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E poi devi telefonare a un numero e guidare fino alla stazione di rifornimento e aspettare comprando delle Rizla per combattere il panico… E poi guidi lungo tutta la M25 per diciassette volte… sempre esattamente diciassette volte… E poi ci arrivi, tutti quei tamarri, a migliaia, come bufali, un esercito di tute in acetato… Bè, le tute in acetato non erano ancora state inventate, ma, cioè… naturalmente, a quei tempi tutte le pasticche costavano 75 sterline, che valevano circa 8000 sterline di oggi, ma erano incredibili, ti portavano letteralmente nello spazio più profondo, mi ricordo che ero così stordito che sono volato via come un razzo e non potevo in alcun modo smettere di orbitare intorno alla Nebulosa del Granchio… Era anche molto più intimo: tipo quando Oakenfold ha messo un disco di Lil Louis per la prima volta e ci è sembrato che lo facesse girare direttamente sulla schiena del mio amico…
Il 1990 è stato uno di quegli anni in cui si pensa di poter rimanere giovani per sempre. I raver britannici non se l’erano mai passata così bene. Quelli che ora consideriamo cliché allora sembravano la cosa più fresca del momento. Tutti i domani iniziavano oggi. Nel momento in cui il Muro di Berlino era caduto e la polvere iniziava a posarsi sul Nuovo Ordine Mondiale, la parole d’ordine era ottimismo, la droga felice era la nuova religione e per un brevissimo istante gli hippie avevano smesso di farsi pisciare in testa dai barboni di passaggio ed erano diventati i veri fichi.
Sicuramente il Regno Unito era il centro nevralgico di tutto questo. Aveva definito il sentimento generale, il significato, di tutto. Ma, allo stesso tempo, non era l’unica nazione con la fissa del neon, quell’anno. Seimila miglia più a sud un gruppetto di ragazzini svalvolati, per una ragione o per l’altra, erano scesi giù a Cape Town, in Sud Africa. Durante gli anni successivi quei ragazzini sono riusciti a portare la cultura dei beat ripetitivi nel Continente Nero, in una nazione che stava riemergendo da un pantano culturale ben più profondo e denso di quello fatto di cliché, trench e cardigan che rappresentavano gli anni Ottanta della Thatcher.
“La nightlife sudafricana era una merda in quegli anni,” si lamenta Jesse Stagg, co-proprietario numero uno di Eden, “Era una combinazione di terribile pop anni Ottanta: Kylie, Jason, Boy George… e robaccia goth. I goth andavano alla grande qui. Oltretutto sembrava di essere rimasti incastrati negli anni Settanta. Andavano tantissimo i Doors.”
“Tutti erano in fissa con Armani e La Febbre del Sabato Sera. Davvero ‘cool’.” Carl Mason, l'altra metà di Eden, interviene, “Ero depresso. Avevo lasciato la mia vita fatta di feste in Inghilterra, per venire qui, e mi ricordo che a volte rimanevo bloccato a pensare: ‘Gesù, che cazzo mi è saltato in mente?’”
Diciamo che quel posto era un tantinello indietro. Questa, dopotutto, era una nazione in cui la televisione era arrivata soltanto nel 1978 perché il governo nazionalista pensava che avrebbe avuto un’influenza corruttiva. Nel Sud Africa del 1990, a causa del boicottaggio di Equity, per poter guardare Fawlty Towers bisognava contrabbandare gli episodi su videocassette registrate in casa. Quando non stavano ascoltando bootleg di Rodriguez o non erano coscritti nell’esercito per combattere guerre illegali in Angola, i giovani bianchi del Sud Africa amavano rilassarsi spassandosela dai due ai cinque anni indietro nel tempo rispetto al resto del pianeta.
Ma nel febbraio 1990 Nelson Mandela, appena rilasciato, si è affacciato a un balcone durante la Grand Parade di Cape Town e ha spiegato a tutti che stavano per diventare liberi e vivere meglio. Il cambiamento era nell’aria. Anche se non era ancora atterrato al suolo. Jesse e Carl si sono conosciuti in quello che era il centro della vita notturna di Cape Town: Idols, quello che voi chiamereste una "discoteca", piazzata in fondo a Shortmaket Street, che soddisfava i bisogni della sua clientela pseudo-sofisticata con paralumi pseudo-sofisticati, pavimenti in legno pacchiani e piena di palle stroboscopiche.
Il papà di Stagg era uno sceneggiatore che aveva ottenuto un grande successo. Era cresciuto a metà tra il Sud Africa e Los Angeles. Si ricorda di come registrasse una quantità industriale di hip-hop dalle radio americane per poi portarlo in Sud Africa ogni volta che veniva rimandato a casa. Il padre di Carl, dal canto suo, si era risposato ed era andato in Sud Africa per la luna di miele. Annebbiato dall’erba, si era in qualche modo dimenticato di tornare in Inghilterra e aveva iniziato a lavorare in un negozio di abbigliamento trendy in città.
Nel 1990, però, ha iniziato a rimpiangere amaramente la decisione. Era già stato un pezzo grosso della scena inglese e sosteneva anche di aver ospitato il "primo party di acid house all’aperto" nel suo grande prato inglese alle porte di Romford. Will Hutton, il loro terzo socio, conferma la storia: “Carl mi ha telefonato e mi ha chiesto se volessi mettere un paio di dischi alla sua festa. Sapevo che frequentava una scuola d’arte. Immaginavo che ci sarebbe stato solo qualche suo compagno di corso. Invece aveva montato due grandi tendoni, c'erano duemila persone lì sotto, e altre duemila che urlavano ai cancelli per poter entrare. Gli agenti anti-sommossa era tutti all’esterno e poi sono arrivati Boy George, Sade e Aswad. Stavano suonando Paul Oakenfold e Danny Rampling. Mi ricordo che ero piuttosto eccitato–forse avevo tirato giù un po’ troppe paste. Mi hanno presentato a Danny Rampling e allora mi sono avvicinato per stringergli la mano, ma l’ho mancato, e sono svenuto ai piedi di Boy George.”
