Bob Hoskins in Chi ha incastrato Roger Rabbit
(1988) ha compiuto un’impresa recitativa titanica, spesso
ignorata perché nascosta — o meglio, immersa — nel mondo
iperattivo e surreale dell’animazione. Ma è proprio questo il
paradosso: la sua performance è talmente efficace da
sembrare invisibile, e per questo è stata sottostimata
dalla critica e dimenticata dalle grandi premiazioni.
Hoskins ha interpretato Eddie Valiant, un
detective stropicciato e dolente, in un film in cui quasi
tutti gli altri personaggi con cui interagisce non esistono
fisicamente. Questo non era semplice CGI. Parliamo di
un'epoca in cui gli attori dovevano recitare guardando a
vuoto, rispondendo a battute che non sentivano, interagendo con
oggetti che sarebbero stati aggiunti dopo, o con animatori fuori
campo e pupazzi provvisori.
In un'intervista, Hoskins raccontava che dopo le riprese cominciò
a vedere personaggi animati ovunque: tanto era stato il lavoro di
immedesimazione e concentrazione necessario a mantenere la coerenza
fisica ed emotiva in scena. Era arrivato a ingannare il proprio
cervello, sviluppando una forma di allucinazione percettiva
dovuta allo sforzo di interazione con personaggi inesistenti. Un
impegno che va ben oltre il metodo Stanislavskij: è tecnica,
resistenza e immaginazione ai massimi livelli.
Ma ciò che rende il suo Eddie Valiant straordinario non è solo
la perizia tecnica. È la profondità emotiva e la tragicità
sobria che Hoskins riesce a trasmettere in un film che,
sulla carta, avrebbe potuto essere solo una commedia slapstick per
famiglie.
Valiant è un uomo segnato. Ha visto morire il fratello in un modo
assurdo, è caduto nell’alcolismo, nella misantropia, nel lutto
congelato. Soffre di PTSD, di depressione
latente, e vive in una società dove i cartoni animati non
sono solo metafora, ma entità con una propria fisicità. Il suo
disprezzo per i “Toons” è la forma narrativa scelta per
raccontare il dolore non elaborato.
E Hoskins riesce a non scivolare mai nella caricatura,
nonostante si muova in un mondo fatto proprio di esagerazioni. Il suo
Valiant è stanco, affilato, dolente, ma con un fondo di
dolcezza e umanità che affiora progressivamente nel film,
fino al ritorno del sorriso. Il suo arco narrativo è completo e
credibile, nonostante sia costruito dentro un universo delirante.
Questo è, probabilmente, il suo più grande miracolo.
Chi ha incastrato Roger Rabbit non è solo un film tecnicamente
rivoluzionario: è un atto d’equilibrismo perfetto tra cinema
noir, commedia animata, critica sociale e tragedia privata.
Hoskins è il perno che tiene tutto in piedi. E lo fa senza
mai rubare la scena ai personaggi animati, pur restando
assolutamente centrale.
Chiunque abbia studiato recitazione sa quanto sia difficile
giocare di sottrazione. Farlo in un film dove ogni
altro elemento urla, salta e si contorce, è quasi impossibile.
Eppure Hoskins riesce ad ancorare il film alla realtà,
facendo da ponte tra noi spettatori e l’universo dei Toons. Non è
una performance “esagerata” o “emotivamente esplosiva”, ma
proprio per questo è profondamente umana e misurata.
La ragione per cui Bob Hoskins non ricevette una nomination
all’Oscar per il suo ruolo è, con tutta probabilità, l’incapacità
dell’Academy di interpretare correttamente un film che rompeva i
confini tra generi. Era una commedia animata? Era un noir
postmoderno? Era cinema per famiglie? Era sperimentazione tecnica?
Nessuno lo sapeva esattamente — e i premi, si sa, tendono a
ignorare ciò che non riescono a classificare.
Eppure il film vinse quattro Oscar tecnici, e
viene oggi ricordato come uno dei grandi capolavori della fine degli
anni Ottanta. Ma l’unico vero corpo umano del film fu
ignorato, forse proprio perché troppo convincente. Se
avesse recitato accanto a un partner umano, probabilmente avrebbe
ricevuto non solo la nomination, ma anche la statuetta.
C’è un concetto in critica cinematografica secondo cui la
recitazione più difficile è quella che non sembra recitata
affatto. Hoskins non fa “il duro da noir”, lo è.
Non interagisce “con i cartoni”, li tratta davvero come se
fossero reali. Non interpreta una tragedia, la vive sul
volto, nella voce, nei piccoli gesti.
Per molti versi, è il padre spirituale di ruoli come
quello di Ian Holm in “Il Signore degli Anelli”, o Andy Serkis in
“Il pianeta delle scimmie”: grandi attori che lavorano
al servizio di un mondo irreale, ma che lo rendono credibile perché
trattano quel mondo come reale, senza mai ammiccare.
Bob Hoskins in Chi ha incastrato Roger Rabbit non ha
semplicemente interpretato un personaggio: ha tenuto in piedi
un intero universo narrativo, lavorando contro tutte le regole della
recitazione tradizionale. Non aveva nessuno a dargli la
battuta, nessuno a guardarlo negli occhi. Eppure ha costruito un
protagonista tridimensionale, doloroso, ironico e autentico, in un
mondo che di autentico non aveva nulla.
È forse questa la più grande ingiustizia critica degli ultimi
decenni: che una delle performance più complesse,
equilibrate e necessarie della storia del cinema moderno sia stata
dimenticata perché sembrava troppo naturale per essere vera.
Eppure, se si tolgono i cartoni, rimane un noir
malinconico con una delle migliori interpretazioni drammatiche mai
date da un attore britannico negli anni ’80.
Bob Hoskins non recitava con Roger Rabbit. Recitava con il
suo immaginario, e ci credeva così tanto da farci credere anche a
noi.