scelte artistiche sbagliate,
forse Steven Seagal avrebbe potuto riconquistare il rispetto del
pubblico con qualche mossa coraggiosa. Ma l’uomo reale si è
rivelato essere molto meno affascinante del suo personaggio
cinematografico.
Numerose accuse – alcune supportate da testimonianze pubbliche –
lo hanno colpito nel corso degli anni. Parliamo di comportamenti
tossici sul set, molestie sessuali, bullismo verso colleghi e
comparse, fino a dichiarazioni assurde e megalomani in interviste e
apparizioni pubbliche. Non si è mai completamente scrollato di dosso
la reputazione di essere arrogante, egocentrico e, talvolta,
pericoloso.
A peggiorare la situazione, ci si è messo l’allineamento
politico esplicito. Seagal ha stretto rapporti con figure
autoritarie, in particolare Vladimir Putin, da cui
ha ricevuto la cittadinanza russa nel 2016. Il suo sostegno aperto
alla Russia, in un momento storico in cui il mondo guardava con
sospetto (e poi con orrore) le mosse del Cremlino, ha definitivamente
compromesso la sua immagine in Occidente. Anche tra gli appassionati
più fedeli di cinema d’azione, questa amicizia è stata
vista come una rottura irreparabile con la morale
hollywoodiana.
Probabilmente no. E non per mancanza di talento fisico o di
presenza scenica – almeno nei suoi primi anni. Ma perché non
ha mai saputo (o voluto) crescere con il suo pubblico.
Mentre altri attori del genere sono invecchiati esplorando lati nuovi
del proprio personaggio (Stallone con Rocky Balboa,
Schwarzenegger con Maggie, Van Damme con JCVD),
Seagal è rimasto ancorato a una figura mitologica e piatta, priva di
evoluzione narrativa.
In più, il suo ego ha spesso ostacolato la collaborazione con
registi o sceneggiatori capaci. Un grande talento può emergere solo
se guidato, se sfidato, se messo in discussione. Steven Seagal ha
spesso scelto la via dell’autoproduzione, dell’isolamento,
del controllo assoluto, anche quando non era più
all’altezza di gestire la propria immagine.
Steven Seagal è stato per un breve momento una delle
stelle più luminose del cinema d’azione, ma la sua
traiettoria è diventata un monito per attori e artisti: il
talento iniziale non basta, e l’arroganza è una nemica
silenziosa che lavora a lungo termine. Avrebbe potuto essere
ricordato come uno dei grandi. Invece, è diventato un meme vivente,
un uomo che si prende troppo sul serio in un mondo che ha smesso da
tempo di prenderlo sul serio.