Nonostante la bruttezza dell'Idols, tra i due si era creato un legame: Jesse ha spiegato che stava cercando un coinquilino e, in meno di una settimana, Carl ha traslocato da lui tutti i suoi possessi: un letto, una TV e una tavola da surf. I due hanno presto iniziato a promuovere feste fatte in casa usando il marchio UFO, che stava per Unlimited Freak Out, iniziando poi una serata settimanale al sabato sera chiamata Front, che si teneva in uno spazio squallido su Long Street, suonando un mix di acid house e hip-hop. “Erano questi i generi più comuni in quei giorni,” mi ha spiegato Stagg. “Quello che la gente si dimentica è che a quei tempi tutto si accavallava. Che ne fossero consapevoli o meno, la maggior parte degli artisti hip-hop dell’epoca aveva almeno una traccia house sui loro album.”
Mentre, etnicamente parlando, fino a poco tempo prima sapevi sempre dov'eri collocato, la Acid House ha rappresentato un punto di incontro fresco tra le tribù, nella terra di mezzo tra The Doors e Grandmaster Flash. Nel contesto sudafricano, con le leggi di segregazione ormai ignorate, tecnicamente ancora valide ma inapplicate, l’Acid House ha creato un territorio dove i ragazzini, divisi dai binari del treno che tenevano letteralmente separate le diverse etnie in cui era spaccata la città, potevano finalmente far balotta insieme.
Quindi è successo che, per trovare un DJ con un adeguato corredo di vinili super costosi e d’importazione, Stagg ha attraversato i binari, recandosi nella parte hip-hop della città. DJ Rozzano, "una delle prima persone a suonare house in Sud Africa," stando a quanto dice lui, era resident nell’unico club multi-razziale della città: The Base. “The Base era uno show pomeridiano,” spiega. “Perché per il modo in cui era costruita la città, la maggior parte dei non-bianchi viveva sul confine, quindi per colpa della distanza e della mancanza di trasporti pubblici doveva essere per forza al pomeriggio, per permettergli di tornare a casa.”
“Noi persone di colore abbiamo iniziato a entrare davvero in città solo in quel periodo.” Ricorda Rozzano. “Prima era illegale. Lo era ancora, tecnicamente. Ho incontrato Jesse lì. Mi ha sentito suonare e mi ha chiesto di suonare a qualche festa clandestina. Penso che il rapporto tra bianchi e neri fosse circa di 60 a 40. Il 40% erano neri e mulatti. Principalmente mulatti. Era una cosa nuova. Era esotico. Era il 1990. Mandela era appena uscito. È stata quella la prima ondata di club misti. Per noi, che eravamo abituati a ballare solo tra persone nere, era ancora piuttosto strano ballare insieme ai bianchi.”
Qualche mese più tardi, i ragazzi hanno toccato il loro punto di non ritorno con il World Peace Party. “Il volantino era il logo ‘peace’ degli hippy,” spiega Stagg, “ma qualche organizzazione cristiana locale ha iniziato a strappare i poster che avevamo appeso in giro per la città. Sostenevano che fossero satanici. Ecco la reazione di Cape Town. Allora siamo andati dalle stazioni radio e siamo stati al gioco. Abbiamo fatto delle dichiarazioni dicendo che queste persone erano degli attivisti anti-pace. Questa cosa ha iniziato a circolare come notizia. Ne abbiamo tratto un sacco di pubblicità gratuita…”
Attraversando i binari che dividevano la città per razze, quattromila persone si sono dirette in un magazzino di Paarden Eiland, una mini-Woodstock per gli standard di quel tempo. Alle dieci del mattino seguente, dopo che si erano tirati un bell’areosol di popper e sudore marcio (e dopo essere giunti all’amara conclusione che il loro terzo partner era scappato con tutto l’incasso), il duo si è convinto che la scena avesse raggiunto una massa critica. Hanno assunto una manciata dei loro amici come collaboratori, Stagg si è licenziato dal suo lavoro come pubblicitario, e in nemmeno 48 ore hanno messo insieme 100,000R (circa 50,000 euro di oggi), per aprire Eden, con una capienza di mille persone, costruito con l’obiettivo di essere un luogo d’incontro ai confini del centro, nella cornice di quella che un tempo doveva essere una fabbrica di gelati.
“Eravamo davvero–e vorrei questa notizia si spargesse nell’etere per vedere se c’è qualcun altro d’accordo–uno dei primi superclub di sempre,” dice Stagg, “Questo è successo tre anni prima di Cream e tutto il resto. Tutti organizzavano feste in ambienti poco originali. Ma Eden aveva un suo brand, un logo ben caratterizato e un insieme di valori che andavano oltre l’essere semplicemente uno spazio dove le persone potevano ballare.” Hanno interpretato l’idea di essere una festa di arte libera. Per esempio hanno appeso sopra la pista da ballo una balena gonfiabile gigante in una rete. I loro buttafuori erano vestiti di viola, e si comportavano bene con tutti, li chiamavano "Guardiani dell’Eden". Hanno stampato decalcomanie di bambini sui muri e hanno messo in loop video artistici su schermi giganteschi, includendo “It” il film Feminazi di Kenneth Anger: un’ora ben spesa di interviste a donne che parlano del pene dei loro mariti. L’unica parte visuale era questa sequenza di vari peni alti tre metri proiettati sulle pareti del club.
“Ci piaceva sederci dal lato opposto, per guardare la reazione della gente,” ricorda Stagg. “Le decorazioni omaggiavano l’Hacienda. Era una roba fruity-industrial. Le pareti erano tutte dipinte con diversi colori. Avevamo grandi colonne, dipinte d’argento. Grandi travi a croce al centro, c’erano anche grandi palle al 50 percento di polistirene, dipinte d’argento e incastrate nei muri così il locale sembrava si amalgamasse su se stesso. C’erano grafiche gialle attorno al dancefloor. Ma l’entrata era sul livello superiore, quindi per arrivare alla pista bisognava scendere una lunga rampa. Creava un certo effetto scendere lungo quella via. Era un’anticipazione, e potevi vedere le luci, annusare l’odore del fumo, e iniziare a sentire scorrere l’energia che veniva da là sotto. Una volta arrivati lì ci si sentiva al sicuro. Sembrava di essere nella pancia della bestia.”
“Era molto sperimentale,” ricorda Matthew Quinton. “Mi ricordo che, nel mezzo di “Little Fluffy Clouds” di The Orb, la musica si è fermata e tutte le luci si sono spente, e i colori sono cambiati in una singola e roteante luce blu–come quelle della polizia, ed è partito un loop di schiamazzi di delfini, di canti delle balene. Tutti stavano in silenzio. La gente ha interrotto i suoi viaggi interiori e si è guardata intorno, cercando gli occhi degli altri. Poi, gradualmente, uno alla volta, abbiamo iniziato a provare a ballare su questo nuovo suono, muovendoci l’uno con l’altro, finché si è creata quest’onda che si contorceva di corpi dolcemente ondeggianti. Era, cliché a parte, un posto di scoperta interiore. Era a metà tra un utero e un rave. Si mescolavano sensazioni di sicurezza e di pericolo in egual misura.”
Insomma, è in questo utero che i fautori del gusto di domani hanno avuto la loro gestazione. A quell’epoca era solo un sedicenne ma il futuro top dj e fondatore di Mutha FM Nick E Louder si ricorda dell’Eden come di un posto “piuttosto strano. Ha chiuso e poi riaperto, diventando ancora più strano… Le persone provavano ad esprimere loro stesse–era un delirio di colori chiari, arancioni fluorescenti–credo che imitassero quello che potevano vedere sulle riviste. Le ragazze erano solite fare body painting e a parte quello rimanere nude. Tu potevi sederti lì e stare a guardarle…”
Chavda ha aiutato a tirar su la successiva ondata di rave in Sud Africa, co-fondatore di Synergy, era solo diciottenne quando è inciampato per la prima volta nel loro utero arancione. “È stato davvero il più grande club che ci sia mai stato a Cape Town. Suonavano tutto quanto a 124bpm, perché è quella la velocità a cui batte il cuore di un bambino quando è nel grembo della mamma. E i loro volantini venivano dal futuro. Li facevano di qualsiasi cosa – perspex, mutandine, potevano rischiare spendendo molto perché erano sicuri che almeno una persona su due sarebbe andata alla festa.”
Naturalmente, dato che la scena a cui si rivolgeva era comunque ridotta e isolata, Eden mancava di molte delle amenità di corredo. I vestiti, per esempio. “Nulla che si potesse dire appropriato era disponibile all’epoca,” dice Quinton. “Quindi le persone erano solite farsi i loro vestiti. Poteva capitarti di andare a casa di qualcuno un sabato sera, e passare tre o quattro ore a creare il tuo outfit. Avevo una sarta di fiducia in Greenmarket Square che faceva tutti i miei. Ogni tre mesi circa mi dicevo ‘Bene, è tempo di un nuovo outfit…’ Non c’erano uniformi, nulla che potesse assomigliare a un dress code. Mi ricordo una volta che stavo andando in bagno e ho visto un tale vestito come una rana gigante uscirne fuori. C’erano persone che non ballavano nemmeno, andavano lì solo per indossare i loro abiti sadomaso. Mi è capitato spesso di andare al club dopo la spiaggia, con i miei short e una maglietta malconcia.”
E, almeno per un po’, anche qualcos’altro ha continuato a mancare. Will Hutton: “Sono venuto fuori dalla gigantesca scena acid house di Londra. Ma quando sono arrivato l’ecstasy non aveva ancora invaso Cape Town, e non l’ha fatto fino all’ultima parte della prima stagione. Ma c’era la stassa euforia che c’era a Londra. La gente si scatenava al massimo senza che ci fosse una forza chimica dietro. Mi ha lasciato piuttosto basito. Mi veniva sempre da chiedere ‘Bene, dov’è la droga?’ e le persone mi diceva tipo: ‘Ecco, non ne abbiamo…’ e io rispondevo, ‘Ok, che cazzo state facendo allora?’
Stagg: “Era molto difficile farsi di qualcosa all’inizio. Spesso bisognava arrangiarsi in altri modi. Gli acidi andavano un casino. E poi c’era qualcosa chiamato ‘Tonico Dimagrante Del Dr. Baxter’, che si poteva comprare in farmacia giù a Sea Point. Aveva scritto a chiare lettere: ‘ATTENZIONE: NON BERE DOPO LE 4PM’. Mi ricordo di esserci passato davanti un pomeriggio e aver visto una coda lunghissima di raver, già piuttosto magri a dire il vero, tutti in fila per fare scorta del loro tonico dimagrante…”
“La prima stagione non ha avuto niente a che vedere con l’Ecstasy,” spiega Quinton, “A quei tempi qualche volta ti capitavano dei colpi di fortuna e avevi un amico appena tornato da Londra che ne aveva nascosta un po’ nella valigia. Ma nella maggior parte dei casi bisognava arrangiarsi per gli acidi. Il consumo di droghe non avveniva così alla luce del sole. C’era certamente pochissima coca. Ma la seconda stagione…”
“Perché l’abbiamo chiamato Eden?” sogghigna Stagg, “perché volevamo che fosse un enorme paradiso dell'E…”
Ed è effettivamente diventato presto un gigantesco paradiso dell'Ecstasy. E quando le cose vanno così, finiscono presto un po’ alla Tony Wilson. All’inizio del ’93 il club era un’emorragia di soldi. Nella troppa fretta i due non si erano preoccupati granché di fogli e contratti. In realtà non c’era nessun contratto tra i vari partner. Alcuni erano sempre più ansiosi di avere un ritorno economico. Alcuni non andavano d’accordo con gli altri. Uno era stato rimpiazzato: a insaputa di tutti gli altri, era stato sostituito da un uomo d’affari israeliano, che nel suo bel vestito incarnava il perfetto gestore di club, ed è subentrato attivamente a coprire la sua quota di passività nel bilancio. “Un bel giorno siamo arrivati e ci hanno detto che avremmo avuto un nuovo socio – Shirek, penso si chiamasse così,” ricorda Carl, “è stato in quel momento che le cose hanno iniziato ad essere davvero strane, in realtà…” Il bordello che stava al piano sopra il loro edificio si era spostato, stanco per il continuo rumore. Quindi hanno ereditato tutto un piano di nuovi uffici: con quattro docce e due jacuzzi. La droga stava diventando sempre più facilmente disponibile. La droga stava diventando un problema.
È una storia che si è ripetuta un migliaio di volte, l’idealismo con cui era nato il progetto ha lasciato il passo all’egoismo. Alla fine, i soci hanno semplicemente staccato la spina. Se ne sono andati senza recuperare un centesimo. “Ma non è mai stata una questione di soldi, comunque,” considera Stagg, “si trattava di fare qualcosa di originale. Proprio l’altra notte ho mostrato il logo di Eden a questa ragazza, ed è letteralmente impazzita. Ci veniva sempre quando era una teenager. Ho incontrato persone a Los Angeles, Londra, ovunque, che erano clienti dell’Eden. Abbiamo aperto gli occhi a migliaia di persone su quello che stava succedendo nel mondo. Questa cosa è impagabile”



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Un audiolibro è la registrazione audio di un libro letto ad alta voce da uno o più attori, da un lettore (speaker) oppure da un motore di sintesi vocale.

Descrizione
Il testo registrato può essere la versione integrale di un libro, o un testo scritto appositamente per essere pubblicato esclusivamente come audiolibro, o ancora una riduzione o una sceneggiatura (originale o non) scritta appositamente per la registrazione audio. Gli audiolibri possono presentare anche musiche e ricostruzioni sonore (sound design), anche se generalmente l'audiolibro "classico" prevede la sola voce dello speaker che legge il testo. Alcuni audiolibri sono letti da attori, cantanti o dagli scrittori stessi.
Esiste una specifica varietà di audiolibri dove la componente musicale è paritetica rispetto al testo. Si tratta di opere in forma di melologo.
Gli audiolibri, oltre a permettere la lettura dei libri mentre si è occupati in altre attività, possono essere anche un valido aiuto per molte persone affette da particolari handicap visivi o motori.
Gli audiolibri sono molto diffusi sul mercato anglosassone, in cui tutti i libri più importanti di norma escono contemporaneamente in versione cartacea e in versione audio (a volte anche in doppia versione audio: integrale e ridotta).

Storia audiolibro
Nella storia dell'audiolibro si distinguono tre fasi:
  • Registrazione su disco in vinile (anni trenta del XX secolo);
  • Registrazione su audiocassetta (nel dopoguerra);
  • Registrazione digitale (dapprima su CD audio, poi in formato l'MP3, oppure l'Ogg Vorbis).
Esistono anche formati più specifici, come ad esempio il DTB (Digital Talking Book), che consentono di sincronizzare la visualizzazione del testo a schermo con l'audio.
Un discorso a parte va fatto per i software di sintesi vocale che, tramite opportuni algoritmi, possono analizzare in tempo reale un testo e convertirlo in linguaggio verbale. Alcuni eBook reader li integrano nel loro software.

Audiolibro e rete
In rete si stanno ampliando anche le risorse completamente gratuite. Si usa, in genere, il termine audiolibro per indicare testi professionali interpretati da attori, quello di libro parlato per testi letti da volontari. Diverse organizzazioni hanno curato e realizzato biblioteche di libri parlati come quella di Verbania e Milano creata dai Lions o quella di Feltre del Centro Internazionale del Libro Parlato "A. Sernagiotto".
YouTube offre oggi a molti lettori volontari la possibilità di pubblicare video di audioletture: ciò ha incrementato la presenza in rete di audiolibri di opere letterarie antiche e contemporanee sconosciute o dimenticate e accessibili gratuitamente al grande pubblico.



Per cominciare, guardiamo queste immagini.
Di Barbara Eden. Nello show televisivo "Strega per amore", all'inizio...


Questo era il costume da Genio. Molto scialbo per gli standard di oggi.
Tuttavia nel 1968 la minigonna divenne popolare e Barbara Eden iniziò ...a indossare una minigonna in ciascuno degli episodi.


Ora, i regolamenti della censura del tempo proibivano di mostrare le gambe di una donna in minigonna, ma non potevano impedirle di indossare minigonne così …


Secondo sguardo. Vedi ancora la censura? No? Nessuna generazione di oggi lo farebbe. È l'ANGOLO DELLA FOTOCAMERA. Nello spettacolo la telecamera era inclinata per mostrare il pavimento, ma per lei l'angolazione della telecamera era sollevata fino alle ginocchia: in questo modo poteva stare in una minigonna, ma non avere le gambe mostrate sulla telecamera. Ma lei…


trovò il modo …


per aggirare questa limitazione.
Ciò che nessuno ricorda oggi è quanto controversa fosse la minigonna in quel momento.


Questa cantante ha realizzato una canzone di successo al riguardo: Harper Valley PTA (Parent-Teacher Association). E si è esibita anche sul palco con una minigonna. Il PTA di Harper Valley parlava di un PTA (PTA = un'associazione di genitori-insegnanti) conservatrice che condannava una ragazza perché indossava minigonne: quando lei se ne accorse andò e affrontò il PTA rivelando tutti i LORO peccati come l'ubriacarsi, avere amanti e così via. Quindi conclude dicendo che sono tutti ipocriti perché stanno facendo tutte queste cose terribili eppure hanno il coraggio di condannarla per aver indossato minigonne. Il che rifletteva la controversia della minigonna dell'epoca.
Durante gli anni 70-80 Harper Valley PTA è stato trasformato in un programma televisivo di breve durata ... E indovina un pò?


Barbara Eden ha recitato in esso. ORA notare l'angolazione della telecamera ... È rivolta verso il pavimento perché non è più vietato mostrare le gambe di una donna.


Al giorno d'oggi le minigonne e i pantaloncini corti nemmeno si notano… A meno che tu non abbia due belle gambe, come Catherine Bach in Hazzard.



Questi tipi di pantaloncini corti sono ancora definiti "Daisy Dukes".
Poi ci sono "Sweeps Weeks", le "settimane degli indici d'ascolto", in cui vengono misurate le valutazioni di uno spettacolo, che capitano periodicamente durante l'anno... E le valutazioni basse possono portare all'annullamento dello spettacolo, quindi ... durante quelle settimane allora la censura viene temporaneamente messa da parte.
È nelle "settimane degli indici d'ascolto" che TUTTE le donne attraenti dello spettacolo indossano bikini …


O altri abiti sexy …




che di solito non venivano indossati durante gli episodi al di fuori di questa fatidica settimana di valutazione!
Caso in questione, la serie tv "Chuck".



In questa serie, Chuck ottiene informazioni scaricate nel suo cervello. La bionda è la sua guardia del corpo del governo per così dire.
Era vestita in modo conservativo nella serie, tranne durante la settimana degli indici d'ascolto ... In quell'episodio sono andati a una festa - Una festa di Halloween penso - ed era vestita così.


Ed ecco come era vestito l'intero gruppo ...


Ancora. Solo durante la settimana degli indici d'ascolto. Quasi tutti gli altri programmi televisivi fanno la stessa cosa.


Li evito come la peste.
Quando ho cominciato a scrivere, ho dato per scontato che scrivere fosse una cosa SERIA e DIFFICILE e che mi ci sarebbero voluti ANNI per mettere qualcosa di decente sulla carta.
Sfortunatamente, nessuno scrittore esordiente la pensa così.
Tra gli scrittori non-professionisti regna sovrana l'idea che scrivere sia SPONTANEITA'. I non-professionisti credono TUTTI che sia SOLO una questione di ANIMA, di 'investigare se stessi' e altre scemenze simili.
Non c'è rispetto per il mestiere. Non c'è alcuna professionalità.


Gli esordienti non hanno la minima idea della differenza abissale tra le idee nella loro testa e quello che invece mettono VERAMENTE sulla carta.
E non ce l'hanno perché per diventare bravi bisogna prima ammettere di non esserlo, cosa che per qualche insano motivo a me venne spontanea quando cominciai a scrivere da ragazzino. O forse SOLO perché ero un ragazzino, se consideriamo che non ho MAI conosciuto uno scrittore che non si considerasse ALMENO alla pari di Stephen King.
Non ho mai conosciuto un solo scrittore che non si ritenesse alla pari ALMENO di scrittori leggendari (ma secondo lui 'normalissimi') come King, Brown o la Rowling.
E dal 'livello BASE di King' ambivano ad arrivare ALMENO al 'livello Manzoni, Leopardi, eccetera'.
Ma vi rendete conto del DELIRIO assoluto di pensare cose del genere?
Durante il mio master in editoria, per tre mesi ho letto manoscritti per valutarli per una casa editrice: 95 su 100 erano imbarazzanti per i loro stessi autori. Il 95 per cento erano storie raccontate da chi di storytelling non sa assolutamente nulla, e considera 'lavorare' alla sua scrittura una perdita di tempo di fronte alla genialità delle sue idee, alle sue perle di saggezza, alla sua vita unica e incredibile che 'ha vissuto solo lui in tutto il mondo'. Il 95 per centro erano scrittori con una penna assolutamente vergognosa.
E quando leggi le autopubblicazioni è la stessa, IDENTICA cosa.
Il discorso che autopubblicare 'è meglio' perché 'prendi il 70% sulle vendite invece del 10%' è una fesseria: il 70% di 0 è sempre 0.
Amazon sta lucrando sul fatto che chi scrive NON SA NULLA del MESTIERE dell'editore, e campa su varie vostre ignoranze di base:
1) pensare che manoscritto e libro siano la stessa cosa
2) pensare che pubblicare e vendere siano la stessa cosa (se pubblico, qualcuno mi comprerà -> niente di più falso)
3) non rendersi conto che pubblicare significa cercare di rubare il mercato a mondadori, einaudi, eccetera. Non rendersi conto che la competizione è mostruosa, e che si tratta di una competizione in un mestiere di cui non sapete assolutamente nulla.
E' come un pilota da corsa che si alza una mattina e dice: "Adesso mi costruisco un macchina da solo, in garage, con mezzi di fortuna, e poi chiedo alla FIA di entrare in formula uno. Tutto da solo! E che ci vuole a galvanizzare quattro gomme e assemblare un motore, e poi pilotare meglio dei migliori del mondo?! Ce la può fare chiunque"
E qui si capisce anche il motivo per il quale questi signori scrivono male: perché non hanno buon senso. Pensano che le case editrici siano tipografie. Ma uno che non sa nemmeno una cosa del genere come può costruire un mondo intero nella sua testa, e farlo passare per credibile alla MAGGIOR parte dei lettori?
Il 99% delle autopubblicazioni merita di non essere pubblicato da una VERA casa editrice perché è un cattivo libro scritto da un pessimo scrittore. Il suo libro offre 'contenuti' noiosi, privi di ispirazione e scritti in uno stile pessimo, e lui non se ne rende nemmeno conto.
E io, dal canto mio, non ho alcuna voglia di perdere tempo a cercare quel famoso 1% che scrive decentemente, o addirittura bene tra le autopubblicazioni.
E perché mai dovrei farlo?
Ci sono già le case editrici che li cercano per me.

E' un dei tanti lavori di cui non siete nemmeno a conoscenza.



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Il videoteatro è un fenomeno teatrale nato in Italia a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, nell'ambito della Postavanguardia, nel quale gli attori in scena interagiscono con strumenti di riproduzione di immagini in movimento, generalmente monitor o videoproiettori. Nel caso in cui le sequenze riprodotte non siano registrate ma riprese in simultanea con l'azione scenica, si utilizzano anche strumenti di cattura quali telecamere fisse o mobili.
Questo genere di sperimentazioni non si limitava solo all'utilizzo del video in scena come strumento drammaturgico, ma spesso le performance stesse divenivano oggetto di una trascrizione elettronica, generando opere autonome dallo spettacolo teatrale (videoclip, video artistici, promoclip, ecc...)
In Italia, tra le rassegne più significative dedicate al videoteatro si segnalano il POW-Progetto Opera Video-Videoteatro (poi Scenari dell'Immateriale) svolto a Narni dal 1984 (dove il fenomeno del videoteatro s'è sviluppato), il TTV di Riccione e il Festival 'O Curt di Napoli.

Storia
In Italia, a partire dalla fine degli anni settanta, si sviluppano forme teatrali sempre più distanti dalla drammaturgia e dalla parola scritta, e sempre più vicine alle tecnologie (il cinema, in primo luogo, e poi video arte, computer, videogiochi, musica elettronica).
Scrive Paolo Puppa, riferendosi a ciò che maturò in quegli anni:
«Svaporata la tensione della sperimentazione, spentisi ben presto i conati pauperistici delle cantine, riassorbite dal teatro istituzionale, e rinnovate in laboratori (…) il teatro immagine accentua le sue tecniche, perfezionandole tramite il mixage elettronico, non più meccanico ed artigianale. Irrompe la telematica che si impossessa del "corpo" del palcoscenico senza trovare più filtri ironici o ambigue resistenze. E dunque addobbo cinestetico, decorazione multimediale celebrano i loro trionfi, all’insegna dei videogames, degli spot pubblicitari, del telecomando, sollecitati da una rampante generazione cresciuta in un ulteriore scollamento tra paese e ideologia politica»

Sperimentazioni recenti
La sperimentazione che oggi nasce all'interno dei nuovi gruppi scenici (attualmente quasi tutti impegnati in operazioni video-teatrali) in realtà elabora una ricerca che ha subìto crisi, ripensamenti e contestazioni interne ed esterne. Fin dall'inizio si è trattato di sperimentatori che vedevano nello spazio del teatro (come successivamente accadrà per la comunicazione e la creatività video) il luogo ove poter riversare una cultura legata al frammento e alla citazione, all'arte della visione e alla sintesi espressiva.
La ricerca si evolve talmente tanto che il teatro delineatosi verso la fine degli anni settanta è all'insegna del tecnologico e dei media, e mira a spettacolarizzare la comunicazione. Le parole e le immagini sono un'unica dimensione, mezzi di comunicazione che "mettono in scena" le loro attrazioni-visioni, la segmentazione dello spazio scenico è abilmente sostituita dalla fiction e dallo schermo.
La frenesia e la velocità, la fiction e la simulazione, il corpo virtuale e l'immagine, sono concetti e linee espressive ricorrenti in tutto il paesaggio della Postavanguardia italiana degli anni settanta che giunge fino alle ondate delle sperimentazioni sceniche contemporanee che con consapevolezza hanno saputo ampliare il proprio percorso d'azzardo estetico fino alle dinamiche compositive del digitale e del web. La nuova spettacolarità della comunicazione interattiva e mobile.
Appropriazioni e sconfinamenti hanno via via messo in luce una varietà di punti di riferimento, tanto assidui quanto innestati grazie ad un procedere fatto di mitizzazione, citazionismo, contagio emozionale. La priorità della ricerca e della sperimentazione, in particolar modo nell'intenso bagliore degli anni ottanta fino alle totalità del XXI secolo, sembra aver conquistato spazi originariamente non suoi ed una nuovissima fenomenologia dell'entusiasmo creativo si è sviluppata soprattutto tra i livelli comunicativi più sperimentali del videoteatro digitale.
E tutto questo procedere di cinema e mass-media, media ibridati e nuove tecnologie, l'inserimento di ritrovate funzioni progettuali ed organizzative e la scelta di vigorose riscritture, sempre all'insegna del frammento e della contaminazione, sembra essere solo l'inizio di un qualcosa di veramente sensazionale da un punto di vista strettamente spettacolare, di avanzamento tecnologico e di ritrovata prospettiva teorica. Con le sperimentazioni presenti nel videoteatro digitale abbiamo la definitiva scomparsa del teatro documentato o semplicemente filmato, e il realizzarsi di un assieme di tecnica e creatività, plasticità delle visioni e priorità del corpo, flussi elettronici e gestualità pura, racconto naturale e re-invenzione del linguaggio scenico.


Risultati immagini per Ecco perché dovreste imparare a suonare uno strumento




Imparate a suonare uno strumento musicale. Fatelo e basta. Non è necessario che siate dei fenomeni o che ne facciate una professione, ma fidatevi di me, sarete felici di averlo fatto.
Suonare uno strumento musicale vi garantisce un numero praticamente infinito di benefici. Vi rende più intelligenti, per dirne una. Sì, avete capito bene. Imparare a suonare uno strumento è difficle, ed è stato ufficialmente dimostrato che aumenta sia la capacità di memorizzare informazioni che l'abilità di concentrazione. Non è nemmeno una cosa temporanea; alcuni studi suggeriscono che abbia effetti benefici a lungo termine, anche quando lo strumento sarà coperto da anni di polvere.
È anche un ottimo modo per migliorare le vostre capacità motorie, fa benissimo alle orecchie e migliora le vostre capacità cognitive. Pare che aiuti anche con la matematica, anche se non imparerete mai a leggere uno spartito. D’altro canto imparare a leggere e scrivere le note vi aiuterà anche a leggere e scrivere in generale. Non è necessario che vi fidiate della mia parola, ci sono innumerevoli studi e moltissime ricerche che a supporto di questa ovvietà. Fondamentalmente, è un ottimo allenamento a tutto campo per il vostro Gulliver, una sorta di puzzle che stimola in cervello ma che non si può risolvere senza mani e (a volte) piedi.
Imparare a suonare uno strumento vi darà soddisfazioni anche sul posto di lavoro, migliorerà le vostre capacità organizzative e vi farà ottimizzare i tempi. Ci vuole tempo per imparare a suonare uno strumento, quindi dovreste sforzarvi per trovare dei momenti da dedicare all’esercizio ma va considerata anche la soddisfazione che si ricava dal raggiungimento degli obiettivi. La perseveranza è una grande qualità nella vita e verrete senz’altro ripagati se decidete di prendere in mano una chitarra, anche con obiettivi modesti, compatibilmente con quanto vorrete diventare esperti. Entrando in una band (cosa che tutti dovrebbero provare a fare, prima o poi) riceverete qualche bella lezioni sul lavoro di squadra, le capacità comunicative, la gestione della propria personalità e, di nuovo, la tenacia e la perseveranza. Tutte queste cose vi daranno una grossa mano sia nel lavoro sia nella vita privata.
Se siete genitori, date uno strumento a vostro figlio: lo renderà un adulto più responsabile. Prendersi cura di un set di batterie o di un clarinetto richiede tempo e attenzione per i dettagli. Tra l’altro, se lasciate che sia vostro figlio a scegliere il suo strumento sarà più incentivato ad apprendere quale sia il modo corretto di prendersene cura. Probabilmente uno strumento renderà vostro figlio più abile a relazionarsi con gli altri, forse si unirà ad un gruppo della sua scuola, oppure ne formerà uno direttamente nel vostro garage.
Ovviamente c’è sempre qualche segaiolo della chitarra che rinchiude come una talpa nella sua cameretta a studiare per ore ed ore le tablature dei Rush, ma lasciatelo suonare e potreste sorprendervi quando questo recluso pseudo-Geddy Lee Jr. alla fine formerà una tribute band dei Rush. (“The Temples of Syrinx” sarebbe un gran nome per questa band.) Ma fidatevi di me su questo punto—incoraggiare vostro figlio a suonare uno strumento ad un certo punto gli sarà senz’altro di beneficio anche nelle relazioni, se non proprio immediatamente. L’ho visto succedere più e più volte—c’è un legame sociale tra musicisti, smanettoni e collezionisti che è piuttosto speciale. Il senso di realizzazione e raggiungimento di un obiettivo è ottimo anche per i ragazzi, specialmente quelli che hanno problemi di autostima.
Ci sono molte altre cose per le quali imparare a suonare uno strumento può aiutare, come migliorare il sistema respiratorio, sconfiggere la paura del palcoscenico, alleviare lo stress e bla bla bla. Potremmo scrivere dieci pagine di benefici, se ne avessimo voglia. Ma veniamo al dunque: che tu sia un maschietto o una femminuccia, saper suonare uno strumento ti aiuterà a piacere ad altri maschietti e femminucce in quel modo speciale. È una cosa dimostrata.
Deve ancora succedere che un musicista, professionista o aspirante tale, riscontri maggiori difficoltà nel rimediare un appuntamento dopo aver spaccato sul palcoscenico. C’è qualcosa di intrinsecamente affascinante nell’avere in mano un basso o una chitarra, o anche nello stare seduti dietro i pezzi di una batteria e nel suonare col cuore. Questa è la parte davvero figa: quello che suoni non ha nemmeno importanza. Se uno strumento musicale esiste, stai pur certo che là fuori c’è la sua groupie adorante che ti aspetta. Se questa è la tua motivazione, direi che gli strumenti classici da rock band potrebbero funzionare meglio dell’oboe, per dirne uno, ma sono anche pronto a scommettere che il primo oboista della Filarmonica di New York non abbia grandi problemi a rimediare un appuntamento.
Non è troppo tardi, ragazzi. Questo consiglio non vale solo per i giovani. Infatti imparare a suonare ad età più avanzate può solo essere più vantaggioso, dal momento che può aiutare a recuperare alcune delle capacità summenzionate che potrebbero essere andate perdute negli anni.
Io stesso ho formato il mio primo gruppo all’età di 38 anni. Siamo tutti dei vecchietti, uomini sposati che si riuniscono una volta al mese per bere un po’ di birra e suonare cover di brani famosi nel mio seminterrato. Ci capita di esibirci nei bar e nei festival nelle vicinanze, circa tre volte all’anno. E sapete cosa c’è? È la cosa migliore che io abbia mai fatto e uno dei momenti più eccitanti della mia vita da adulto.


Risultato immagini per Arte generativa



Il termine Arte generativa si riferisce al concetto di “Arte che genera arte” dove, l'opera artistica, è il prodotto di un sistema autonomo in grado di determinare le caratteristiche (forme, suoni, colori, ecc.) di un'opera che altrimenti richiederebbero decisioni prese direttamente dall'artista.
In alcuni casi, l'artista uomo, può concepire che l'opera finita sia rappresentativa della sua idea artistica, in altri casi è il sistema autonomo ad assumere totalmente il ruolo di creatore. Opere d'Arte generativa possono essere create attraverso sistemi meccanici, robotici, informatici, chimici, di randomizzazione ed altro.
-nel campo digitale- l'Arte generativa muove i primi passi a partire dagli anni ottanta e nasce da una limitata interazione fra uomo e macchina data dall'uso di software-idea (generativo) o dall'impiego di formule matematiche che consentono la realizzazione di opere d'arte, visuali, architettoniche, letterarie o musicali, partendo da un'idea che non sia esclusivamente quella umana.
Grazie a questi programmi è possibile creare da forme semplici, strutture sempre più complesse e diverse consacrandole come uniche nella sfera dell'individualità. Una raccolta di articoli e lavori di Arte Generativa è nel sito www.generativeart.com, sito del convegno - festival annuale di Arte Generativa.
In questa direzione opera il celebre Ward Adrian, autore di software generativi di elevata qualità come dimostra la sua opera intitolata Signwave Autoillustrator, un software semi-autonomo che ha lo scopo di creare disegni di grafica vettoriale.
Sempre nel campo della grafica e del design stampato ed elettronico, opera anche il gruppo svizzero dei Buro Destruct.
Questo gruppo dopo aver esaminato il design elvetico degli anni sessanta, ne ha estrapolate le regole fondamentali codificandole in BDD ossia un software (per entrambe le piattaforme macOS e Microsoft Windows) che crea combinazioni di forme sempre nuove e distinte adatte per essere usate come loghi e pattern in coerenti ed organiche combinazioni cromatiche.
L'azione del gruppo svizzero risulta molto interessante se considerato il processo di codificazione in formule di uno stile riconosciuto storicamente, creando una serie di regole di riproduzione concettuale.
Invece verso la creazione collaborativa si sposta l'attenzione della ricercatrice Elisa Giaccardi che prendendo spunto dal progetto Generatore Poietico di Olivier Auber, utilizza il web come luogo di incontro fra utenti che sperimentano la creazione di un'immagine collettiva attraverso la rete. Anche un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano capitanati dal Prof. Celestino Soddu, implementano e sperimentano le potenzialità dei software generativi. I primi software generativi di C. Soddu che generano modelli tridimensionali di città medievali Italiane sempre diverse sono del 1987.
Secondo Soddu l'idea-processo genera una dilatazione sorprendente ed infinita della creatività attraverso espressioni plurime e aperte dell'idea generante stessa.
Il progetto generativo portato avanti dal Politecnico di Milano, nasce dalla volontà di indagare ed ampliare i campi della creatività umana non conseguibili ai giorni nostri senza l'utilizzo di strumenti informatici.
In questa chiave si attua un processo a catena in cui l'arte viene espressa dalla creazione del generatore, dalle creazioni fatte dal generatore stesso e dalle opere che quelle creazioni possono far nascere tenendo sempre presente che l'idea è processo.

Lavori
Pietro Grossi, il pioniere della computer music, dal 1986 produce computer grafica, scrivendo programmi che generano processi autonomi, che creano immagini sullo schermo, assolutamente imprevedibili e irrepetibili, elaborando il concetto di HomeArt “arte creata da e per se stessi, estemporanea effimera, oltre la sfera del giudizio altrui”.
Goldberg's Variations è un esempio di arte auto-generativa. Il software autom@tedVisualMusiC,[1] creato da Sergio Maltagliati compositore, programmatore e artista italiano, attivo nel campo dell'arte digitale e computer music, genera, partendo da una semplice cellula, molteplici e complesse variazioni musicali e visive. Le immagini, create in relazione a precise corrispondenze suono/segno/colore, seguono il mutare delle note e sono visualizzate attraverso il programma autom@tedVisualMusiC. Il codice di programmazione viene scritto sulla base e sulle esperienze dei programmi realizzati da Pietro Grossi negli anni '80 nel linguaggio BBC Basic con computer Acorn Archimedes, una programmazione solo apparentemente senza logica, affidata ad una casualità, che pone l'artista in una situazione di controllare i processi creativi nella misura desiderata. Il risultato ottenuto è un programma automatico e generativo che, partendo da una semplice sequenza sonoro-visuale, genera innumerevoli e infinite variazioni, dove anche l'ascoltatore-fruitore ha un ruolo predominante: la superficie dell'immagine genera dei campioni differenti di colore e di musica, facendo scorrere liberamente il mouse sulle immagini.


Risultato immagini per Artbook


Un artbook, o art book, è una raccolta di immagini e disegni, realizzati anche con l'ausilio della computer grafica.
Tale raccolta è generalmente rilegata in forma di libro, le cui pagine possono essere di carta semplice, plastificata, o pergamena.
Gli artbook hanno generalmente come oggetto un unico tema: possono raccogliere fotografie, immagini di film e serie televisive, o disegni d'artista.
Gli artbook stanno acquistando popolarità in special modo nel campo di anime e manga: molti mangaka, infatti, realizzano artbook per aumentare la popolarità delle proprie opere e creare raccolte di disegni da collezione per i fan.




Non credo esiste un simile blocco. È un mito. La scrittura è come un muscolo. Quello che tu definisci blocco è come quando porti qualcuno in palestra dopo qualche anno di sedentarietà. Si blocca perché non aveva fatto attività fisica.
Idem la scrittura. Il libro non si materializza così all’improvviso. Quando dico a qualcuno che ci vogliono 4–5 anni tra ricerca e scrittura mi guarda male. Certo, esistono scrittori che pubblicano libri in 2–3 mesi. Ma tutti questi libri sono simili tra di loro. Dopo le prime 10 pagine capisci che se lo butti via non cambia la tua vita.
Stephen King parla di questo muscolo di scrittura nel suo libro autobiografico sulla scrittura. Il blocco è dovuto all’inattività e per superalo basterebbe trasformare la scrittura in abitudine. Un grave incidente auto gli proibì di scrivere per mesi. Altrettanti mesi ci vollero per farlo rientrare in pista.
Non puoi vincere una maratona senza allenamento. Perché ti blocchi da qualche parte nel percorso . Uguale per la scrittura. Scrivere non è difficile, ma farlo quotidianamente, questo è un problema.
È più una questione legata all’autodisciplina. Procrastinare è sempre la parte più facile.
Lo sappiamo tutti.